La Giornata internazionale delle donne rurali è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite attraverso la Risoluzione 62/136 del 18 dicembre 2007, con lo scopo di riconoscere “il ruolo chiave delle donne rurali nel promuovere lo sviluppo rurale e agricolo, contribuendo alla sicurezza alimentare e allo sradicamento della povertà rurale”.
Mi soffermo sul caso Albania
La popolazione totale dell’Albania è di 2.893.000.
49,5% sono donne e 50,5% sono uomini.( Instat , 2014).
Il 42,8% della popolazione vive nelle zone rurali. Circa il 60% delle donne vive nelle aree urbane, rispetto al 40% che vive nelle zone rurali.(Instat 2014)
La mia riflessione oggi, nella Giornata Internazionale delle Donne Rurali prende spunto da un fattore in particolare: dalla differenza sulla considerazione “rurale” o “urbana” della donna in Albania.
A primo impatto, qualcuno si potrebbe chiedere: “Ma come, non ci sono distinzioni nette tra una donna rurale, di campagna, ed una urbana, o meglio, di città in Albania?”
È chiaro che sì.
E, partendo dall’analisi della situazione della donna in Albania, dall’instaurazione del regime comunista e totalitario, dal 1945 fino al crollo del sistema all’inizio degli anni ’90, io ho le mie riserve nella definizione netta “rurale” o “urbana” delle albanesi.
Mi riferisco alla loro emancipazione più che altro che, a mio avviso, era un’emancipazione mirata, apparente, imposta, ma non era un’emancipazione vera e propria. In questa emancipazione, c’era una linea sottile di differenza tra la donna di città e quella di campagna. Il filo conduttore rimaneva comunque la famiglia patriarcale e il ruolo indiscusso maschile in famiglia ed in società.
La donna rurale in Albania nel periodo comunista e dittatoriale è stata di una rilevanza molto importante. Lei era la figura attorno alla quale si appoggiava tutta la famiglia, talmente grande e molteplice il suo contributo in una famiglia dai forti tratti patriarcali, che apertamente non ammetteva mai la sua importanza, ma che invece faceva affidamento particolare alla sua forza femminile all’interno.
La donna rurale albanese era colei che generava figli, che cresceva la prole, che allo stesso tempo, badava alla famiglia numerosa, spesso di convivenza con suoceri e fratelli o sorelle del marito, a focolari quindi ben allargati, era colei che si occupava sia delle faccende domestiche, che del lavoro nei campi, dell’accudire il bestiame, del fare e portare sulle spalle la legna, di lavorare la terra, di accogliere gli ospiti in casa a dovere, sempre a testa bassa, senza sentirsi pronunciare il suo nome, senza sentirsi dire un complimento.
Questo, nemmeno dal proprio marito, il quale non si poteva sbilanciare, non poteva dimostrarsi “debole” di fronte ad un atteggiamento carino e gentile od una dimostrazione di affetto e di apprezzamento nei confronti della moglie e, tanto meno ricevere complimenti da un ospite.
La donna rurale era colei che noi, a Tirana ed in tutta Albania chiamavamo “fshatare”
La donna rurale era colei che noi, a Tirana chiamavamo “fshatare”, – per non dire l’altro termine, “katundare”, dalle sfumature un po’ discriminatorie – che ogni settimana scendeva dalle campagne adiacenti alla capitale, in centro città, solitamente al Pazari i Ri (Il Nuovo Bazar) con i suoi cesti di paglia con frutta e verdura fresca del suo pezzo di terra, da vendere ai tiranesi, con uova delle sue galline e vari prodotti bio del suo orto.
Era magari giovane di età la donna rurale, ma chissà perché, con la pelle bruciata dal sole e con la fatica dei lavori pesanti molteplici a casa e fuori di essa, che gravavano su di lei, aveva mani ruvide e dimostrava un’età molto più grande di quella effettiva. Lei era poco istruita, cioè aveva magari l’istruzione di base, ma non proseguiva più di tanto gli studi.
Solo una parte delle ragazze rurali, solitamente coloro che venivano dalle famiglie più benestanti del villaggio e di cui padri solitamente ricoprivano ruoli importanti dirigenti della azienda agricola statale e muniti rigorosamente del tesseramento del unico partito al potere, quello comunista, riuscivano ad ottenere alla fine delle scuole medie una borsa di studio ed il diritto di studiare nella capitale, Tirana, principalmente nelle scuole professionali della capitale.
