Sull’antico registro di una chiesa sono rimaste ancora le tracce di una candela che può essere stata spenta a notte fonda. Nelle sue pagine si può leggere ciò che il prete annotava con cura: il numero dei bambini nati in un villaggio e dei matrimoni contratti, oppure le cause dei decessi. Invece in una delle pagine del registro di un cadì si può leggere una frase a dir poco sorprendente: “oggi è caduta neve rossa”.
Sono un’infinità di documenti che presentano un’altra visione della storia che siamo stati abituati a leggere prima degli anni Novanta sul passato albanese. Si possono scoprire personaggi che non sapevamo che fossero stati presenti nei momenti più cruciali della storia albanese, contribuendo anche con la loro vita per amor di patria.
Per Nevila Nika, la prima donna alla guida degli Archivi albanesi, è da riconoscere che il regime comunista non ha manipolato i documenti originali, nonostante la sua natura totalitaria. Se negli anni Novanta molti potrebbero essersi domandato “Perché l’Albania continua ad avere archivi?”, ciò è stato possibile grazie alle persone che riuscirono a riconoscere la rilevanza dei fatti storici. Grazie ad esse, oggi, si può revisionare il passato e si possono riconoscere i meriti delle personalità che giacciono nei fascicoli degli archivi.
In un intervista al quotidiano Shqip, la dirigente degli Archivi albanesi parla delle modalità di funzionamento dell’Archivio Centrale dalla sua fondazione nel 1949 fino agli anni Novanta, del motivo per il quale il regime comunista non ha manipolato i documenti originali degli eventi cruciali della storia albanese e dei documenti conservati nell’edificio dallo stile architettonico semplice, molto vicino alla stazione ferroviaria di Tirana.
Lei è la prima donna alla guida di questa istituzione dalla sua fondazione. Cosa significa questo per lei e quali sono i cambiamenti che ha intrapreso durante i due anni della sua dirigenza?
Sono la prima donna e la prima archivista alla guida degli Archivi albanesi. Questo perché tutti i miei predecessori provenivano da altre istituzioni e avevano una carriera come finanziere, diplomatico, professore, giornalista o militare. Insomma, avevano professioni dalle più diverse ma che non erano legate alla disciplina dell’archivistica. Invece io ho iniziato la mia carriera come archivista presso questa direzione e sono anche la prima a diventarne direttrice.
Gli archivi albanesi fanno capo alla Direzione Generale degli Archivi che è un istituzione di importanza straordinaria. Gli Archivi di Stato sono stati istituiti nel 1949, invece la Direzione Generale degli Archivi è stata istituita nel 1963 e da quest’anno l’unica denominazione utilizzata è quest’ultima. Invece prima degli anni Novanta veniva utilizzata anche la denominazione “Gli Archivi di Stato”. Oggigiorno con i profondi cambiamenti politici, economici e sociali, non ci possono essere solo gli Archivi di Stato ma esistono anche archivi di enti privati, di personalità note, dei partiti politici, delle organizzazioni e delle associazioni. Inoltre ci sono molte istituzioni che hanno archivi propri e godono di un’autonomia istituzionale.
La Direzione Generale è un’istituzione che ha una rete di archivi alle sue dipendenze quali gli archivi statali locali nelle dodici regioni della Repubblica, l’Archivio Statale Centrale, situato all’interno della nostra sede centrale, e i tre archivi regionali più piccoli che sono utilizzati per depositare i documenti e che, naturalmente, offrono servizi nelle città di collocazione.
Per quanto riguarda la domanda sul mio impegno in questi due anni alla guida di questa istituzione, posso affermare di essere stata molto esigente verso me stessa. Sono stati due anni intensi, caratterizzati dai tentativi di cambiare qualcosa, mettendo da parte anche il lavoro di archivista e di storica che ho svolto con tanta passione per 32 anni. Il mio lavoro alla guida della Direzione Generale è iniziato con alcune questioni amministrative per disciplinare il lavoro dell’amministrazione. Subito dopo mi sono occupata di questioni prettamente di archivistica. Inoltre mi sono impegnata a garantire condizioni adatte per chi lavora negli archivi e ho richiesto condizioni migliori per la conservazione dei documenti, effettuate con i finanziamenti dello stato. Vorremmo che l’attenzione avuta sia maggiore, ma non possiamo dirci non soddisfati.
