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Home Cultura Cinema

«La delegazione», il film di Bujar Alimani al Trieste Film Festival

«Recensione difficile e differente se visto da dentro o da fuori l’Albania». Una recensione di Zoto Kanina.

Zoto Kanina
21 Gennaio 2019
in Cinema
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Al Trieste Film Festival il film albanese «La delegazione» del regista albanese Bujar Alimani è stato particolarmente apprezzato dalla critica e dal pubblico italiano e internazionale.

Naturalmente è internazionale il film e sono internazionali le intenzioni e le ambizioni del regista (e della produzione).

«Alla fine del 1990, mentre il regime comunista albanese sta ancora cercando di rimanere al potere, un prigioniero politico viene segretamente fatto uscire dal carcere e mandato a Tirana per incontrare un suo vecchio compagno di scuola, ora a capo della delegazione europea che deve valutare se l’Albania ha fatto progressi nel campo dei diritti umani. Ma nulla va come previsto…Vincitore del Grand Prix all’ultimo festival di Varsavia». “La delegazione”. Questo è il testo di presentazione ufficiale nel catalogo

Tutto sommato, a differenza dei precedenti tentativi albanesi di presentare il proprio paese e il proprio passato al mondo, questo film è molto più riuscito. Difficile scegliere a chi o a che cosa attribuire il merito di tale riuscita, se al regista, al soggetto (di Artan Minarolli ), agli attori o alla direzione della fotografia, ma forse, appunto, è l’internazionalità della produzione e degli obiettivi (anche nel senso della prospettiva da cui vedere la storia).

La storia racconta momenti particolari durante il 1990, dopo le prime ribellioni gli ingressi forzati alle ambasciate, il tentativo degli avvoltoi del sistema-regime di salvare la faccia e il proprio futuro davanti alla comunità internazionale (ovviamente qui non più nell’accezione internazionalista, ma di apertura all’economia di mercato). È l’inizio di questa ossessione albanese di badare al giudizio degli altri e  di costruirsi un immagine di facciata esclusivamente per loro, a prescindere dalla realtà del paese. Questo nel film traspare in modo molto chiaro, attraverso il dialogo dei due detenuti politici.

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È il cambiamento repentino di un sistema gattopardesco che prima non esita ad utilizzare la violenza verso la propria gente (sempre posta in secondo piano) e che poi, vista  la necessità di riciclarsi nelle nuove forme di potere, gli occorre presentarsi al mondo e all’Europa con una veste di mansuetudine e cordiale apertura al fine di curare al meglio i propri interessi e gli affari a venire.

Il giudizio positivo da esprimere sul film è garantito da alcuni elementi storici che coincidono e sono capaci di parlare sia agli albanesi di oggi sia al pubblico internazionale a cui il film è indirizzato. È percepibile, come la grande Storia, nella storia del film, non si muova; negli stessi apparati di uno stato criminale si costruisce non una rivoluzione o un capovolgimento, ma un scivolare verso un nuovo terreno da conquistare mantenendo la stessa stratificazione sociale e politica, quindi la stessa gerarchia. L’unica parte della società che pare muovere la Storia e muoversi nella Storia sono i giovani, ma anche qui, attraverso la rappresentazione di un’altra verità fondamentale di quell’Albania, quella della distanza fra città e campagna, fra i giovani di città e quelli delle zone rurali.

Queste sono quelle verità oggettive che appartengono anche alla visione di una critica che dovrebbe provenire e muoversi dall’interno dell’Albania. Il grido di verità che rimane inascoltato nella Storia dell’avvenire del paese – e che grazie a questo film è meravigliosamente intuibile – è insieme il grido di un senso di giustizia che anche esso scivola e scivolando passerà nella Storia a venire attraverso le finte trasformazioni da parte di chi le ingiustizie le ha commesso e attraverso un popolo che non poteva nemmeno più pretendere giustizia, in quanto esso stesso, forse, più carnefice che vittima.

Le vere vittime del sistema non avranno dalla loro non soltanto la giustizia, ma nemmeno la Storia, ma forse, e dovranno accontentarsi di storie da raccontare come questa. La Storia non si muoverà per loro se non davanti agli occhi degli osservatori internazionali. Questo, per chi è in grado di coglierne in messaggio, è finalmente un bel film perché offre finalmente questa verità in un linguaggio comprensibile ai più ma senza finire nel banale.

