E’ uno di quei nomi, quello di Giacomo Casanova veneziano, che ha fatto il giro del mondo, conosciuto e citato, per lo più, per l’immagine che di sé lui stesso ha voluto trasmettere ai posteri.
Di multiformi generi la sua cultura perché letterato, traduttore, storico, poeta: fu agente segreto, filosofo, matematico, alchimista, viaggiatore nei principali stati, interlocutore delle maggiori personalità culturali del suo tempo, di statisti, di principi, di re. Chiunque si occupi del secolo XVIII in Europa incrocia inevitabilmente il suo nome, ma anche chi non sia mosso da precisi intenti culturali, il nome di Casanova l’ha incontrato rifranto in mille rivoli, in mille storie di costume quale figura speculare, in certo senso, del Don Giovanni di Mozart, in quanto emblema del grande seduttore e del grande libertino. E quest’ultima caratterizzazione è legata al successo della sua autobiografia, la Storia della mia vita, scritta nella lingua più diffusa e parlata del tempo, il francese.
A Venezia Casanova, spesso a torto, ancor oggi spopola rispetto a tanti veneziani illustri del passato, perché appunto il leggendario è prevalso sul reale, è funzionale alla vendita turistica dei tanti luoghi della città in cui il personaggio era vissuto.
A torto, si diceva, perché l’autobiografia di Casanova, nonché molte altre opere da lui scritte, non è solo cronistoria di avventure amorose, è una fonte interessante e preziosa di notizie, di descrizioni di luoghi, di rinvii ai costumi e alla cultura del tempo, di annotazioni di un uomo colto e di un viaggiatore attento.
E’ rientrata l’Albania nei suoi resoconti? Lo vedremo di seguito.
La Venezia del Settecento, patria di Casanova, aveva ormai perduto
il suo Stato da Mar, dell’Albania propria era rimasta una minima porzione di fronte a Corfù, la zona di Butrinto, ma le ragioni di commercio continuavano a mantenere il dialogo vivace e quotidiano tra le due sponde; gli Albanesi sudditi dell’Impero ottomano erano presenze stabili a Venezia, facenti capo al Fontego (Fondaco, Magazzino) dei Turchi, e decine e decine di galee facevano la spola in Adriatico da Scutari, da Durazzo da Valona da Butrino (Corfù) a Venezia e viceversa cariche di cere, di tabacco, di legnami, di pelli di animali, di sete e di lane e di quant’altro. Dell’antica Albania veneziana si continuava a mantenere un ricordo quasi favoloso. Se sul Bucintoro la statua del Gigante Scanderbeg aveva lasciato il posto a quella di un più generico Marte, l’eroe albanese continuava a rivivere sulle scene teatrali veneziane attraverso rappresentazioni della Commedia dell’arte che ne avevano ripreso la dimensione di Gigante, capace addirittura di addomesticare leoni.
E la Repubblica non dimenticava poi il contributo militare che per secoli aveva avuto dai “parenti” adriatici dell’altra sponda, schiavoni e albanesi, e Carlo Goldoni, il grande commediografo del Settecento, dedicava al tema una pièce di grande successo: La Dalmatina e proprio i militari schiavoni presenti a Venezia correvano a ogni rappresentazione:.
Ed eccoci ai ricordi del nostro Casanova, che, neanche ventenne (era nato nel 1725), ha occasione di vedere nell’isola di Sant’Andrea, alla imboccatura del porto di Venezia, un indimenticabile quadro umano: la riunione di soldati albanesi, con le loro famiglie tutte in coloratissimi costumi, che si erano portati in quel luogo per ricevere decorazioni al loro valore militare.
La fortezza [di Sant’Andrea], dove la Repubblica teneva di solito una guarnigione di cento schiavoni invalidi, ospitava allora duemila albanesi chiamati cimarioti. Il ministro della Guerra, che a Venezia chiamano Savio alla scrittura, li aveva fatti venire dal Levante in occasione di una promozione. Si voleva dar modo agli ufficiali di far valere i loro meriti e di vederseli ricompensati. Erano tutti nativi di quella parte dell’Epiro che si chiama Albania e che appartiene alla Repubblica e venticinque anni prima si erano distinti in occasione dell’ultima guerra combattuta da Venezia contro i turchi. Per me era uno spettacolo nuovo e sorprendente vedere quel gruppetto di ufficiali, tutti anziani e in buona salute, col volto coperto di cicatrici e il petto scoperto. Il più anziano, e anche il più orripilante, era il tenente colonnello, cui mancava letteralmente un quarto di testa, in quanto aveva perduto un orecchio, un occhio e la mandibola. Ciononostante parlava con tono allegro, mangiava di buon appetito ed era di carattere gioviale. Aveva con sé tutta la famiglia, che era composta da due ragazze, che il costume nazionale rendeva ancora più graziose, e da sette maschi, tutti sotto le armi. Quest’uomo era alto sei piedi e ben messo, ma aveva il viso così rovinato dalle ferite da fare paura. Malgrado ciò mi riuscì subito simpatico e mi sarebbe piaciuto intrattenermi con lui se solo avesse mangiato un po’ meno aglio. Invece ne era ghiottissimo, come tutti i suoi connazionali, e puzzava in modo insopportabile. Tra l’altro ne aveva sempre in tasca almeno venti spicchi, come noi terremmo in tasca dei confetti…. Il tenente non sapeva scrivere, ma non se ne vergognava perché, tranne il prete e un chirurgo, nessuno nel reggimento ne era capace. Tutti, ufficiali e soldati, avevano la borsa piena e almeno la metà erano sposati: nel forte infatti vivevano anche cinque o seicento donne e un gran numero di bambini e lo spettacolo che questa gente variopinta offriva mi interessava molto….