Lei ha detto che gli Archivi hanno iniziato a funzionare nel 1949. Come ha funzionato il processo di documentazione dei materiali fino agli anni Novanta?
Dal 1947, gli Archivi di Stato facevano parte dell’Istituto delle Scienze. A prescindere dal sistema vigente in Albania, le persone che dirigevano gli Archivi si occuparono dell’inventariazione e ovviamente della raccolta dei materiali, ma non si poteva pretendere una raccolta consistente di materiali perché mancava lo spazio necessario per l’archiviazione.
Nel 1949, anno di fondazione degli Archivi di Stato come istituzione a sé stante sotto le dipendenze del Consiglio dei Ministri, iniziò la raccolta massiva dei materiali. Già a novembre del 1944, lo Stato Maggiore dell’Esercito di Liberazione Nazionale aveva emesso una circolare per la raccolta obbligatoria di tutta l’informazione del nemico. L’utilizzo della denominazione “documentazione del nemico”, lascia intendere che era una richiesta per impossessarsi dei documenti del nemico per poterlo combatterlo successivamente. Tuttavia, fu una circolare importante, perché permise ai comandi dell’esercito partigiano di raccogliere questi documenti per vietare che venissero mal utilizzati. Bisogna dire che ci si sono state anche delle perdite, perché in ogni guerra, in ogni cambio di sistema, quello che subisce per primo è il documento. I motivi di perdita sono diversi da quelli politici, economici, personali a quelli di forza maggiore, come i terremoti, le disgrazie, il fuoco o l’acqua.
Dal 1949 al 1951, Gli Archivi di Stato erano un’istituzione che raccoglieva, archiviava, inventariava e identificava i documenti di valore. Nel 1951, l’istituzione passò alle dipendenze del Ministero dell’Interno e vi rimase fino al 1963, anno nel quale è stata elevata a istituzione autonoma. E durante quell’arco di tempo, coloro che diressero e lavorarono in questa istituzione sono stati guidati da una coscienza patriottica, molto civica e da ammirare. Loro sono stati in grado di raccogliere ed identificare documenti di valore che provenivano anche da fonti anormali. Quali erano le fonti anormali? Ad esempio, nel momento in cui, una personalità del calibro di Mit’hat Frashëri, esiliò per motivi politici, lasciò in Albania anche il suo archivio e la sua biblioteca. Nonostante la sua persona fu denigrata dal sistema, ad entrambe fu dedicata particolare attenzione: il suo fondo d’archivio fu trasferito nel nostro Archivio, invece il suo fondo bibliotecario passò alla Biblioteca Nazionale. Questo significa che ci furono persone che indipendentemente dal sistema vigente valorizzavano i documenti e oggi dobbiamo esserle riconoscenti. Ho menzionato Mit’hat Frashëri, ma si possono fare esempi di altre personalità che furono condannate, oppure furono fucilate, oppure le furono confiscati tutti i beni, invece i loro documenti venivano trasferiti negli Archivi di Stato. È il caso di Musine Kokalari, che fu arrestata, fu condannata e successivamente fu internata fino alla morte. Quando morì le sue lettere sono state trasferite e sono state conservate con fanatismo in questi Archivi. Oppure il caso dei preti arrestati nel 1967. Tutto quello che fu prelevato dalle loro stanze, venne conservato da noi. Gli Archivi erano una sorta di oasi. Se all’esterno si parlava male delle persone, dentro queste mura custodivamo tutto, e naturalmente ci ha salvato il fatto che le persone si autocensuravano e frequentavano di meno gli Archivi.
Sono riconoscente a tutte le generazioni di archivisti che non vivono più, i quali, nonostante le difficoltà del sistema, grazie al loro lavoro hanno reso un servizio straordinario alla società albanese. Mi ricordo che all’inizio degli anni ’90, gli stranieri mi chiedevano spesso perché l’Albania avesse ancora degli archivi. Tutti avevano l’impressione che il regime comunista avesse distrutto ogni cosa.
Considerando la maniera in cui funz
ionava il regime comunista, perché sono stati conservati questi documenti anche se le persone che le possedevano inizialmente sono finiti in carcere?
