In questa pellicola si percepisce un grande entusiasmo nel voler raccontare il proprio Paese; gli albanesi si possono facilmente riconoscere in questi giovani orgogliosi della loro cultura, legati alle proprie tradizioni ma con uno sguardo proiettato al futuro.
Made in Albania, il nuovo documentario di Stefania Casini, è stato presentato lo scorso venerdì 18 gennaio alla 24ª edizione del Trieste Film Festival. La regista è stata un’attrice di successo, all’attivo ha film con Bernardo Bertolucci, Pietro Germi e Dario Argento, ma è passata ormai da diversi anni dall’altra parte della macchina da presa. Ha deciso di girare nella “terra delle aquile” per raccontare un paese in fermento, vivo, giovane.
“Tirana è una città in cui mi reco sovente, in media ogni cinque mesi e dove ogni volta vedo mutamenti e trasformazioni, molte cose cambiano in modo repentino”.
La pellicola è incentrata sulle vicende di tre giovani, un italiano di nome Vito e due ragazzi albanesi: Rubin, venticinquenne di Valona che vive a Tirana, e Bora, una ragazza originaria di Scutari appena rientrata in patria al termine del suo percorso di studi in Canada.
Le immagini iniziali mostrano il paesaggio rurale pugliese, gli ulivi, il mare, il Salento, un gruppo di ragazzi in moto. Conosciamo così Vito, leccese di 20 anni, che appena scopre il furto della sua nuova moto fiammante decide di prendere un traghetto per l’Albania, perché è credenza comune che lì finiscano i mezzi rubati in Italia. Il ragazzo sbarca al porto di Durazzo dove inizierà la sua avventura.Una carrellata di immagini urbane, la stazione, il treno per Tirana, introducono Bora, appena atterrata all’aeroporto di Rinas, che racconta di quanto sia forte la sua passione per il viaggio e di quali siano i motivi che la spingono a conoscere nuove culture e nuovi paesi.
Bora ci presenta un suo caro amico, Rubin, sicuramente il personaggio più memorabile della pellicola, grazie alla sua energia, la sua espansività, il suo essere estroverso e attivo, il suo ottimo italiano con lieve accento pugliese risulterà difficile da dimenticare.I protagonisti sono tutti attori non professionisti, il ragazzo italiano è stato scelto grazie a un casting realizzato su Youtube; Bora invece aveva già collaborato in passato con la regista e ha proposto il suo caro amico Rubin come possibile protagonista.
Il film è stato realizzato con il contributo di Rai Cinema, in coproduzione con le albanesi Bizef Produzione ed Erafilm Production, le quali hanno permesso alla regista di utilizzare come operatori i giovani studenti della scuola di cinema Marubi; ciò ha aiutato a creare un clima di confidenzialità e benevolenza che ha messo a proprio agio le persone coinvolte.
Da subito si capisce che lo stile della pellicola è quello di alternare la narrazione a momenti di interviste, in cui i vari personaggi raccontano in prima persona le esperienze che li hanno maggiormente segnati.I due giovani amici sono i “Virgilio” che guidano Vito a esplorare l’Albania, inizialmente lo aiutano a cercare la moto, ma quando il giovane capisce che la sua è una missione disperata, inizia a godersi l’esperienza e comincia un viaggio on the road che lo porta a conoscere una terra per lui enigmatica, giudicata inizialmente con molti pregiudizi.
Da quel momento in poi è uno scorrere di fotografie di paesaggi magnifici: Scutari, il lago di Koman, Fier, Bajram Curri, Valona, Tirana. I due giovani portano Vito nei loro luoghi del cuore, ed è così che veniamo a sapere della nobile nonna di Bora, che prima del comunismo faceva parte dell’aristocrazia di Scutari, entriamo a casa di Hajdar, una delle ultime burnesha esistenti, ovvero quelle donne che per proteggere la propria famiglia o per poter ereditare le proprio terre decidevano di diventare uomini, vestendosi come tali e venendo accettati dalla comunità come normali compaesani di sesso maschile, le “vergini giurate” appunto.
Rubin invece ci fa scoprire una Tirana diversa, nuova. Le immagini non mostrano i soliti bllok colorati, ma giovani al lavoro in studi registrazioni di radio, locali dismessi e abbandonati che vengono riconvertiti in sale espositive e bar. Ci fa conoscere i suoi genitori, che vivono in una splendida casa a Libohova, nel sud del paese. Anche a loro viene dato spazio per parlare della loro giovinezza e del comunismo: elemento imperante nei racconti degli (uomini) adulti.
Enver Hoxha viene spesso citato ma mai chiamato veramente in causa, è stato dato maggior spazio alle persone singole che hanno fatto la storia, a chi è stato in piazza Skanderberg a protestare duranti gli anni della caduta del regime e a chi facendo lo scafista ha portato tanti suoi compaesani verso le coste italiane. Momenti reali, toccanti correlati da immagini storiche di repertorio.
Agli intervistati è permesso raccontarsi, condividere i propri ricordi con noi, semplici spettatori, che veniamo resi partecipi di situazioni e contesti che non avremmo mai potuto conoscere così bene. I due momenti più toccanti sono quelli in cui Paulin, giovane ragazzo in gjakmarrja (segregazione di una famiglia per paura di una vendetta di sangue) racconta di quanto sia difficile non poter mai lasciare la propria casa. Nei suoi occhi si legge una triste rassegnazione, vedere un ragazzo così giovane demoralizzato e senza prospettive future, è qualcosa che non può lasciare indifferenti.
L’altra situazione in egual modo intensa è lo sfogo di Hana, ripresa nella sua casa a Bulqiza. Moglie di un minatore e anch’essa impiegata nella cava, racconta di quanto sia difficile lavorare in miniera, di quanto sia nocivo per la salute cercare il cromo: ogni giorno sollevano e spostano pietre con le proprie braccia per cercare il prezioso minerale e guadagnare un misero stipendio.È una donna forte, che non ha paura di denunciare una situazione difficile, di parlare del senso di abbandono della sua comunità da parte di uno stato che sembra non interessarsi ai problemi degli abitanti di questi villaggi minerari.
In questa pellicola si percepisce un grande entusiasmo nel voler raccontare il proprio Paese; gli albanesi si possono facilmente riconoscere in questi giovani orgogliosi della loro cultura, legati alle proprie tradizioni ma con uno sguardo proiettato al futuro, senza paura di cambiare, viaggiare e conoscere per poter tornare nella propria terra per migliorare e costruire.
Si parla delle contraddizioni del kanun e di alcune situazioni difficili di povertà, ma anche di giovani che hanno voglia di fare, che non rinnegano il proprio passato ma lo accettano come tale, di chi è stato migrante ma decide di tornare portando esperienza e capacità acquisite negli anni.
L’ospitalità albanese si percepisce a ogni incontro, si coglie nello scorrere delle immagini e si vede quanto noi italiani rimaniamo sempre meravigliati di fronte a tanta gentilezza e disponibilità gratuita, senza secondi fini.