Queste erano Il Liceo Linguistico, l’Istituto Pedagogico e quello Economico, il Liceo ad Indirizzo Musicale. Ed erano coloro che naturalmente non facevano più ritorno nella loro amata campagna dopo il termine degli studi di istruzione superiore, ma che proseguivano gli studi universitari nelle varie facoltà a Tirana. Il tutto inserito anche nell’ottica dello spostamento controllato e pianificato dallo stato, della gente rurale verso la vita urbana.
Noi tiranesi, parlando obiettivamente, queste ragazze – forse è brutto ammetterlo – le guardavamo un po’ con un occhio diffidente e selettivo, con un senso di superiorità da parte nostra, proprio perché ci rendevamo conto della loro arretratezza nella mentalità, nei modi di comunicare, di vestire, di approcciarsi a noi tiranesi, naturalmente per cause che non dipendevano da loro e non da fattori personali di ognuna, ma delle politiche seguite dal governo in carica e che incideva nel loro stile di vita e nella loro formazione generale condizionata e limitata.
In quali misure è cambiata oggi la vita della donna rurale in Albania?
Ma io, è proprio qui che mi voglio soffermare, in questa contraddizione.
La donna albanese di città, dal canto suo, nonostante la differenza con quella rurale, sotto vari aspetti:
in apertura mentale, in cultura, istruzione ed in preparazione in generale, nello stile di vita da lei adottato, quanto emancipata è stata in fondo effettivamente durante il totalitarismo?
-Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata” significava lavorare in fabbrica come un uomo, alla pari con un uomo, nonostante godesse dell’eguaglianza salariale all’uomo, ma che faticava come lui, nella stessa misura, che faceva turni di lavoro pesanti, con una famiglia a cui badare e con dei figli da crescere.
Meno male che almeno la notte, quando ad una donna capitava di uscire tardi, non c’era nessun rischio e pericolo per violenze o per la sua incolumità. Il regime dittatoriale da questo punto di vista, faceva da garante.
-Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata”, significava subire matrimoni combinati …
– Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata”,significava che affinché non si sposasse, non poteva frequentare – almeno apertamente ed alla luce del sole – dei ragazzi per fare delle conoscenze prima del grande passo, quello del matrimonio, altrimenti veniva considerata come una dalla morale che lasciava molto a desiderare.
-Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata”,significava che nel momento in cui, da sposata subiva della violenza domestica da parte del marito violento, alcolizzato ecc, lei doveva continuare a subire in silenzio e non si doveva ribellare, non doveva divorziare, altrimenti, avrebbe passato la vita da sola, nessun altro l’avrebbe poi sposata di nuovo.
L’avrebbero emarginata, perché una donna divorziata in Albania era considerata immorale, di cattivo costume, veniva disprezzata da tutti e a partire dai suoi propri familiari, da suo padre, da suo fratello, soprattutto dai familiari propri maschi, veniva considerata come “la vergogna della famiglia”,come una “macchia nera” per la famiglia …
-Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata”, significava non truccarsi da ragazza, ma incominciare a truccarsi esclusivamente il giorno che diventava sposa.
-Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata”, significava non depilarsi …
-Se, per una donna di città ad esempio, “emancipata”, significava comunque sottostare al potere decisionale dell’uomo, del proprio padre, marito, nonostante non approvasse svariate idee.
Insomma, questi miei sono solo dei cenni, i quali mirano ad aprire dibattiti ed ulteriori riflessioni sulla situazione della donna albanese in generale, di ieri e di oggi, che essa sia di città o di campagna …
Per far sì che quando si parli di “emancipazione”, questo sia un concetto veramente applicabile ed effettivo nella loro vita, che diventi la chiave del loro futuro, al fine di elevare il loro status sociale.
Noto invece delle differenze di mentalità tutt’oggi nelle donne emigranti albanesi, tra quelle rurali e quelle di città.