Poteva conservarli anche per una questione di onnipotenza, cioè per poterli utilizzare per lodare il regime. Le ragioni sono diverse, tuttavia dobbiamo dirci contenti anche senza dover trovare a tutti i costi un motivo. I documenti conservati sono un valore indiscusso che serviranno alle generazioni di tutti i tempi, a prescindere dal modo in cui possono essere interpretati. Bisogna tenere presente che una frase può essere interpretato in molte maniere, figuriamoci poi un documento. La storia è una bella arte. Negli anni del regime comunista, le persone più informate in Albania erano gli archivisti, perché avevano la possibilità di consultare ciò che nessuno poteva farlo. Allo stesso tempo erano le persone più stressate perché dovevano tenere la bocca chiusa più degli altri.
Sono stati manipolati i materiali d’archivio che venivano depositati durante gli anni del regime comunista?
I materiali d’archivio non venivano manipolati perché gli uomini del regime avevano la necessità di avere pronti sulle loro scrivanie i documenti originali. Ciò perché la manipolazione dei fatti era sempre in evoluzione e le manipolazioni nel tempo potevano essere fatte senza toccare l’originale. Ad esempio, da un documento, un giorno veniva omesso un nominativo, e magari nel mese successivo un altro. Oppure dalle fotografie venivano tolti alcuni volti per sostituirli con altri. Ma i documenti originali non venivano toccati, e faccio riferimenti a quelli storici che disponiamo nei nostri archivi. Per dirla in altre parole, la copia resa pubblica durante il regime veniva manipolata, invece il documento o la fotografia originale veniva conservato perché sarebbe servito per i casi successivi, e allora non si poteva mai essere sicuri dei potenziali “nemici” del regime. Posso raccontarvi anche un aneddoto che girava alla fine degli anni Ottanta. Chiesero ad uno: “Chi ha fatto la Guerra nazionale di Liberazione?”. “Lo fecero i nemici”, rispose. E la risposta era più che veritiera perché molti di coloro che lottarono per la liberazione, furono messi al bando come nemici da parte del regime totalitario. Ecco, con questo aneddoto si può comprendere meglio anche la smania del regime di conservare gli originali e non toccarli. Nello stesso tempo, chi doveva occuparsi della loro interpretazione doveva far attenzione ad attenersi alle istruzioni dell’epoca.
Cosa veniva depositato durante quel periodo dalla famiglia Hoxha? C’è stato particolare attenzione verso questi materiali?
La famiglia Hoxha non ha mai depositato materiali presso l’Archivio Centrale, perché faceva riferimento all’Archivio del Partito che era un modello in miniatura del nostro Archivio. Ovviamente con la consegna di questo Archivio al Archivio Centrale, sono arrivati anche i documenti dei fondi delle personalità che le hanno conservate. Come archivista sostengo che quei fondi siano un po’ inventati perché le persone a cui appartengono coprivano funzioni di partito o di stato. In archivistica, il fondo di una personalità è definito tale quando c’è qualcosa fuori dalla sua attività, non può essere composta nella sua stragrande maggioranza da attività di partito, che oltre ad essere un’attività ufficiale era anche una professione esercitata. Inoltre anche i discorsi non venivano scritti da loro.
Dei materiali dei periodi storici conservati negli archivi e che ha potuto visionare, quali menzionerebbe?
Il documento più antico conservato negli Archivi è del VI secolo d.c. e questo fatto ci elenca tra gli archivi più antichi del mondo. Tuttavia, c’è un vuoto documentale perché dal VI al XVI secolo ci sono pochi documenti. Ad esempio abbiamo documenti del XV secolo ma mancano quelli relativi ai principati albanesi. Questi materiali si possono reperire negli archivi esteri, ed averne copia non è un problema.
Con l’occupazione ottomana, una buona parte degli archivi furono annientati, oppure furono inviati ad Istanbul oppure furono portati via dalle famiglie che lasciarono l’Albania. Dal XVI ci sono più documenti, invece dal XVIII secolo i materiali sono più completi. Possiamo dirci di avere tre secoli di storia molto documentati che, tuttavia, hanno i loro vuoti, e anche se non si ha una documentazione completa, è sufficiente per fare qualcosa.
Ho avuto la fortuna di lavorare con i documenti di tutti i periodi storici. Ogni documento ha la sua particolarità. Meno interessante per me potrebbe essere il secondo dopoguerra perché è un periodo che ho vissuto in prima persona e non mi suscita interesse particolare. È quello che non hai vissuto che attira di più. Il XVIII e il XIX secolo sono particolarmente interessanti perché sono trattati superficialmente anche nei testi scolastici. Si possono trovare nei documenti di questi due secoli, particolari difficilmente percepibili dall’immaginario comune.
