La questione calcistica con annessa usuale polemica sul calciatore della Juve, Kean, è già di per se una dimostrazione e conferma della persistenza delle «due Italie» storiche.
Ancora una volta questo antagonismo fra «due Italie», le stesse sul piano sociale e culturale, evidenziate da Gramsci o da Asor Rosa, si rispecchiano anche nel mondo dello sport più popolare. Il calcio, d’altronde, non è che la metafora della vita, come diceva il grande intellettuale e appassionato Camus. Infatti la distinzione o lo spartiacque fra queste Italie è divenuto molto evidente anche nel calcio, prendendo forma dalla società. Non si tratta soltanto dei buu, che fossero di tono razzista o meno, riferiti a un giocatore di colore, che determinano queste due Italie, perché da perenne ribelle ai poteri forti, penso che alla stessa squadra della Juve in ogni stadio andrebbero riservati dei buu, che entrano nella logica stessa del calcio e del tifo, fatti da quel misto di paura, di inferiorità e a volte anche di disprezzo, da parte di tifosi avversari, soprattutto delle province. Ma a certificare la linea netta fra le due Italie, esiste un concreto rappresentante di quell’altra Italia, molto simile a quella dei buu, all’interno della stessa squadra Juventina, nella figura di Bonucci.
Ma quali sono queste due Italie del calcio? In che comportamenti si concretizzano e quali caratteristiche le identificano?
Da una parte si intravede una nuova Italia che rappresenta un nuovo mondo, teso a scavalcare quello vecchio nella maniera più bella, soprattutto calcisticamente. È una nuova Italia che si presenta, anche se fa molta difficoltà ad imporsi perché trova ancora socchiuse le porte, anche del calcio, seppur meritevole ed è rappresentata simbolicamente da Kean.
L’altra invece è chiara, alla luce del sole, ed è sempre la stessa. È l’Italia dell’establishment. L’Italia degli intoccabili e degli ingiudicabili; coloro che nelle proprie vittorie si trascinano dietro il carretto dei loro lacchè, dei giornalisti servili, dei tifosi malati di vittoria a tutti i costi anche se immeritata e a discapito del buon gioco. L’Italia, pasoliniana, fatta «di vincitori volgari e disonesti, della gente che conta e che occupa i posti di potere», un Italia arrogante, forte coi deboli e debole con i forti, sempre accompagnata dal vociare trionfalistico di un codazzo di supplici e interessati estimatori. Un’Italia in cui quando si vince è merito nostro ma se si perde è colpa sempre degli altri, per cui si deve trovare un altro colpevole, un arbitro o trame complottiste di vario genere: «colpa della neve a Istanbul», per una squadra che ha sede a Torino e nelle capitale turca da più di 100 anni non si vedeva la neve. Così sosteneva, dopo l’eliminazione dalla Champions l’allenatore italiano, un membro d’eccezione di questa Italia, un’intoccabile per eccellenza, colui che viene idolatrato per dei quarti di finale agli europei, mentre degli illustri membri di un’altra Italia quali Donadoni, o Zoff vengono scaricati dalla Federcalcio, perché pareggiano in Finale con la squadra più forte di tutti i tempi (nel caso di Donadoni), per colpa di un rigore sbagliato. Sullo stesso fronte abbiamo anche l’Italia dei vari Buffon e il gruppo della Juve, protagonisti di figuracce infinite mai sottolineate dalla stampa complice, ma pronti a scaricare con codardia tutte le colpe per il mondiale vergognoso del 2014, del quale i primi colpevoli erano loro, sul “povero” e abbandonato Balotelli ; un Italia che dà la colpa «ai troppi stranieri» se non si qualifica nemmeno ai mondiali, contro una squadra modesta come la Svezia. Questa è l’Italia arrogante, cafona (e insicura), ma anche scura in volto e nell’anima, innamorata dei campioni con un certo tipo di carisma, che sembrano più dei condottieri votati al «vincere» a tutti i costi, che dei trascinatori sportivi, ai quali è pronta a perdonare tutto: dai «boia chi molla», fino veri o presunti giri di scommesse o la sospetta appartenenza a organizzazioni simili ad associazioni mafiose, con pressioni su certi giocatori ad entrare a fare parte di una tal società di procuratori proprietà di certi amici di amici e figli di papà. L’Italia sempre protetta dalla stampa, sempre il cane di compagnia del potere. L’Italia in cui basta che si vinca, non importa come, ma se si perde, ci si serve del debole e del fragile di turno da crocifiggere, e mai il potente anche se colpevole. L’Italia che si è occupata per anni delle gesta fuori dal campo, pur sopra le righe, di un Balotelli, senza mai indagare nel dramma personale di un ragazzo cresciuto fra i buu e i lanci di banane nei campi di periferia della provincia chiusa e ignorante del Nord Italia. Un giocatore che ha fatto più danno a se stesso che agli altri, senza però mai compiere eclatanti gesti antisportivi in campo, a differenza di altri, “simpaticamente” dipinti con l’aureola della “genialità” o del “ragazzo di borgata” quale Cassano, o Totti e i suoi sputi, quel modello di educazione quale Materazzi, o gli intoccabili come Buffon, del quale non si contano più le bassezze antisportive. tra le quali io annovererei la sua meschina e autoreferenziale contrarietà riguardo l’attribuzione del Pallone d’Oro a Neuer, a differenza di Zoff, che dichiarò «finalmente magari un portiere». Se penso a questi giocatori, mi chiedo come sia possibile il silenzio assordante dei giornalisti, quasi mai interessati ad indagare sulla discutibile morale dentro e fuori dal campo di un Buffon, ma sempre intenti a riempire pagine su pagine con analisi minuziose, usando la lente d’ingrandimento, delle parole o delle pudenda in mostra di un Balotelli.