Mentre da un lato, c’è poca differenza tra una donna emigrante albanese di città ed una rurale albanese emigrante, ma che quest’ultima è istruita, ha studiato e si è integrata nella vita sociale del paese straniero che la ospita, nel nostro caso, l’Italia, d’altro canto, quando si incontrano donne albanesi emigranti rurali, le quali sono arrivate in Italia per via del ricongiungimento familiare, che hanno raggiunto i mariti emigrati prima di loro, che nonostante la giovane età, non hanno terminato un percorso di studi adeguato e venendo da piccoli villaggi o paesini di provincia albanesi, realizzi che anche qui in Italia, loro continuano a vivere con lo stesso stile di vita dell’Albania, come se per loro l’orologio si fosse fermato, come se per loro, il tempo fosse rimasto attaccato alla vita della loro campagna albanese di provenienza.
Loro continuano ad esempio, a vivere in una casa in affitto con altri familiari del marito, altri fratelli suoi, suoceri fatti arrivare anche loro dall’Albania. Fanno figli e non lavorano, oppure riescono a lavorare quando i figli raggiungono l’età da scuola materna, ma che comunque, attaccate alla sfera familiare – è da apprezzare tantissimo il valore che in Albania in generale viene dato alla famiglia – ma che non riescono ad essere indipendenti, ad avere spazi propri di vita.
Loro continuano a fare una vita modesta, a seconda anche delle possibilità economiche naturalmente, ma comunque rimangono molto più attaccate alle tradizioni che le donne di città, quelle più emancipate ad ogni modo. Senza dimenticare che sono arrivate in Italia, buona parte di loro, per via di matrimoni combinati con questi uomini emigranti.
Quindi, questo per farci capire che, mentre prima parlavamo della situazione della donna in Albania durante il totalitarismo, vorrei sapere, con tutta l’evoluzione che c’è stata nella vita della donna albanese, quanto ci sia ancora da fare per una sua più profonda integrazione nella società e per una sua ulteriore emancipazione, come obiettivo fondamentale umano soprattutto, più che strategico.
E questo comporterebbe dei frutti positivi sia per la comunità stessa albanese, che per tutta la società in cui viviamo, che si tratti di vivere dentro il proprio paese oppure in emigrazione.
Dal 28 al 30 settembre di quest’anno, in Albania ha avuto luogo il cosiddetto Primo Parlamento Rurale
Dal 28 al 30 settembre di quest’anno, in Albania ha avuto luogo il cosiddetto Primo Parlamento Rurale e in Parlamento ha attirato l’attenzione il discorso molto forte sostanzialmente ed emotivamente parlando, di una donna rurale albanese, lei si chiama Rigerta Loku, la quale, dopo essersi laureata alla Sapienza di Roma, è tornata nel suo paesino a Mirditë, in Nord Albania, ad allevare le capre, a fare l’agricoltrice, una piccola imprenditrice, non avendo ottenuto nessun’altra opportunità lavorativa da parte dello stato albanese.
Lei ha alzato la voce in Parlamento chiedendo a nome di tutti i suoi compaesani le cose basilari vitali come il miglioramento di reti stradali, servizi sanitari e di irrigazione, energia elettrica, della tutela ambientale, scuole e lavoro per la comunità rurale del suo paesino.
Ha riportato, con molta commozione, la situazione di una donna in particolare, sua compaesana Cristina, la quale lavora duramente per mantenere la famiglia. Fa dei chilometri per vendere i prodotti del suo appezzamento di terreno, portando tutto il peso della famiglia, in quanto marito e figli non hanno un lavoro.
Quando a questa donna, nonostante abbia una quarantina d’anni e sia giovane dunque, le viene chiesto cosa desiderasse per lei stessa, la sua persona si potrebbe dire, lei non la calcola più. Cosa tristissima! Lei chiede solo lavoro per il marito e lavoro per i figli. Lei non crede nemmeno all’opportunità di istruzione per i figli, questa la considera una cosa impensabile, difficile da realizzare.
Insomma, in Albania, per l’emancipazione della donna si è fatto molto, – che lei sia rurale o di città -si continua a lavorare, attraverso varie fondazioni, associazione ed ong, ma bisogna tenere presente che su questo piano, la strada e ancora molto lunga.
Quindi, celebrare la Giornata del 15 ottobre, dovrebbe dunque presentarsi come un’occasione unica per prestare attenzione alla voce delle donne rurali di tutto il mondo e del paese da cui noi proveniamo e che abbiamo tanto a cuore, l’Albania, in particolare.