Inoltre si prova una sensazione unica nel toccare i documenti oppure i manoscritti originali degli scrittori albanesi dell’epoca. Sfogliare l’originale del “Milosao” scritto da Jeronim de Rada (Girolamo de Rada, scrittore arberesh, ndt) è veramente emozionante. Come quando si legge l’originale di una lettera di Dora d’Istria, oppure quando si tocca “Lahuta e Malcisë” (Il Liuto delle Montagne) di Gjergj Fishta. Ho avuto l’opportunità di ordinare le pagine di quest’ultimo. È veramente qualcosa di irrepetibile perché il libro si trova ovunque ma lavorare con il documento originale è diverso, indescrivibile.
Immaginate di sfogliare l’antico registro di una chiesa, vedere le tracce lasciate dalla candela e leggere dati sui bambini nati, sui matrimoni contratti, sull’origine degli abitanti oppure sulle cause dei decessi. Qualcuno è stato condannato dal Pascià finendo nella mani del boia per motivi politici oppure per aver commesso un reato grave, qualcun altro è morto per essere caduto dal cavallo oppure per essersi affogato nel fiume. È ancora più sorprendente leggere nel registro di un cadì che “oggi è caduta neve rossa” oppure “è venuta una marea di mosche, il fiume è uscito fuori dal letto…”. Insomma, tutti i particolari della vita quotidiana dell’epoca.È particolarmente rilevante la corrispondenza tra le personalità albanesi nel periodo delle grandi insurrezioni e della proclamazione dell’Indipendenza e in quello che va dall’indipendenza (1912) al Congresso di Lushnja (1920). Sono gli anni dell’instabilità politica e del consolidamento ulteriore della coscienza nazionale degli albanesi. Per di più si tratta di personalità che erano riusciti ad integrarsi ed avere ruoli di rilievo in società di altri paesi e che un giorno decisero di ritornare in Albania. Bisogna avere presente che ritornavano senza sapere cosa potesse succederle. L’unica cosa certa era che non avrebbero percepito stipendi e compensi ma avrebbero dovuto coprire da solo tutte le spese e l’unico motivo del loro ritorno era l’amor di patria. Sono anni straordinari per chi vuole studiarli in modo approfondito, anche per il processo di formazione della nazione albanese.
Dalle corrispondenze presenti negli Archivi, quali menzionerebbe?
La corrispondenza è consistente. Ho letto la corrispondenza tra Sotir Koleka e Mihal Turtuli, oppure quella di Gaqo Adhamidhi, noto come “Dottor Adhamudhi”. C’è la corrispondenza tra Faik Konica e Kadri Prishtina. Inoltre, menzionerei la corrispondenza di Ismail Qemali, Sevasti e Parashqevi Qirjazi, Kristo Dako, Fan Noli, Mehmet Konica, Dhimitër Berati, Padre Gjergj Fishta, Padre Pal Doda, Luigj Bumçi. C’è un’intera pleiade di personalità che usava la corrispondenza come i Toptani oppure i Zavalani che hanno dato il loro contributo alla causa nazionale e adesso meritano riconoscimento.
Lei ha menzionato le sorelle Qirjazi, che cosa le preoccupava?
Le sorelle Qirjazi sono due personalità di spicco della cultura albanese. Parashqevi non si era sposata, invece Sevasti era sposata con Kristo Dako, un altro patriota di rilievo. Loro lasciarono gli Stati Uniti per ritornare in Albania, aprirono la prima scuola femminile albanese e formarono la prima generazione di insegnanti donne in Albania. Il loro contributo per l’istruzione albanese è senza confronto. L’Istituto “Qirjazi” riuscì a preparare ottime insegnanti anche perché le sorelle Qirjazi erano donne di grande cultura. Parashqevi parlava 9 lingue straniere e fu l’unica delegata donna nella Conferenza di Pace di Parigi. Invece la loro sorte fu tragica. Furono maltrattate sia nel periodo dell’occupazione nazifascista sia più tardi. I nazisti le portarono nei campi di concentramento, invece quando rientrarono in patria le furono confiscati tutti i beni e non ricevettero il riconoscimento dovuto come le prime donne che fecero molto per il loro paese.
Pubblicato sul quotidiano Shqip del 14/03/2008 e tradotto per Albania News da Alban Trungu