Un’arte senza critica sarebbe un paradosso altrettanto grave, quanto una critica senza arte. Durante la dittatura comunista, fino all’inizio degli anni novanta, nella letteratura albanese la critica e gli studi critici occupavano una posizione così imponente, da dare quasi l’impressione che gli studi sulla letteratura fossero più importanti della letteratura stessa.
Una persona
ha il diritto di guardare un’altra
dall’alto in basso, solo
quando deve aiutarla a rialzarsi.
Gabriel Garcia Marquez
L’autorità del critico o dello studioso di letteratura oltrepassava di gran lunga quella dello scrittore. Questo deplorevole fenomeno, incrementato anche dalla mania di certe persone di crearsi un’aureola piu luminosa, veniva causato e alimentato da istituzioni ufficiali, create appositamente, generosamente finanziate dallo Stato. L’arroganza della critica veniva sopratutto incoraggiata da un’estremamente severa piattaforma politica e ideologica, stabilita e riconfermata di continuo nei plenum e nei congressi del Comitato Centrale del Partito Comunista, dove si eseguiva uno scenario diabolico e venivano eliminati “i nemici di classe” con modi estremamente feroci.
La critica precedeva la letteratura, arrivando fino a prestabilire il suo oggetto, offriva dei modelli copiati dalla letteratura del realismo socialista nell’Unione Sovietica, dove veniva dettato tutto; dai limiti tematici da rispettare, fino alle immagini artistiche permesse. Veniva dunque predetto il destino che avrebbe avuto una futura opera d’arte. Così, in uno schema triplo, autore-libro-pubblico, la deformazione riusciva ad essere trasmessa anche al lettore, di cui veniva così manipolato l’orizzonte culturale, il gusto artistico e a cui veniva imposta una letteratura standard.
In tal modo la critica interpretava delle opere artistiche scritte secondo il suggerimento della critica e per la critica, producendo così molta critica e meno arte, danneggiando profondamente quest’ultima proprio nel suo sistema dei valori. Se è presupposto che un’opera d’arte possieda a priori una sua autorità, sanzionata dalla tradizione e dal rispettivo canone, il critico deve ogni volta legittimarsi nel suo campo, confermando la sua conoscenza della materia, la sua capacità di analizzare e verificando ogni volta i suoi strumenti interpretativi, installando così con l’opera un rapporto non personale, ma pubblico e sociale.
Più che della valutazione delle opere, già prodotte secondo lo schema del realismo socialista, la critica di quegli anni si occupò del “bombardamento” dell’ “altra” arte: dell’arte realmente “modernista”, oppure dell’arte che doveva essere ettichettata come tale, per seppellire per sempre il suo autore. La valutazione delle creazioni letterarie, cominciando da quelle che già facevano parte del “Panteon” della letteratura (progettato dai dirigenti del partito), vivi o defunti fossero gli autori, e arrivando fino alle creazioni degli alunni delle elementari, veniva fatta dal partito-stato, attraverso la critica. Tutto veniva giudicato da un punto di vista ideologico e tenendo sempre conto della lotta di classe, strappando in furia ogni piccola foglia verde “modernista” che aveva osato sbocciare nel “giardino socialista”. Lui stesso, “il grande Lenin”, aveva proclamato che tutti quegli argomenti e interpretazioni sbagliate, antiscientifiche, di vari fenomeni estetici e artistici che compongono la piattaforma teorica del modernismo, avevano le radici nell’idealismo, il quale doveva essere considerato, secondo lui, un’erbaccia, un fiore sterile, che cresceva sul sano corpo della conoscenza umana 1).
La guerra contro le influenze moderniste nella creazione artistica e negli studi critici doveva essere lunga, intransigente e sistematica, per far sì che “venisse conservata la purezza delle idee socialiste nell’arte e nella letteratura, così come doveva essere protetto lo spirito del partitismo proletario da questo pericolo, parte della multipla pressione ideologica, proveniente dall’acerchiamento imperialista e revisionista”. I nostri letterati non dovevano cadere nella trappola degli nemici del proletariato, interni ed esterni, i quali offrivano “… delle pillole avvelenate letterarie e artistiche, coperte da uno strato di zucchero » 2). Con gli autori stranieri “nocivi” la dittatura tagliava corto: non venivano mai tradotti. Così, il normale lettore albanese non conosceva più dei tre quarti della letteratura mondiale.
C’erano degli autori capaci di produrre ottima arte, ma non era possibile avere degli artisti liberi. Questo valeva anche per i critici. Ambedue le parti o scelsero la prigione, o tacquero e si trovarono un’altro lavoro, oppure si adattarono alle norme ideologiche del partito-stato.