Casanova diventò presto amico dell’albanese che gli regalò dodici bottarghe e due libbre di squisito tabacco Gingè.
Non entriamo nel seguito del racconto, meno interessante ai nostri fini perché legato a un’avventurosa amorosa con una giovane di quel gruppo. Conta quello spettacolo dei vecchi soldati cimarioti: una galleria di volti coperti da cicatrici, i petti nudi, capeggiati-per così dire- dal colonello che era addirittura senza mezza testa; eppure tutti orgogliosi delle loro ferite, allegri per gli onori che avrebbero ricevuto.
Siamo da sempre abituati a pensare agli stradioti quali valorosi combattenti, velocissimi nel loro guerreggiare con quasi mitici cavalli, gli stradioti anche nobili, quale un Mercurio Bua per esempio, con tanto di pietra tombale di prestigio. Ecco, questo passo di Casanova ci riporta ad altre immagini, a corpi lacerati e sfigurati, a combattimenti di sangue, a miracolose sopravvivenze, a mutilazioni e infezioni, a furiosi corpi a corpi. Colpisce altresì quella atmosfera di allegria in cui la bruttezza di facce sfigurate era occasione di orgoglio, di esibizione quasi, di voglia di onorificenze e premi a ricompensa di valore e fedeltà alla Repubblica.
Ricorda, se è lecito l’accostamento, una scena che potrebbe essere inserita in un carnevale veneziano del tempo (mitici, lunghissimi, i carnevali del Settecento veneziano); la tragedia del combattere era trasformata in una grande festa, nella gioia per essere sopravvissuti, per essere protagonisti da onorare e ricompensare.
L’Albania sfilava lì a Venezia, nel forte di Sant’Andrea, come terra di uomini coraggiosi ed eccezionalmente forti: al popolo veneziano appariva, tout court, come un favoloso paese di straordinari e fedeli guerrieri.
Il giovane Casanova registra quella esperienza alla vigilia di un suo primo viaggio verso Costantinopoli, al seguito di un nuovo bailo, Pietro Vendramin: tappa prevista e obbligata di quel viaggio, sia all’andata che al ritorno, era Corfù.
Con interesse, alla ricerca di notazioni eventuali sulla terra albanese, si continua la lettura della Storia della mia vita: non riserva grandi soddisfazioni quella lettura, perché i viaggi verso il Levante sfioravano solo la costa e non comportavano soste all’interno; eppure no, qualcosa trova il lettore attento, ancora legato all’area di Corfù, in occasione di un’altra avventura di viaggio di Casanova ( era il 1744).
…Il giorno dopo il signor F. pregò il signor D.R. di lasciarmi andare tre giorni a Butrinto per sostituire il suo aiutante che era gravemente ammalato.
Butrinto, la località di terraferma più vicina all’isola, è a sette miglia di fronte a Corfù. Non è una fortezza, ma un villaggio dell’Epiro, l’odierna Albania e appartiene ai veneziani. Consapevoli della verità politica che “un diritto trascurato è un diritto perduto”, i veneziani vi mandano ogni anno quattro galee cariche di galeotti che provvedono a tagliare la legna e a caricarla su imbarcazioni che la trasportano a Corfù. La galere erano sempre scortate da un distaccamento di truppe che hanno il compito di sorvegliare i galeotti, i quali altrimenti potrebbero facilmente disertare e andare a farsi turchi….In due giorni i galeotti avevano già finito di tagliare la legna e la imbarcarono. Così il terzo giorno potei tornare a Corfù.
Di contro alla coloratissima scena del Forte di Sant’Andrea, la descrizione di Butrinto delude per il silenzio tombale di un luogo che è solo boscaglia: i Veneziani lo possiedono ancora, quel luogo che era stato un tempo strategico negli scontri con la potenza ottomana. Ma, sottolinea Casanova, per la politica veneziana si trattava ormai solo di mantenere e non trascurare un diritto, quindi ecco Butrinto quale semplice riserva di legname, materia prima però sempre preziosa per la Repubblica.
E d’altronde, perso il suo valore di postazione militare strategica, con una importantissima fortezza, cosa poteva essere nel Settecento per Venezia Butrinto? Butrinto, battuta dall’endemica malaria, era ormai solo terra di legnami, piuttosto era l’area delle peschiere ad assicurare lauti proventi alla Camera di Corfù; erano le sue peschiere a fornire anche alle mense veneziane dell’ottima bottarga, pari a quella che al Forte di Sant’Andrea il vecchio colonnello aveva regalato al giovane Giacomo.
Due secoli ancora ci sarebbero voluti per gli scavi di Luigi M. Ugolini, che la troverà alla fin fine non molto diversa dalle brevi notazioni di Casanova: la dirà invasa da intricata e impenetrabile foresta, zona di desolante squallore abitata da cinghiali, sciacalli, vipere. Era un’area tutt’al più per battute di caccia, come bene aveva saputo Alì Pascià di Tepelena.
Il grande silenzio di Butrinto non attraeva il giovane Casanova, che evidentemente conosceva poco di storia dei luoghi e nemmeno conosceva i viaggi quattrocenteschi colà di Ciriaco d’Ancona con i suoi primissimi ritrovamenti di resti archeologici. Il fascino romantico della Butrinto selvaggia, quella che sarà di Byron, era ancora lontano, in lui c’era solo smania di vita e di avventura.
Aveva fretta di tornare a Corfù, tra possibili divertimenti di incontri amorosi e di sfide al gioco, e di queste ultime aveva avuto una buona scuola a Venezia dove era stato aperto nel 1638 il primo Casinò della storia moderna.