Ai frati Francescani missionari che svolsero il loro difficilissimo impegno di fede nell’Albania centro- nord del secolo XVII si devono, come tutti sanno, resoconti della loro esperienza di vita quotidiana, racconti di usi e costumi del Paese, notizie sullo stato di antichi edifici religiosi, umori della gente comune o dei governanti, descrizioni geografiche e quant’altro il loro peregrinare da un luogo all’altro faceva di essi anche “cronisti” attenti e scrupolosi.
Dal primissimo arrivo, nel 1634, via via nei decenni successivi riuscirono ad annotare i momenti salienti della loro vita, a organizzarsi in qualche modo in vari oratori, ad avere un punto di riferimento sicuro nella figura di un loro Prefetto: era quest’ultimo che doveva periodicamente spedire a Roma ragguagli su quanto accadeva in missione, ragguagli che l’archivio di Propaganda Fide ha conservato nei secoli, offrendoli alla lettura e all’analisi di quanti ne fossero interessati anche a trascriverli. Non è questa la sede per citare tutti gli studiosi che se ne sono occupati, ma, per tutti, almeno vanno ricordate le puntuali trascrizioni di Jniac Zamputi.
Ma non sono solo gli archivi romani a conservare memoria delle missioni in Albania: i francescani che sceglievano di andarvi provenivano da diverse regioni d’Italia e facevano dunque capo a determinate “Province” in cui era strutturato l’Ordine, Piemonte, Veneto, eccetera e nella loro “Provincia” di appartenenza potevano poi rientrare, conclusa la missione, magari portando con sé memorie personali. E dunque ecco che anche archivi regionali, non solo quelli romani, possono aver conservato documenti preziosi per la storia delle missioni e più in generale per la storia dell’Albania. Non stupirà allora che qui si parli di archivi veneti, veneziani nello specifico, ben conoscendo quanto la storia della Repubblica di Venezia sia stata legata alle terre che si affacciavano all’Adriatico, all’Albania in particolare. Per i Francescani veneti che pensassero di svolgere una missione di fede uscendo dalla loro regione, l’Albania poteva essere terra vicina, nota e conosciuta proprio perché tanti e molteplici erano i legami che perduravano tra la Repubblica di Venezia e l’Albania, quell’Albania cristiana che aveva alimentato tra Quattrocento e Cinquecento la diaspora di sue genti nelle terre venete.
Per questo, guardando gli elenchi dei primi francescani missionari in Albania nel secolo XVII, non stupisce di trovare numerosi nomi di frati dell’area della Repubblica di Venezia, per esempio Evangelista da Venezia, Bernardo da Venezia, Francesco e Benedetto da Soligo (Treviso), Leone da Cittadella (Padova), Angelo da Bergamo, Cherubino da Val di Bono (Trento).
Si è citato per ultimo quello che fu il primo dei francescani missionari a mettere piede in Albania e che interessa perché offre agli studiosi un importantissimo documento.
Vi arrivava nel 1634, era lui con Bonaventura da Palazzolo e rimaneva in Albania 14 anni, dal 1634 al 1648, anno della sua morte improvvisa avvenuta a Cattaro. Fu fatto, nel tempo, vice Prefetto e Prefetto; fu il primo, primissimo missionario a imparare la lingua albanese, fu il primo a poter presto parlare con la gente, fu il primo che, proprio in quanto possedeva lo strumento linguistico, poteva comunicare con le varie autorità turche.
Nella sua qualità di Prefetto inviò via via a Roma relazioni su quanto avveniva in terra di Albania, registrando episodi vari, spesso drammatici, relazioni che hanno fatto conoscere e circolare il suo nome tra gli studiosi. Le sue relazioni furono spesso conosciute anche dagli altri missionari, che le hanno potute anche riprendere e utilizzare. Questo, per esempio, è avvenuto con P. Giacinto da Sospello, il cui nome è venuto alla ribalta ultimamente, dopo il recupero a Fermo (nelle Marche) da parte di Mark Palnikaj di un suo corposo riassunto di relazioni sulle missioni in Albania.
