Fin da bambino, per tanti anni ho creduto che vivesse un altro Blerim, del tutto simile a me, un mio gemello, uno completamente uguale a me, in una strada di Tirana.
Non mi ricordo dove e come ebbi per la prima volta questo pensiero. Molto probabilmente ho inventato questo personaggio fittizio per ingannare lo scorrere inesorabile tempo lontano da casa. Forse alla fine il tempo ha ingannato me.
Forse…
Fa ancora troppo caldo per essere una notte di Ottobre. Ad occidente il cielo è di un rosa sfumato di lavanda mentre ad oriente le ultime tracce di porpora e blu cedono ormai il posto al velluto nero della notte.
Il cielo notturno è più bello di qualunque quadro impressionista. La luna è comparsa chissà da dove, scivolando fuori dalle nuvole che corrono via verso l’ignoto, l’imponderabile. Libere da ogni ostacolo,sciamano verso nuovi spazi. Libere, eppure schiave dell’alito leggero di vento che le spinge.
Roma dall’alto,è meravigliosa, ti sembra di volare su un tappetto di stelle. Ma so che tra poco mi abbraccerà appassionatamente facendomi capire chiaramente che vuole essere LEI la mia unica città:
Tirana. Benedetta Tirana!
Dove mi aspetta la mia vecchia casa.La villa bianca in cui sono cresciuto e che ho lasciato, e non avevo ancora quattordici anni.
Pezzi di cuore.
Pezzi di vita.
Si lasciano mai le case dell’infanzia?
Mai: rimangono sempre dentro di noi.
Sono impaziente e sto tremando. Mi separa un cielo dalla mamma e dal suo “byrek” . La mia felicità ha il colore azzurro.
“Vuoi starci tu al finestrino?” chiede Hana e il mio sguardo stupito è già una risposta. Se dovessi descrivere l’impazienza, l’immagine sarebbe questa. La fronte sudata appoggiata al finestrino, le ginocchia che tremano, e quell’emozione così forte, da farmi quasi male, nello stomaco.
Ma non è paura. Pura felicità: la strada verso casa. Chiudo gli occhi. Perle di stanchezza esplodono da dentro. Non so piu’ quante volte ho preso quest’aereo per tornare a Tirana.
E dire che un tempo l’orizzonte del mio mondo era tutto chiuso, dentro un giardino con due grandi tigli, che a primavera, a Tirana, quando sono in fiore, stordiscono, insieme alla brezza che arriva dal mare. Se ora chiudo gli occhi posso ancora sentire, quel profumo.
Kalasias, il nome del mio quartiere, straniero, come me lontano dalla patria; mi basta pronunciarlo per tornare indietro nel tempo. Indietro fino a quelle ville con i giardini dove andavamo a giocare. Mi ritorna in mente, sempre, la finestra della mia camera, quando magari mi trovo di notte con un biglietto di aereo per Boston o New York, e dall’albergo vedo solo grattacieli.
Che tristezza!
Tutto molto lontano da quella villa bianca, immersa nel verde.
Un fruscio leggero. Un bambino che cerca di rincorre una palla mentre lecca un gelato alla fragola.
Possibile?
Mi volto appena. Nessuno. Solo il rollio dell’aereo in pista.
Silenzio.
La hostess passa col il carello del caffè. Non ho voglia di caffè alle otto di sera, voglio solo pensare ai miei cari che porto dentro di me a spasso per il mondo.Sento la loro presenza quando sono lontano, il mio respiro violento si intreccia col loro,alitano di meraviglia quando mi meraviglio, li sento felici di vita riflessa, i miei occhi si specchiano in altri occhi vicini, invisibili e veri.
Avverto nella lontananza la loro prossimità.
Di nuovo, un fruscio, un lievissimo spostamento d’aria. Ora quel bambino ride. Raccoglie la palla con le mani sporche di gelato sciolto e mi guarda: mi fissa profondamente dentro negli occhi, ed è come se stessi guardando me stesso. Non è solo quel bambino. Con lui c’è una donna, matura come la vecchia di Ronsard, con volto pieno e di carnagione chiara. Le chiome folte e nere, composte di piccolissimi riccioli rotondi. Lo sguardo è dolce, quasi languido.
E c’è un signore elegante che porta in mano, come se fosse una cosa preziosa, una fisarmonica. La mia fisarmonica, quella che i ladri portarono via quella volta che entrarono in casa. Insieme alla fisarmonica anche le lettere d’amore che mia nonna aveva ricevuto nell’arco di tutta la sua esistenza. Un mistero. Come la vecchia cartolina che tengo nel portafoglio. Una foto di Tirana.
Ecco il passato riemergere dalla carta ingiallita allo stesso modo in cui la madeleine di Proust aveva fatto uscire dalla tazza di tè tutto il tempo perduto. Si vedono le cupole della moschea di Et’hem Bey , la torre dell’Orologio, la piazza “Skanderbeg” , e lontano, molto lontano- solo lo sguardo di chi ama la puo’ conoscere- si intravede la mia casa.
Non è solo una cartolina. E’ un invito, una PROMESSA.
Perché, ovunque io sia, Tirana mi aspetta. La mia Tirana, dove sto atterrando adesso insieme alla mia moglie, Hana e al mio figlio, Alban. All’uscita del varco passeggeri, come un cicerone impaziente, trasudo entusiasmo: finalmente posso mostrare a Hana la mia terra.