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Malgrado ciò, però, il film, nella stessa dinamica di «delegazione internazionale», porta esso stesso alcuni aspetti che non si può non criticare:  nel suo essere un veicolo di divulgazione della storia albanese, una fotografia del paese da trasmettere al mondo, non è, però, capace di essere fino in fondo e del tutto un film per gli albanesi.

Il punto è rappresentato, come testimoniato dai tanti esempi nel mondo del cinema o della letteratura, dal sopraggiungere del momento in cui si smette di creare per la comprensione di chi sa, e si inizia a divulgare immagini in favore di chi non sa, attraverso una strana pedagogia di parole deboli ma comprensibili alla superficie.

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È molto simile alla differenza che c’è in Gitai, e nella sua cinematografia con un un prima, scritto per gli israeliani e un dopo quando inizia a scrivere per il mondo; nella cultura albanese i capolavori del cinema (e ovviamente della letteratura) sono tutti quelli che mostrano indifferenza e addirittura scherno rispetto alla  visione altrui, come ad esempio il grande Anagnosti o in letteratura Kadaré.

L’esempio più straordinario è il cinema italiano del dopoguerra, quel cinema che, rivolto agli italiani, riempiva le sale di popolo italiano, indifferente al giudizio esterno, e che quel «giovane vicino a De Gasperi», Andreotti,  condannava e chiedeva di censurare per l’immagine negativa che si dava dell’Italia nel mondo. In Albania questa fase contraddistinta da un grande cinema libero che si facesse portatore delle esigenze della propria visione nazionale come testimone  della ricchezza culturale del paese non c’è mai stato dopo il regime.

Troppo facilmente e velocemente il paese prese a vedersi con gli occhi estranei degli osservatori internazionali, o chiunque dall’Estero. Il paese divenne velocemente un miscuglio schiacciato verso il basso e identificato nella presunta e finta diversità esterofila di una capitale senza storia e senza “lingua”. Infatti nel film il problema grave sta nella lingua albanese (oltre che le traduzioni tremende in italiano – si spera solo temporanee) e la collocazione geografica della storia.

Si fa fatica a conciliare le targhe delle auto con i dialetti strampalati della gente del posto,  il nord, flessioni dialettali indefinibili, con modalità espressive e colorite del sud. È questo il tratto mancante di una cura che evidenzia esplicitamente l’aver pensato il film in una lingua neutra, un film che deve andare oltre le parole, ma appunto, nella dimensione tremenda dell’international-english-thinking piatta e divulgativa, ma assolutamente non profonda ed artistica.

La cura nel linguaggio e nelle sfumature dialettali, quella straordinaria dimensione realistica necessaria al cinema e alla storia qui manca totalmente. Il film è una cartolina, un simbolo verosimile della realtà albanese degli anni, ma nonostante questo, è uno dei più riusciti e fra i pochi in cui il gap fra visione interna ed esterna, fra chi sa e chi non sa, perlomeno non è così eccessivo. Quindi, questo  film, nell’ambito della critica internazionale merita il successo che riscuote quanto, forse, lo meriterebbe anche anche in un Albania che sta dimenticando di ricordare.

La mia domanda, quale vorace appassionato di arte albanese, di “lingua” albanese, di forme di rappresentazione albanesi indipendenti dalla ossessione per quel che dicono gli altri, è questa: quando faremo dei film albanesi veramente rivolti agli albanesi?

Forse (e io lo propongo come una convinzione anche se potrebbe sembrare una polemica) quando «la Capitale» e la sua patinata quanto menzognera visione di una classe media (e mediocre), che così male pensa di se stessa, smetterà di avere potere, di raccontarsi con gli occhi dell’Occidente, o meglio, con gli occhi che lei pensa l’Occidente la guardi.

Ora, in questo momento storico, è la prima volta nella Storia che la massa in Albania ha un’opinione del proprio paese peggiore di quella degli altri che la giudicano fuori dai confini nazionali.

Argomenti: Bujar AlimaniFilm AlbanesiTrieste

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