Tre matrimoni misti durante la più longeva dittatura europea. Tre interviste agghiaccianti a ex funzionari degli organi d’inchiesta della dittatura, implicati nelle indagini. “Divorzio all’albanese”, una lezione della regista bulgara per tutti: prima di voler interpretare la storia, raccontatela.
Sono ormai tre anni che nelle sale dei festival europei circola il documentario “Divorzio all’albanese” (Razvod po Albanski, Bulgaria 2007, 66’) della regista Adela Peeva, ma a Tirana è stato proiettato per la prima volta il 5 ottobre scorso, la serata di apertura della quinta edizione del “International Human Rights Film Festival”.
Correva l’anno 1961. Dopo la denuncia di Hruchev sui crimini del stalinismo, Enver Hoxha decideva di staccarsi dal blocco dei regimi comunisti dell’Est. Uno degli avvenimenti più drammatici che ebbe luogo in quell’anno, come conseguenza della rottura di Hoxha con l’URSS, fu la separazione delle coppie miste. Uomini albanesi, istruiti nelle università dell’Est, sposati con donne di quei paesi, che all’improvviso furono accusate di spionaggio e sabotaggio.
È di questo divorzio e dello stile albanese nel metterlo in vita che Peeva racconta nel suo documentario, utilizzando fonti di archivio e testimonianze dirette. Tre le storie ricostruite dal “Divorzio all’albanese”. La prima riguarda una coppia albanese-polacca: entrambi i coniugi furono condannati a morte. In seguito la pena è stata ridotta a 25 anni di reclusione per il coniuge albanese, Vasil Orgocka, mentre la moglie, Barbara, è stata rilasciata grazie all’intervento dell’Ambasciata polacca a Tirana.
Barbara fece ritorno a Varsavia, ma devastata mentalmente e emotivamente a causa delle droghe che le erano state somministrate durante le indagini. La seconda storia narra della russa Voila Sharanova condannata a 10 anni di reclusione. Il marito albanese chiede e ottiene il divorzio per testimoniare la sua devozione al regime. Anche il figlio medico ammette pubblicamente durante una riunione della gioventù comunista, che la madre fosse “nemica del popolo”, rifiutando di incontrarla anche dopo il suo rilascio.
Oggi la donna vive a Mosca dove Peeva si è recata per intervistarla, come ha fatto anche con il figlio a Tirana. Invece, la terza storia racconta di una coppia russo-albanese che dopo la scarcerazione si sono riuniti ai propri figli. Il documentario riporta anche tre interviste agghiaccianti a ex-funzionari degli organi d’inchiesta del regime comunista.
Un ufficiale della Polizia segreta addetto alla sorveglianza degli stranieri; il giudice per le indagini preliminari che ha interrogato le coppie all’epoca e che oggi dirige una società privata a Tirana; e il Pubblico Ministero che ha sostenuto l’accusa in tutti e tre i casi. Deve essere la prima volta che sullo schermo appaiono tre profili simili, i quali nonostante siano convinti di non dover chiedere perdono, sono una fonte unica, resa pubblica grazie al coraggio di Peeva.
Un modus operandi il suo, che senza lo scopo di creare scandalo, attraverso la ricerca rigorosa ha come obiettivo unico la conoscenza. Adela Peeva, classe 1947, autrice del documentario provocatorio “Whose is this song?” (2003), con “Divorzio all’albanese” vuole darci una lezione: prima di voler interpretare una storia, raccontala. Per questi motivi, un documentario del genere non l’avrebbe mai realizzato un regista albanese. L’abbiamo intervistata prima della proiezione del suo documentario al “International Human Rights Film Festival”.
Stasera si terrà la prima del documentario, ha invitato qualcuno dei personaggi?
Ho invitato le persone che mi hanno aiutata a realizzare il documentario. Non so se verranno. Avrei voluto che fossero presenti i personaggi principali, ma vivono a Korça e non avevamo i mezzi finanziari per farli venire.
Hanno avuto modo di vedere il documentario?