Ed ancora, ad un occhio attento non risulta poi troppo diverso, da un punto di vista morale e sportivo l’atteggiamento di Bonucci nei confronti di Kean. Ma come è possibile che un ragazzo di 19 anni debba sempre essere paragonato a qualcun altro, come Balotelli, soltanto per il colore della sua pelle, senza capire che uno non si «balotellizza» (termine ripreso da un articolo del «Liberoquotidiano») soltanto perché è di colore e si comporterebbe come tutti gli altri dello stesso colore, quanto, invece, perché ha contro un’Italia malata che i giornalisti in primis continuano a difendere, o per lo meno a non denunciare con convinzione come dovrebbero. Tutto ciò dimostra quanto i più siano distanti dall’aver capito che sia il giovane Kean che lo stesso Balotelli sembrano, e forse sono, l’incarnazione di tutto ciò che potrebbe essere di più italiano nel bene e nel male, dalla esuberanza all’estro, dalla fantasia fino alle «cassanate» o le «mancinate» – per chi si ricorda Mancini da calciatore. La posizione assunta da Bonucci dopo la partita a Cagliari fa riflettere proprio per la dimensione a senso unico nei confronti di questi ragazzi italiani senza il “pedigree”. Bonucci si sarebbe permesso di usare quel linguaggio moralistico con altri, come Chiesa ad esempio? Dire che le colpe erano «50% a 50», significa colpevolizzare sempre e comunque, senza alcun fondamento, questi ragazzi “esuberanti”, a dimostrazione di un’Italia che è ancora di parte, che non è ancora pronta, in cui ci sono italiani e italiani. Infatti, a riprova di ciò, Bonucci è stato ripreso da tanti giocatori di colore che hanno sofferto per le stesse angherie, come ad esempio Thuram . Ma la cosa triste è che Bonucci è un compagno di squadra di questo ragazzo (che, tra l’ altro, ha la fortuna di giocare nella squadra simbolo del potere e dell’establishment italiano); figuriamoci se Kean giocasse nel Frosinone, tanto per dirne una. Non oso immaginare le parole in Nazionale per un eventuale rigore sbagliato da Kean, dopo quanto dichiarato dal divo ormai decaduto e senescente Buffon contro Balotelli.
Ma lasciamo questa vecchia Italia stantia popolata di pensionati dello sport, alcuni simili ai politici nostrani, anche se più legati ai loro stipendi da “panchina” piuttosto che al campo di gioco, che, anche solo per ragioni anagrafiche, verrà cancellata. Questa nuova Italia calcistica è più bella e giovane, gioca in attacco ed è il futuro. Sembra già un’Italia, calcisticamente parlando, più virile, non più «squadra femmina» (per citare Gianni Brera – non per maschilismo, con buona pace dei tanti sostenitori della presunta teoria gender), anche senza quel carisma bruno, che inganna facilmente, e palesa una ostentata virilità da comizio. Ma questa è anche un’Italia fragile, indifesa e spesso sola, in un paese dalla mentalità ostile e chiusa, ma allo stesso tempo è più umana e lontana dai potenti e dai loro cortigiani. Essa avrebbe bisogno del sostegno di uomini e donne del mondo del calcio che già sono «altro», ‘la meglio Italia’, rappresentata dai Donadoni, gli Ulivieri, i Baggio, i Del Piero, gli Zoff, e tanti altri ancora, soprattutto dei migliori giornalisti. Perché a questa nuova Italia calcistica, per esistere anche socialmente nel paese, serve vincere, per avere dalla propria l’entourage di una certa stampa, sempre pronta a vendersi al potere della vittoria, dei soldi degli sponsor o dei procuratori e ad abbandonare ogni forma di obiettività per compiacere i potenti. Allora spero che questa Italia, che qualcuno potrebbe amare in quanto tale, anche se non vincesse, solo per il suo appassionato mondo poetico, possa, attraverso il potere che in Italia si concede soprattutto al vittorioso, diventare in primis un mondo nuovo, una metafora di un’Italia diversa e migliore anche dal punto di vista sociale e politico. Così, con un pizzico di fantasia e come buono auspicio, alla faccia della politica scellerata e delle divisioni razziste che vengono imposte al paese, mi immagino un tridente d’attacco della nazionale azzurra composto da Balotelli, Kean ed El Shaarawi; un tridente di colore in un’Italia che è grigia soltanto perché non ha più nemmeno il coraggio teatrale o lo spirito carnevalesco per vestirsi di nero.