Eris Nezha è considerato uno dei giovani talenti più promettenti del corpo di ballo del Teatro alla Scala di Milano. Diplomato nel 2002, ha già danzato Des Grieux in Manon e Solor nella Bayadère, Frédéri nell’Arlesienne di Petit e il principe in Cenerentola. Il mese scorso è arrivato per lui un nuovo debutto: il ruolo di Albrecht nella celeberrima Giselle.
Alessandro Bizzotto
MILANO – Nato a Tirana, in Albania, Eris Nezha è di casa in Italia. Dal 1998 ha studiato a Milano, alla scuola del Teatro alla Scala, e oggi ne è parte fissa del corpo di ballo. Riconosciuto dal pubblico milanese come una delle migliori leve nella nuova generazione di danzatori, è tornato il mese scorso a calcare il palcoscenico del Piermarini in un nuovo ruolo principale: quello di Albrecht, il protagonista di un grande classico come Giselle.
Lo incontriamo in teatro, poche ore prima dell’inizio di uno spettacolo.
L’inizio e gli studi all’Albanian Dance Academy…
Avevo dieci anni quando ho iniziato a studiare danza. Quasi per caso… Per quattro anni ho studiato a Tirana. Poi si sono trasferito a Milano, a quindici anni, dopo aver perso quasi un anno per problemi di natura politica nel mio paese. Mi sono presentato subito alla scuola della Scala, ma non sono stato accettato: ero fuori forma. Mi sono rivolto al Teatro Carcano. Ho studiato lì per un anno, mi sono ripreso e mi sono nuovamente presentato alla Scala. Sono stato ammesso e ho proseguito qui i miei studi, per diplomarmi a diciannove o vent’anni. E sono entrato subito a far parte del corpo di ballo.
Quando sono arrivati i primi ruoli importanti?
Per i primi due o tre anni ho danzato in corpo di ballo, affrontando solo qualche ruolo da solista. Il primo grande ruolo è arrivato nel 2005: ho interpretato Manon nel ruolo del protagonista Des Grieux. Ha davvero cambiato la mia carriera, da lì i grandi ruoli si sono susseguiti uno dietro l’altro. Ho debuttato con la compagnia al Regio di Torino, non subito in Scala. Quello di Des Grieux è un ruolo incredibilmente impegnativo, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello espressivo. Più di un anno prima avevo raccontato a Frédéric Olivieri, che allora dirigeva il corpo di ballo, che sognavo di interpretare Manon e che era uno dei miei balletti preferiti. Appena ha potuto, Olivieri ha rischiato e mi ha affidato la parte del protagonista.
Altri ruoli che hanno segnato la tua carriera?
Ce ne sono diversi. Solor nella Bayadère, ad esempio… Molti ruoli sono arrivati fuori dalla Scala, che ho lasciato per due anni lavorando come guest in diversi teatri e viaggiando parecchio, per poi rientrare a Milano nel febbraio del 2008. A Roma ho ballato Cenerentola e La gitana. E quest’autunno ho affrontato Giselle…
Com’è andato il debutto in questo nuovo ruolo?
È andato meglio di quanto mi aspettassi! Anche se ero spaventato da Giselle… Già ai tempi del diploma molte persone mi dicevano che avevo il viso giusto per interpretare Albrecht, il protagonista del balletto; e anche dopo il diploma me lo sono sentito ripetere: “Devi ballare Albrecht”. È un ruolo pesantissimo, soprattutto nel secondo atto, ma non mi preoccupava solo dal punto di vista tecnico… sapevo a cosa andavo incontro. Albrecht è molto complicato dal punto di vista artistico: è di difficile interpretazione, non è un principe tradizionale. Ma sono soddisfatto, anche le critiche sono state più positive rispetto a quello che prevedevo! Ogni artista, poi, ha un Albrecht diverso, ne interpreta il carattere e il ragionamento in modo differente…
Tu come l’hai interpretato? Benjamin Pech dell’Opéra di Parigi, ad esempio, mi dice sempre che Albrecht va interpretato con la maggiore semplicità possibile, senza eccessi d’interpretazione…
È verissimo. Avevo provato qualche variazione di Albrecht in passato, cercando diverse chiavi di lettura per interpretare il personaggio. Quest’anno, quando ho studiato il ruolo completo, sono stato invitato soprattutto a non recitare, ma ad essere naturale. Anche dal punto di vista artistico l’interpretazione del ruolo migliora nel momento in cui non ti ostini a recitare.
La recitazione sul palco è diversa a tuo parere dalla recitazione davanti a una telecamera?
A volte aiuta recitare come se ci fosse una telecamera vicina a te, come se il pubblico potesse cogliere senza difficoltà le sfumature dell’interpretazione. Purtroppo in scena non è così: il pubblico è distante e soprattutto ha una posizione ben precisa; c’è sempre il rischio che non noti un gesto o un’espressione. Per questo in teatro viene meno parte della naturalezza del cinema, occorre pensare a ciò che si dà… dare enfasi ai gesti, o modificare l’orientamento del corpo, muovendosi in modo diverso rispetto alla realtà concreta; voltarsi di lato quando si dovrebbe guardare indietro, ad esempio, per non dare le spalle al pubblico. L’esperienza, poi, insegna molto; con la maturità sai quando o quanto puoi lasciarti andare senza commettere errori. Un modo di interpretare più rilassato può comunque essere efficacissimo e farsi apprezzare maggiormente dal pubblico.
Che tipo di spettatore sei a teatro?
Nei miei confronti sono rigidissimo, non tollero nessun errore di tipo tecnico. Se vedo ballare altri miei colleghi, invece, non sto neanche a guardare la tecnica: è solo uno strumento per esprimersi, per raccontare una storia. Guardare dalla platea, in ogni caso, serve molto anche a livello professionale. Sono un danzatore che cura moltissimo la tecnica in fase di preparazione; lo faccio per non dovermene preoccupare in scena. E uno dei miei primi errori, agli inizi, era proprio preoccuparmi all’estremo della tecnica per poi sentirmi dire che l’atteggiamento era sbagliato, che sembrava non ballassi per il pubblico. Spesso un ballerino considera un ruolo alla stregua di un esame, ma bisogna sempre ricordare che il pubblico può apprezzare maggiormente una tecnica non nitidissima, ma più “ballata”, più consapevole. Per questo, oggi, insisto nel mettere alla prova la mia tecnica soprattutto in prova, per avere un controllo completo sul fisico; poi, in scena, non ci penso più.
Ci sono stati artisti, quando eri studente, che hai considerato dei modelli?
Fra i più grandi, soprattutto Mikhail Baryshnikov. A livello tecnico ha fatto storia, ma in lui ho sempre visto anche un grande artista. Arrivava a virtuosismi pazzeschi, ma era come se non si curasse della tecnica; riusciva sempre ad esprimersi, a usare il cosiddetto tecnicismo per parlare al suo pubblico. [email protected]
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