Sì, li ho inviato una copia.
Come hanno reagito?
Le reazioni sono state differenti. Si aspettavano un lungometraggio. Vi sono alcune storie, come quella di Foto Proko, che non sono state incluse. Questa mi sembrava alquanto delicata. Ho realizzato un cortometraggio di 25 minuti che potrebbe essere il seguito di questo documentario ma nessuna rete televisiva sembra interessata ad un ciclo del genere. Quando ascolti la storia di questo documentario, ti aspetti una rappresentazione lunga e dettagliata. Poi guardi “Divorzio all’Albanese” e ti accorgi che abbiamo concentrato il tutto in 66 minuti, trattando la tematica centrale. Io racconto storie ed amo raccontarle. Se si ha questo scopo, allora bisogna aggrapparsi fortemente alla storia che si intende raccontare e non è facile riuscirci. In questo caso, tutta la mia attenzione, è stata rivolta a queste persone.
E lei cosa si aspettava di più?
La routine dei documentari storici: un po’ più di storia dell’Albania, spiegazioni accademiche sugli avvenimenti storici, ecc. Questo documentario non è stato realizzato solo per gli albanesi ma per chiunque, ovunque si trovi, perché è importante che chi non vive in Albania, venga a conoscenza di quello che è accaduto qui. Quanto raccontato della storia albanese è diretto, veritiero e chiaro. Forse il pubblico bulgaro si potrebbe identificare in “Divorzio all’albanese” perché fino ad un certo periodo abbiamo avuto lo stesso regime. Invece agli spettatori occidentali bisogna riportare con esattezza quello che è accaduto e immediatamente concentrarsi sulle storie di queste persone. Questo non è un film storico.
Quando aveva iniziato di lavorare sul documentario, ci aveva promesso anche un ritratto di Enver Hoxha al suo interno. Lo avete rappresentato in alcune riprese inedite per noi: un leader che accende con destrezza una sigaretta e si siede con un libro in mano come fosse uno studioso in un giorno qualunque.
Penso che le riprese di Enver Hoxha siano in armonia con l’insieme del documentario e quello che accadeva all’epoca. Enver Hoxha era un uomo affascinante e ho sempre cercato di trovare negli archivi foto che lo testimoniano. Un uomo affascinante ed istruito come le persone di cui racconto nel documentario. Per questo la percezione visuale di questa persona è benevole.
I personaggi sono davvero nobili ma la loro storia è devastante ed è questo il primo trauma. In seguito li vedi riflettere e noti il movimento delle loro anime. Dagli archivi si evince poco in merito ai rapporti della folla con il governatore. Questo non era mio intento. Non sono specializzata in storia dell’Albania, ma sono rimasta impressionata dagli archivi. Gli archivi russi contenevano molto materiale sull’Albania fino agli anni sessanta perché molti giornalisti sovietici venivano in Albania per riprendere gli avvenimenti.
La mia ricerca è stata davvero meticolosa. Mi sono recata alcune volte in Russia per cercare le coppie di coniugi e in seguito per ricercare il materiale presente negli archivi. Si è trattato di un lungo viaggio di ricerca. Lo stesso ho dovuto fare anche in Albania. Anche alcune delle riprese sui congressi del Partito Comunista sembrano recenti per il pubblico Albanese. Questa lavoro è sorprendente. Ho appena terminato le riprese di un altro documentario sul periodo 1934-1944 sul il Sindaco di Sofia.
In seguito le chiederemo anche di Ivan Ivanov.
Desidero dire una cosa. Ivan Ivanov, il sindaco che ha portato Sofia alla modernità, è stata la persona che l’ha governato più a lungo e ha dato tutto per questo città. Aveva studiato in Germania e con l’avvento del comunismo è stato condannato. Ha avuto una vita drammatica. Il documentario ha avuto un forte impatto sulla società. Ho ricevuto telefonate di stima e critica, una delle quali dall’Accademia bulgara delle Scienze. Per realizzare il film mi ero avvalsa di alcuni materiali di archivio riguardanti Ivanov quale membro di questa Accadem
ia. L’interlocutore mi domandava: “sei sicura? Dove hai scovato questa documentazione?”.
