Origliare Sanremo ieri dalle fessure del muro invalicabile che separava l’Albania ermetica dall’Italia, significava firmare la propria condanna.
Già, perché sotto dittatura, in Albania si veniva condannati non solo come si suol dire in albanese: “Vetëm për një fjalë goje” (“Solo per una parola sbagliata”), ma anche per aver intonato una musica “sbagliata” oppure per aver scelto un pentagramma “pericoloso“.
In concomitanza del Festival di Sanremo, 69esima edizione, riporto alcune riflessioni sull’influenza della musica straniera in Albania negli anni della dittatura e le gravi conseguenze che subirono alcuni artisti albanesi anticonformisti per averne abbracciato i suoi suoni, ritmi e vitalità.
In un’Albania cupa, per chi non ne fosse informato, durante la dittatura per circa mezzo secolo, dal dopoguerra, fino ad inizio anni ’90, si veniva perseguitati dal regime, anche solo per aver seguito, ammirato o imitato canzoni sanremesi, musica italiana o straniera in generale.
La censura proibiva il contatto degli albanesi con i mass media stranieri
Alla popolazione veniva impedito di seguire emittenti televisive e radiofoniche straniere e le persone tentavano di nascosto, attraverso vari stratagemmi e colpi di puro ingegno, di captare le onde straniere di trasmissione dei vari programmi.
Basta citare solo i titoli di due canzoni in lingua albanese, scritte ed interpretate ad inizio anni ’90 in Albania, in democrazia e nel cambio dei sistemi politici appena effettuatosi, quali:
“Rock del carcere” di Françesk Radi e “Perché cantavamo Let it be” di Sherif Merdani e il contesto induce immediatamente alla loro triste e travagliata storia personale di vita e carriera.
Entrambi questi cantanti albanesi anticonformisti, erano stati internati od incarcerati, per la loro unica “colpa”: quella di essere stati degli spiriti liberi, per di più essendo degli artisti, per aver infranto le regole della dottrina in vigore, la quale sotto totalitarismo impediva all’influenza della musica e della cultura straniera di “contagiare” l’arte albanese, quest’ultima, completamente indottrinata.
Per due decadi, loro sono stati privati della libertà – parzialmente l’uno, con l’internamento e completamente l’altro, con la carcerazione – in modo rispettivo.
Perché, subito dopo il famigerato 11esimo Festival della Canzone Albanese, nel 1972, noto nella storia della società albanese come kermesse che, attraverso le performance di alcuni artisti, ha infranto i rigidi schemi di censura e ideologia comunista, che ha portato sul palco “gravi manifestazioni di influenze trasgressive straniere nella musica, nei testi, nel look dei cantanti, nelle loro attitudini sul palco”, per alcuni tra gli artisti partecipanti, tra cui i due cantautori sopracitati, sono iniziati i lunghi calvari in campi di internamento oppure in prigione, con l’accusa di “agitazione e propaganda contro il governo“.
Loro – e la lista con nomi di artisti albanesi perseguitati sotto dittatura, è purtroppo lunga, tra cui anche alcune donne – hanno visto la libertà solo ad inizio anni ’90, anni dell’avviamento della transizione albanese verso il cambio dei sistemi politici, proiettandosi finalmente sulla democrazia.
Uno di loro, Françesk Radi, in Albania era noto come “L’Adriano Celentano albanese“.
Avevano voci molti simili entrambi questi cantanti – l’italiano e l’albanese – e lui faceva notare apertamente la sua passione per la musica leggera italiana, anche quando questo era proibito, da ribelle ed anticonformista qual era.
Al primo anniversario della sua scomparsa, nel 2018, il Comune di Tirana gli ha dedicato una statua facendola erigere nel Lago Artificiale della capitale, luoghi in cui, lui con la sua chitarra si esercitava per le sue nuove canzoni negli anni ’70 – prima di essere internato da Tirana a Fushë Arrëz, Pukë, Nord Albania, con il divieto di esercitare la professione di cantautore – diventando, pagando a caro prezzo sulla propria pelle, fonte di ispirazione, di civiltà e libertà per la sua generazione, stretta nella morsa della censura e della dittatura in Albania.
Per cui, senza politicizzare il Festival di Sanremo oggi, il parallelismo tra due contesti diversi, due paesi diversi, che coinvolge ergo Italia ed Albania, in epoche differenti ma, con denominatore comune “la musica italiana e magari il palco dell’Ariston”, mi sorge spontaneo.
“Artistët nuk duhet të jenë konformistë, nuk duhet të jenë palë me politikën, nuk duhet të kenë frikë të thonë fjalën e tyre e pse jo, të bëjnë opozitën mbi atë ç’ka ndodh në shoqërinë shqiptare…”
(Françesk Radi)
“Gli artisti non devono essere conformisti, non si devono schierare con la politica, non devono temere di esprimere la loro opinione e perché no, devono costituire l’opposizione su ciò che accade nella società albanese.”
(Françesk Radi)
Infatti, pochi giorni dall’inizio della 69esima edizione del Festival di Sanremo, ci sono state delle polemiche tra alcune dichiarazioni di Claudio Baglioni ed il ministro Salvini sulla questione “Migranti”.
La kermesse canora per qualche settimana, ha fatto deviare per questo motivo, l’attenzione sul suo aspetto artistico e la focalizzazione dei mass media e dell’opinione pubblica si è concentrata sull’aspetto politico della vicenda.
Sono nati ovviamente degli schieramenti di artisti pro o contro Baglioni e pro o contro Salvini sull’argomento in questione e a farla breve, volente o nolente, questi Festival di Canzone a livello nazionale, nonostante si tenti di tenerli lontani dalla politica, diventano in un modo o nell’altro, tribuna in cui gli artisti, spiriti liberi, esprimono i loro pareri su questioni sociali ed umane.
“Kutunjo (versione albanese del suo cognome) mi piace!”- mi aveva invece risposto Toto Cutugno, quando gli avevo scritto che traducevo su di lui degli articoli in albanese a Tirana nel 1991, visto che era amato come artista in Albania e gli albanesi avevano sete di apprendere delle notizie su vita e carriera degli artisti italiani dell’epoca, tra cui per l’appunto, Cutugno, Celentano, Morandi, Al Bano, Lucio Dalla, Cocciante, Mina, ecc, erano i più preferiti.
Ma, gli albanesi, la musica italiana la potevano seguire solo di nascosto e non so se Celentano, Cutugno ed altri artisti italiani, di questo ne erano a conoscenza ai tempi.
E non so nemmeno, se il vero Celentano italiano fosse mai stato a conoscenza del calvario di vita del “Celentano Albanese”, il cantautore Françesk Radi.
Un motivo in più, perché no, anche per gli italiani che si trovano oggi a Tirana – che sono numerosi – e li capita di passeggiare negli ampi spazi del Lago Artificiale della capitale: fermarsi per una sosta ed un saluto alla statua del “Celentano albanese”, – che siano loro stessi effettivamente dei fan o meno di Adriano Celentano in Italia, gusti musicali a parte – ma, solo in nome dell’umanità e del rispetto per i dolori che ha causato la dittatura in Albania, anche nel mondo dell’Arte e della Musica.
Ecco, questi dettagli, mi veniva spontaneo ricordarli nella settimana in corso, mentre in Italia è in atto la kermesse sanremese della 69esima edizione.
Una maniera per rendere tributo alla diffusione dell’autentica musica italiana nel mondo, è anche quello di ricordare quei artisti albanesi, che intonando questa musica, si sono visti condizionare le proprie vite nella dittatura, sotto cui erano costretti a vivere in Albania fino agli anni ’90.