Il bisogno di ricordi, la memoria e un sotterraneo che conserva vecchi rulli, trascinano il cineoperatore del regime in un’introspettiva consapevolezza. Dalla dittatura di Benito Mussolini a quella di Enver Hoxha: è amara e limpida l’analisi che l’uomo fa di sé e del suo ruolo dietro quella macchina da presa, con cui racconta la storia dei Totalitarismi del Novecento.
È Alfredo Cecchetti l’indiscusso protagonista del docu-film La macchina delle immagini di Alfredo C. per la regia di Roland Sejko, distribuito da Istituto Luce e presentato alla Biennale di Venezia, nella sezione Orizzonti.
Narra la storia di un uomo, (interpretato da Pietro De Silva), dalle strane peculiarità; è un operatore foto-cinematografico rimasto al servizio del cinegiornale Luce, di creazione fascista, proiettato obbligatoriamente in tutti i cinema italiani prima della messa in onda di ogni film, per diverso tempo. Durante gli anni di lavoro, Alfredo Cecchetti gira le scene più celebri dei cinegiornali dell’epoca, incentrate prevalentemente sulla figura del Duce, sino all’invasione dell’Albania avvenuta nel 1939.
Quando il Paese balcanico viene liberato dai fascisti, moltissimi italiani rimangono bloccati in balia del regime, tra cui lo stesso Cecchetti, che passa al servizio di Enver Hoxha. Non è costata poca fatica al regista albanese reperire notizie e materiali sull’operatore cinematografico: è stata decisamente approfondita la ricerca, che si è svolta tra l’Albania e Roma, città dove Sejko risiede.
Questo La macchina delle immagini di Alfredo C. non vuole solo raccontare la storia di un uomo, del suo lavoro e della sua passione vissuta tra due regimi dittatoriali. Vuole, anche, narrare dell’importanza della memoria, dell’urgenza del non dimenticare e del ruolo salvifico che le rimembranze, spesso, assumono. Ed è frenetica la necessità di Alfredo di ricordare, di rivedere le immagini che ha filmato, di imprimere nella memoria i vari volti che ha ripreso.
È importante, per lui, estrapolare dalla propria mente le figure ben profilate, affinché nel tempo non si trasformino in mostri vaganti, senza più un senso, senza più un nome. Ed è lì, in quel magazzino, in quel sotterraneo dove vive una sorta di schedario delle immagini, che Alfredo ricorda come ha ripreso il Duce, in quali frangenti e con quali espressioni; ricorda di come ha illuminato artificiosamente le piazze, ormai buie, di come si è magistralmente servito delle sue conoscenze. Lavorando per Luce, ha imparato tante cose, che ha saputo usare e applicare.
Non sempre i ricordi sono belli, spesso hanno lo stesso effetto di uno schiocco di frusta e poi emerge prepotentemente la sofferenza per non poter più dare vita a quei rullini, a quelle immagini. Allora, entra in gioco la memoria, è quella di un vecchio, ma ha la sua giusta e importante priorità. Ed è qui che Alfredo si interroga sul proprio ruolo, sulla “posizione etica” che ha assunto la sua macchina, grazie a lui o per causa sua. Durante il lavoro di montaggio, attraverso le immagini, rivive quei momenti, in cui era lì, era presente: si rivede mentre immortala il finto giubilo o il massacrante e intenso dolore. Le sue emozioni diventano tangibili e la sua sofferenza arriva allo spettatore, in tutta la sua interezza. Un grande testimone di fatti storici, Cecchetti ed è attraverso la sua storia e la sua figura, che Sejko veicola importanti riflessioni sull’utilizzo delle immagini e sul ruolo di chi filma, artefice del destino delle figure ritratte, delle ambientazioni riportate e delle vive sensazioni trascinate. Il tentativo, ben riuscito, è quello di dare un’immagine unica e corposa della macchina e del suo custode, perché l’una è mossa dalle intenzioni dell’altro. Ed è proprio in base all’intenzionalità del cineoperatore, che la camera si muove, immortalando in maniera differente le figure, che in futuro, animeranno il prezioso documento, dalla capacità mnemonica inestimabile.
La macchina da presa e la cinematografia diventano un’arma: la prima nelle mani di chi le usa, la seconda agli occhi di chi le guarda. E poi c’è quel velato senso di sconfitta, quella voglia di ridare vita alle pellicole, che nonostante tutta la loro potenza, rimangono immobili. La memoria avrà la stessa capacità? Resterà viva e immobile? Si impegna Cecchetti, cercando di ricomporre il puzzle delle vicende che hanno attraversato la sua vita, fatte di lavoro e passionalità, sulle quali ha costruito tutta la sua esistenza.
Sejko fa un cruento ritratto di chi sta dall’altra parte della camera, spesso testimone di fatti drammatici e incapace di modificare il corso delle cose. Insomma, a parte qualche forzatura segnalata dalla critica più aspra, come la ricostruzione della posizione e del ruolo della massa, che (secondo i pareri più severi) sarebbero stati creati ad hoc per la sceneggiatura, sembra che Sejko abbia fatto proprio un buon lavoro e questa non è sicuramente la sua prima buona produzione cinematografica.
Ormai in Italia dal 1991, nasce a Tirana, dove studia Storia e Filologia. Si occupa di editoria per un breve periodo prima di approdare nel Bel Paese e qui si dedica alla cinematografia per l’Istituto Luce (la più antica casa cinematografica italiana, ora fusa in Cinecittà Luce, società di cinema pubblico), con attività incentrate sulla produzione di cineteche storiche e di lungometraggi.
Nel 1999 fonda e da allora dirige il quindicinale albanese Bota shqiptare (Il mondo albanese), rivolto alle comunità albanesi in Italia. È nel 2008 che sigla il suo primo lavoro come regista, co-dirigendo il documentario Albania, il paese di fronte, in cui traccia la storia albanese, basandosi esclusivamente sui materiali d’archivio dell’Istituto Luce e della Cineteca Albanese. Nel 2012 scrive e dirige Anija – La nave, un docu-film sull’esodo degli albanesi verso l’ltalia dei primi anni Novanta. Un documentario di grande successo, con cui si aggiudica una nomination ai Nastri d’Argento Film Award e nel 2013 il David di Donatello, come miglior lungometraggio dell’anno.