Così, in questa caccia alle streghe, contro tutti gli “ismi” e gli “isti” cattivi, nell’Auschvitz albanese vennero bruciati al rogo e poi condannati all’oblìo sia gli autori, che i libri; quelli scritti un secolo fa, quelli appena scritti, quelli progettati per essere scritti e anche tanti di quei libri che i loro autori non avevano neanche pensato mai di scrivere. Venne alzata al piedestallo la non-arte e la mediocrità, mentre una grandissima quantità di libri venne mandata in fabbrica, per essere trasformata in cartone. Gli autori furono sbattuti in carcere o internati insieme alle famiglie. Quelli che poterono scampare, misero giudizio; le opere create in segreto un pò fuori dagli schemi, vennero nascoste dai loro creatori, in attesa di un giorno migliore.
La dittatura, già costruita su un complesso paranoico, dove un solo individuo, convinto di essere un secondo Messia, venuto al mondo per mettere ordine e giustizia, era entrato in guerra con la vera arte e temporaneamente stava trionfando. Gli artisti che salivano piano piano i gradini della carriera, si aveva l’impressione di salire la Golgota, con la croce dei peccati sulla schiena e con la colonna vertebrale (la moralità) deformata dal peso della propaganda e dalle direttive del partito, come pure dal riscatto chiesto dallo stato comunista per la pubblicazione delle loro opere. Questo riscatto era espresso in forma di rapporti occulti e micidiali, che servivano a distruggere i colleghi. E le vittime divenivano ovviamente quei pochi artisti di talento, che avevano osato creare qualcosa di valore, che erano usciti anche minimamente fuori dai principi ideologici e estetici del metodo del realismo socialista. La loro sicura fine era la prigione o il “lager”, se non accettavano anche loro di sottomettersi e di pagare a loro volta il riscatto politico, con delle opere schematiche, dove veniva ossanato o il partito e il suo capo.
L’istinto di sopravivenza dell’arte fece sì che gli artisti, la stirpe dei quali negli anni si è sempre distinta per la sua franchezza, la sua spontaneità, per la distanza tenuta dalle cose comuni di questo mondo, diventassero furbi, che si nascondessero dietro a dei parallellismi e a delle vaghe allusioni nelle loro opere, dietro a un linguaggio esopico o a delle oscure figure estetiche, con doppi significati, per riuscire a giustificarsi poi in qualunque futura situazione. Dopo aver “peccato” così, in attesa del “giudizio supremo”, si allenarono a leggere tra le righe i significati dei discorsi dei capi del partito nei plenum e nelle parate militari, impararono a interpretare la pendenza delle sopraciglia del Segretario della Bureau Politica durante l’ultima apparizione in pubblico, i rialzi e i cali di temperatura nel campo socialista e la lunghezza del vestito dell’annunciatrice nel Festival Nazionale della Canzone. Di tanto in tanto, come delle piante sbocciate sul cemento, opere d’arte “un po diverse”, che erano riuscite a penetrare in qualche fessura del muro della censura, divenivano un prezioso segreto e venivano lette con una coperta appesa alla finestra, nascoste dentro il coperchio di qualche libro di scuola, a rischio della vita. Anche la dittatura stessa di rado permetteva qualche piccolo peccato, per migliorare la propria immagine di fronte all’opinione internazionale, oppure per usarlo contro il disgraziato autore dopo un certo tempo.
L’istinto di sopravivenza dell’arte fece sì che giungess
ero fino ai nostri giorni anche l’arte delle prigioni e dei cassetti nascosti, venuta alla luce appunto perchè la gente non dimentichi, anche se il lavaggio del cervello, che fù applicato in massa, mirava appunto a questo, all’inizio della “loro” epoca da quota zero, quasi dal nulla. Leggendo il libro della storia della letteratura albanese, si prova l’impressione che ogni secolo abbia avuto solo uno o due autori e che il talento artistico sia esploso solamente durante la guerra partigiana e fiorito solo dopo, ispirato dalla “nuova realtà socialista”. Dall’Albania comunista non fu possibile a nessun Pasternac o Solgenitzin di trasmettere la sua dissidenza in Occidente. Ci furono invece poeti uccisi per una poesia e pittori che si impiccarono per un quadro, etichettato “nemico” dal partito. Interi libri, espressione reale di quello che poteva produrre il vero talento, vennero scritti sulla carta delle sigarette, anche col sangue, e fatti uscire dalla prigione nascosti tra le pieghe della biancheria sporca, per essere subito sotterrati per anni e decadi, e per poi uscire un giorno a guisa di testimonianza di quello che era successo all’arte.