Gli ho domandato chi fosse e mi ha risposto: “sono il direttore degli archivi”. Gli ho detto: “signore lei è seduto sul materiale di cui do testimonianza nel mio documentario. I documenti che ho utilizzato provengono dai suoi archivi”. A volte accade che ci sediamo sulla nostra storia, semplicemente accomodandoci su di essa. Forse, proprio perché siamo abituati a questa cosa, sostenendo di conoscere la nostra storia, diamo per scontato di essere a conoscenza di tutto. Per questo motivo sono rimasta impressionata dagli archivi. Ma questo mi è costato e mi costa molto tempo e tante ore di visione dei filmati.
Come ha convinto i tre ex-funzionari del regime a rilasciarle le interviste?
Li avrà mai intervistato qualcun’altro prima di me? E coloro che hanno pagato con la propria vita sono mai stati intervistati prima? Se qualcun’altro fosse andato a chiederli di intervistarli e loro avessero rifiutato, allora significa che ho ripreso qualcosa di veramente eccezionale. Ma penso che nessuno l’abbia mai fatto.
Era pronta alla reazione che ha avuto l’ex-pubblico ministero Pandi Konomi davanti alla sua telecamera?
No, perché quando abbiamo parlato gli avevo già spiegato che si trattava di un documentario sui matrimoni misti, senza dirgli della documentazione che avevo trovato. Si trattava di documenti segreti e ne ho trovati tanti ma ho dovuto ottenere molte autorizzazioni per questo lavoro. Per l’ex-pubblico ministero era una cosa eccezionale perché la sua vita sembrava ermetica. Gli ho mostrato i documenti sui processi che aveva seguito per farglieli commentare e lui ha reagito in quel modo.
Gli ho semplicemente domandato cosa fosse successo. Tutti e tre erano al corrente che li avrei ripresi. Forse anche loro provavano il bisogno di raccontare ciò che era accaduto. Io mi sono trovata lì in quel momento e so essere una buona ascoltatrice. Non desideravo che la storia venisse raccontata solo da una parte. Ci sono troppe vittime nel mondo e le persone sono un po’ stanche di questo. I personaggi sono eccezionali, ciò che è accaduto loro non si è mai verificato nella storia moderna. Ma bisogna dare anche all’altra parte l’opportunità di raccontare la sua versione degli avvenimenti.
Perché ha intervistato Ylli Hila (l’ex ufficiale della Polizia segreta) all’Hotel Dajti?
E’ sicuramente vero che il decoro aiuta a creare un certo mistero. In realtà ho soggiornato all’Hotel Dajti con il mio staff perché è situato nel centro della città ed è economico. Ho la sensazione di essere stata una della ultime ad aver soggiornato in questo albergo prima della sua chiusura. L’Hotel Dajti ha una sua storia. Mi sentivo come se fossi nel mio studio, incontravo le persone e organizzavo tutto. Tra l’altro, l’albergo è legato alle storie che racconto. In Polonia ho intervistato un diplomatico polacco che mi ha raccontato di come la polizia segreta sorvegliasse gli stranieri che alloggiavano all’Hotel Dajti. Loro si conoscevano a vicenda e già sapevano chi avrebbe seguito l’uno o l’altro. Vi erano ai tempi soltanto due automobili nei paraggi: una dell’Ambasciata e l’altra della Polizia segreta. Si incontravano tutti lì. Sono molto contenta di aver ripreso lì Ylli Hila.
Queste persone sanno che il documentario sarà proiettato oggi?
No, non lo sanno. Mi auguro che non venga strumentalizzato politicamente perché l’intento del documentario non è questo.
Capita spesso che il regista del documentario sia maggiormente legato ad uno dei personaggi. Sembra che lei sia più vicina a Voila.