Ma P. Cherubino, come testo di scrittura personale, quasi una autobiografia, volle anche scrivere un vero e proprio libro, libro che tenne per sé e che poi fu fatto pervenire alla “Provincia” di appartenenza, forse poco prima di concludere la sua esistenza a Cattaro, che aveva raggiunta per gravi motivi di salute e dove, come si è detto, morì nel 1648.
E’ tale autobiografia che io ho ritrovato negli archivi veneziani e che sarà pubblicata nel prossimo autunno.
Numerose altre sue relazioni stilate in qualità di vice Prefetto e di Prefetto circolarono tra i missionari in Albania, furono conosciute e anche utilizzate, come nel caso di Giacinto da Sospello (che fu in Albania dal 1637 al 1650 ed è più volte nominato nel testo di P. Cherubino) il quale, confezionando nel 1652 uno scritto riassuntivo delle missioni in Albania, riprendeva stralci di scritti di altri missionari, tra questi anche alcuni di P. Cherubino.
Proprio P. Cherubino aveva raccontato un episodio drammatico di cui era stato protagonista lui stesso, assieme al giovane f. Evangelista da Venezia: erano stati convocati entrambi con le usuali accuse di voler riportare alla fede cristiana tutta la popolazione. essi erano comparsi davanti al Sangiacco di Scutari, che li sottopose a interrogatorio. Parlava il P. Cherubino, come quello che sapeva la lingua (scrive P. Cherubino) e rispondeva alle varie domande su chi erano, perché erano andati in Albania, a quale scopo. Incalzavano le domande, poi il Sangiacco passava alle lusinghe:
Orsù fatevi turchi, che questo è il meglio che potete fare, perché vi vestiremo benissimo, vi daremo bellissimi cavalli, vi terremo per paggi, e vi adotteremo come figli e vi faremo ricchi. Rispose il padre Cherubino che possedeva la lingua: Dio ci guardi dal farci turchi, piuttosto la morte. Allora in risposta [in traduzione di chi scrive dall’originale che è in lingua albanese]:
Ruffiani Cauri (ossia Cristiani) un tale senza fede, questo che sa la lingua, deve esser ammazzato, perché questi altri invece facilmente si faranno turchi, e in particolar quel giovine, [intendendo il frate Evangelista].
Dunque Padre Cherubino è qualificato schipetar, ossia quello che sa lingua: il termine NON HA CONNOTATI ETNICI, ma indica solo colui che parla la lingua albanese e infatti si riferisce a Padre Cherubino, che non è albanese. Non a caso il termine shqiptar si troverà tradotto nel dizionario di Francesco Maria Da Lecce del 1702 con parlatore, affermazione che concorda con l’interpretazione dell’origine semantica del termine shqiptar (registrata da G. Meyer): “l’uomo che comprende la lingua” (così come già ha spiegato, con gli opportuni riferimenti bibliografici, nel suo ultimo libro lo studioso Aurel Plasari).
La testimonianza di Padre Cherubino è dunque di fondamentale importanza per la storia linguistica di Albania e risale al 1639.
Lo stesso episodio forse fu inserito da P. Cherubino in altre relazioni a Roma finora non recuperate negli archivi di Propaganda Fide, e comunque, essendo in stretto contatto tra loro i missionari in Albania, i suoi scritti erano conosciuti anche da P. Giacinto da Sospello, che infatti lo riprende circa un decennio dopo, nel 1652.
Fu Padre Cherubino, si ribadisce, lui in persona il protagonista dell’evento, fu lui stesso a lasciarne testimonianza scritta e a diritto oggi si può indicare come il primo missionario francescano albanofono accertato nel secolo XVII. E si può ascrivere al 1639 la testimonianza sull’uso del termine shqiptar.
Spetterà ora agli esperti di linguistica la discussione minuziosa del passo, studiandolo anche nella grafia albanese originale, dato importantissimo nella storia culturale di Albania.
Insomma, è un tempo di buone notizie per l’Albania, di ancora nuovi tasselli per arricchire l’arazzo della sua storia.