Non dimenticare è un castigo al male e, come tale, diventa un’obbligo. « La morte non arriva con la vecchiaia, ma con l’oblìo » – dice Marquez. Il perdono poi è tutt’altra cosa …
Le opere d’arte del primo tipo, quelle di carattere ambivalente, dovevano essere lette tra le righe, mentre le altre, quelle delle prigioni, scritte prima, durante o dopo la condanna del loro autore (esistevano anche di questi “pazzi”) prima dovevano essere estratte dall’inferno e poi dalla tomba, per essere alla fine lette, la maggior parte postume. Potevano anche rimanere condannate a vita negli archivi, quali prove giudiziarie di un crimine artistico-politico. I veri colpevoli erano proprio loro, che come un bisbiglio del diavolo, avevano indotto il loro povero creatore ad un peccato mortale. Nell’arte “borghese” ciò si chiamava ispirazione…
Oggi che la libertà di esprimersi ha scarcerato il diavoletto dell’ispirazione, e lo ha lasciato libero di riempire fogli di carta a piacere e sbizzarrirsi tra suoni e colori fino all’esaurimento, le vittime dei massacri della dittatura sull’arte vorrebbero aprire i dossier della vergogna, per sapere da dove è partito il fulmine che li ha colpiti. Raramente ci riescono. Quelli che raggiungono lo scopo, spesso, anzi, troppo spesso, sulle denuncie scoprono le firme degli amici, dei parenti, dei colleghi, scoprono che i loro idoli artistici, invece di proteggerli, li avevano affondati più del partito con le loro osservazioni, continuando a loro volta a difendere il loro posto nel Panteone, secondo lo stile della croce sulla schiena.
Era proprio quella critica, micidiale per alcuni e ossanante per altri, che trasmetteva le fulmini di Giove per gli “eretici” e dettava gli schemi di comportamento per gli altri, essendo parte della “vigilanza del Partito”. Qualcuno di loro dimostrava un tale zelo nel studiare profondamente le correnti moderne “iste” e nell’analizzare gli artisti di quelle correnti, dicendone poi male così dettagliatamente, che ai segreti “fan” di questa arte bastava leggere questi studi all’inverso, per ottenere la giusta informazione artistica. Al nostro tempo questi critici si affretteranno a smentirsi.
Sempre predecessori delle condanne politiche nell’arte, questi critici ufficiali e fedeli del regime attaccarono le tendenze modernistiche in generale e alcuni fenomeni estetici in particolare con vero furore, anatemando in nome della purezza della linea del realismo socialista, però dimenticando per esempio che un certo fenomeno si chiamava “sinestesia” e non “sintesi”, o “teoria del combacimento”, e questo termine era già usato da un bel po di tempo. Nell’ impeto della loro indignazione, citando i classici del marxismo-leninismo e gli ultimi orientamenti politici per la letteratura del capo del partito, ingiuriando i partigiani del “lartpurlartismo” e i simbolisti, che avrebbero approfondito la tendenza verso il formalismo, lasciando in disparte “la descrizione della vita”, si accusavano questi ultimi di aver “trasformato la poesia in un enigma senza senso e di averle fatto perdere i pregi che aveva fino allora, trasformandola in un surrogato estetico di forza regressiva distruggente, dopo avere perso ogni idea e responsabilità sociale, in nome della “bellezza pura”, della “forma pura”, del “sogno immacolato”, della “suggestione”.
Veniva criticato Verlaine, perchè chiamava la poesia prima di tutto “musica”, veniva denigrato il tentativo di Mallarmé di spiegare le connessioni tra i suoni, le lettere e le emozioni umane, veniva attaccato Rimbaud per il suo famoso sonetto delle vocali colorate, considerandola una vana fatica, che non arrecava alcun valore alla poesia, ma la rendeva ermetica, danneggiando le fondamenta dell’arte poetica, inviandola in un vicolo assurdo. Veniva criticato Zola, per sopravalutazione dei metodi scientifici nella letteratura, ma anche la tendenza naturalista di Flaubert nel sottolineare il ruolo del gusto personale e la trasformazione dello stile in vero culto, dichiarando che nel suo “Salambò” cercava qualcosa di purpureo, mentre nella sua “Madame Bovary” qualcosa di scuro, il colore della muffa, colori che simboleggiavano rispettivamente l’uno il trionfo e l’altro la vita noiosa, monotona della società. Un peccatore adirittura maggiore dei primi risultava lo scrittore austriaco-francese Hausmann, il personaggio “decadente” del quale, disgustato dalla realtà, cerca di raggiungere l’artisticismo puro, tramite la correlazione dei suoni musicali con dei specifici colori e gli aromi delle bevande. Nell’ottica della critica socialista questa era pura eresia, che doveva essere condannata senza pietà.