Lei è particolare, sostiene che la vita non è una passeggiata al parco. La sua storia ha dell’incredibile. In Voila si scorge la dignità di colui che è riuscito a sopravvivere alle disgrazie. Sembra una filosofa, in lei non vi è sentimento di vendetta. Quel che è stato, è stato, è finito. Questi personaggi sono riusciti a comprendere che sto raccontando la loro storia devastante non di certo per speculare. Solitamente i personaggi di un documentario sono sensibili. Anche il montaggio è una parte essenziale di questo documentario. Quando Vasili racconta la sua storia, sembra che abbia dinnanzi il pubblico ministero Pandi Konomi. Questo perché sono parte dell’insieme. La vita di Pandi Konomi non può prescindere da quella di Vasili. Questa era la nostra vita nell’epoca del comunismo. Siamo dei prodotti del sistema, non puoi raccontare una storia distinguendo queste pagine l’una dall’altra, anche se la verità è dolorosa.
Quali sensazioni ha avuto quando Ylli Hila accusava Barbara di essere realmente una spia dei russi, di essere un cecchino eccellente ecc.?
Questa è la sua storia e io non sono un giudice. Io documento e la mia intenzione è di raccontare storie che hanno dell’incredibile per la nostra vita. Le conclusioni le deve trarre il pubblico. Tutto ciò che ho evinto è rappresentato in questo film. La mia simpatia va a Barbara ma questa storia è rappresentativa di entrambe le parti.
Ha utilizzato molte vecchie fotografie? La storia di copertina ne è una testimonianza.
Ho trovato questa foto di Vasili e ne sono rimasta impressionata, quasi traumatizzata. La foto era nascosta in un baule, l’aveva nascosta la madre di Vasili, perciò è in questo stato. La loro vita è stata strappata come questa foto.
Non ha potuto trovare delle vecchie immagini del carcere di Spaç?
Penso che per come Spaç ci viene offerto dal racconto di Vasili, sia abbastanza pauroso poterlo raffigurare.
Cosa sta facendo ora?
Ho alcuni obbiettivi. Un film sulla Seconda Guerra Mondiale, il bombardamento di Sofia dagli americani. Tratta di un giovane pilota kamikaze, il quale anche se nazista, aveva il desiderio di salvare la propria città dal bombardamento. Si è fatto esplodere contro gli aerei americani ed è divenuto un eroe.
Sono davvero cattivi i ragazzi cattivi e quelli buoni sono davvero buoni? Lei preferisce raccontare le storie del passato e renderle attuali?
Non ho mai creduto che noi umani non abbiamo scelta. Noi riusciamo sempre a trovare una soluzione ai problemi, per quanto difficili possano essere. Solitamente si dice: i tempi erano diversi. Ma le persone sono responsabili delle proprie scelte. Le persone alle quali ho dedicato il documentario hanno fatto la propria scelta ed a loro va il mio rispetto. Sto pianificando di trattare di una storia macedone che si ricollega nuovamente agli albanesi, ma sono ancora alla fase iniziale del lavoro.
Con il documentario su Ivan Ivanov ha cercato di realizzare anche una sorta di documentario-fiction?
Sì, ho realizzato delle riprese. Nel mio paese vi sono documentari migliori di molti film artistici. Sono felice di essere parte di questo filone. Il documentario è un lungo viaggio, spesso ti trovi dinnanzi a delle scelte difficili. “Divorzio all’albanese” mi è costato 4 anni. Il film artistico da molti più riconoscimenti ma il documentario… non so che dire. Senza, la vita sarebbe noiosa.
”Divorzio all’albanese” sarà trasmesso da qualche emittente televisiva albanese?
Lo spero, se si adempiono alcune condizioni necessarie per questa tipologia di film. Sono felice di essere qui. Questo non è un festival politico. Tratta dei diritti dell’uomo, dei quali si occupa anche “Divorzio all’Albanese”.
Intervista di Elsa Demo. Pubblicato nel quotidiano albanese “Shekulli” del 6 ottobre 2010. Titolo originale “Përdorimi i historisë si ndenjëse”.Tradotto per AlbaniaNews da Enxhi Mero.