Leggiamo un critico dell’epoca: “La fonte sociale del modernismo è l’esistenza del vecchio sistema reazionario, delle forze sociali reazionarie, le quali sono interessate di paralizzare e demoralizzare le forze rivoluzionarie, di propagare delle idee antiscientifiche, reazionarie, di tipo filosofico e politico, morale e artistico, religioso e giuridico. La fonte sociale del modernismo sono il regime capitalista, la borghesia reazionaria e il revisionismo” 3).
In seguito lo stesso autore scrive: “Però il modernismo deve essere considerato non solo come un prodotto del processo di degenerazione della società borghese e revisionista, ma anche un’arma nelle mani della forze controrivoluzionarie, per espandere e approfondire di più questi processi, e, con loro, anche l’atmosfera di crisi e degenerazione. Questa caratteristica del modernismo combacia pienamente con la valutazione critica, data ai suoi tempi da Lenin ad alcune varianti del modernismo degli inizi del XX secolo. “Io non trovo la forza di chiamare le opere dell’espressionismo, futurismo, cubismo e di altri “ismi”… delle grandi testimonianze del genio artistico. Io non le capisco. Io non provo nessuna gioia guardandole” 4). E poichè Lenin non le aveva capite, lo stato comunista albanese considerava i loro autori dei nemici.
Di questo tipo di critica lo scrittore incarcerato Astrit Delvina scriveva: « O voi, che cercate le piaghe e il pus e vi nutrite di esse, andatevene all’inferno. Sul tavolo del poeta non ci sono più briciole per voi. Voi con denti di sciacallo rosicchiate le ossa rimaste dal pranzo del poeta… Taci, critico ignorante”! 5)
Il nostro grande lirico Lasgush Poradeci tempo fa diceva: « Non esiste il romanticismo, nè il realismo, nè il futurismo, nè l’ermetismo. Esiste l’arte”. Tanto meno dovrebbe esistere la politica nell’arte. L’artista è responsabile solo verso la fantasia e la parola. La sua imaginazione è diversa da quella del regime; ogni compromesso con il potere sarebbe, in un certo senso, un tradimento verso l’arte.
< br />Lo Stato ha il dovere di venire in aiuto alla formazione di un’artista e poi lasciarlo libero di creare.
La ricezione dell’opera artistica nel futuro, molte volte ribalta la ricezione contemporanea. Se la prima valutazione sull’opera è stata politica, la seconda può cambiare, perchè ormai è nota quella famosa reputazione della politica, che non sarebbe etico ripetere. Perciò la critica di valore dovrebbe essere solo quella estetica e sul piano della riflessione.
Aristotele più di duemila anni fa diceva: “La critica deve dimostrarsi prudente, tollerante e non esclusiva, quando giudica l’atteggiamento del poeta verso la vita”, per poi aggiungere “Non basta che uno sappia cosa dire, ma anche come dirlo”. Invece oggi, a distanza di tempo, ci sconvolge veramente lo scoprire delle mostruosità della critica e la viltà degli studiosi, ai danni di molti loro connazionali, assai migliori di quelli di oggi.
Fino adesso nessun critico non ha trovato il coraggio di dire « Mea culpa », per i peccati qui menzionati. Nessuno di loro ha mai preso molto sul serio il divorzio con il male. Ognuno di loro « ha girato due volte intorno alla chiesa » o ha intrapreso « qualche pellegrinaggio alla Mecca », per salvarsi l’anima con qualche articolo « politicamente corretto » e si è considerato subito assolto. Sentirsi « puliti » è un concetto relativo, ed ha a che fare con la pace interna. I crimini dei regimi totalitari fanno parte della memoria collettiva dell’umanità, e qui rimarrà impresso per sempre il riscatto pagato nell’arte.
All’arte albanese duole ancora il dolore passato.
Odeta Zhegu
1. V.I.Lenin –Opere V.38, pg.399-400, citato da Alfred Uçi, “Labirintet e Modernizmit”, Edizione.1978, pg.15
2. Enver Hoxha-“Raporti e discorsi pubblici” (1967-1968, pg. 489-490, citato da Alfred Uçi, “Labirintet e Modernizmit”, Edizione 1978, pg. 4
3. Alfred Uçi, “Labirintet e Modernizmit”, Edizione 1978, pg. 25-26
4. “Lenin sulla cultura e l’arte”, Edizione 1975, pg.364, citato da Alfred Uçi, “Labirintet e Modernizmit”, Edizione 1978, pg. 28
5. Astrit Delvina, “Turabiu me ferexhe” ( “Dhe e bukura nuk u zgjua”, Edizone “Plejad”, 2007)