Torino è sempre stata una città magnete. In un lontano passato esercitò la sua forza attrattiva suillustri artisti che contribuirono a modellare il suo volto facendone emergere la forte personalità e il pungente carattere. Il tempo la abituò a profonde trasformazioni, soprattutto sul piano fisico-architettonico e in rapporto ai diversi ruoli che dovette incarnare nel corso della storia.
Durante il secolo scorso scoprì di possedere uno spiccato talento industriale e ciò la portò a chiamare a sé ondate migratorie di manodopera proveniente dalle aree economicamente più depresse del paese: il Veneto e il meridione.
Diventò così, agli occhi del mondo, una delle principali capitali internazionali dell’automotive, un locomotore lanciato ad alta velocità sui binari incandescenti del progresso.
Ma, finito l’eco dei fervidi anni del boom economico, con la prima grande crisi petrolifera ed energetica del ’73 e con l’avvio degli anni di piombo, Torino fu costretta a rallentare la sua corsa e persino ad arrestarla bruscamente, come avvenne a più riprese durante l’inasprimento dei conflitti tra il mondo del lavoro e le classi dirigenti cittadine. Questo passaggio storico determinòl’inizio di un nuovo grande e radicale processo di trasformazione. La città si mostrò disorientata, impaurita e talvolta persino allo sbando. E fu proprio in un momento di fase avanzata di questo processo critico e delicato, coincidente tra l’altro col crollo della Prima Repubblica, che si collocò l’arrivo in massa degli immigrati albanesi in questo territorio. La tipica e fredda diffidenza sabauda si mischiò con i sentimenti di calda accoglienza (anch’essi vivi nel dna del posto) indirizzati a coloro che vennero immediatamente percepiti come profughi in fuga da un paese imploso dopo decenni di violenta dittatura. In quegli anni tutto ciò che enfatizzava la caduta del cosiddetto “impero del male” (corrispondente a ciò che pullulava aldilà della cortina di ferro e dei bunker di confine) veniva accolto con rilevante simpatia. Ma ricordo che, nel giro di breve tempo, l’iniziale afflato solidaristico si trasformò in netta presa di distanza e in seria preoccupazione per via del numero impressionante di arrivi e degli inopportuni comportamenti, spesso gravemente delinquenziali, di alcune minoranze che seppero conquistare prepotentemente le prime pagine dei fatti di cronaca, contribuendo a scatenare il pregiudizio razzista insito in molti politicanti e nel mondo mass-mediatico, che per anni si prodigarono ad alimentare la paura della popolazionemediante vere e proprie campagne di criminalizzazione di massa contro gli immigrati. Furono anche gli anni della vertiginosa ascesa del fenomeno leghista nel nord Italia. La scalata al potere delle camicie verdi fu potenziata proprio dagli slogan e dalle cieche politiche di rigetto propagandate e promosse allo scopo di “difendere il territorio dalle invasioni barbariche”. Un lavoro meticoloso strumentalmente mirato a far leva sull’ignoranza dei cittadini italiani e sulle loro angosce (fomentate dall’irresponsabilità dei media), anziché sulla loro intelligenza, oltretutto basato sulla manipolazione grossolana della realtà. Gli albanesi da “profughi” vennero immediatamente declassati a “clandestini” (come succede attualmente con i tunisini sbarcati a Lampedusa) e questa variazione di status complicò per anni il percorso di integrazione di quelle migliaia di persone giunte qui allo scopo di migliorare onestamente le proprie condizioni di vita e quelle della propria famiglia.
Seguirono anni molto difficili. Dire “albanese” significava dire “ladro, bandito, magnaccia, violento, disonesto, orco”. In queste condizioni tutto risultava difficile. Difficile regolarizzarsi, difficile trovare alloggi in affitto, difficile persino trovare lavoro. Eppure, lavorando a testa bassa, nonostante le mille difficoltà riscontrate e gli enormi pregiudizi a loro sfavore, gli albanesi hanno dimostrato di essere riusciti a uscire con successo dal “tunnel della vergogna e del disonore” che sono stati ingiustamente costretti a percorrere per molti anni, prima di riuscire a liberarsi dall’infamante accusa di essere tutti (senza alcuna distinzione tra colpevoli e innocenti) “i cattivi di turno”.
I torinesi, nel tempo, hanno avuto modo di conoscere e di stimare i lati positivi del popolo albanese vivendoci gomito a gomito nei cantieri, nelle officine, nei corsi di formazione, negli stages, nelle università, nei campi da calcio, nei cortili di condominio, nei luoghi di culto, nelle mense, nei bar. A sorpresa, parlo in termini ovviamente generali, gli albanesi sono stati riconosciuti come grandi e instancabili lavoratori, gente di parola, rispettosa della famiglia, accogliente, socievole, affidabile e per bene. Da qualche tempo si moltiplicano iniziative ed eventi culturali promossi dalla comunità albanese in Piemonte e questo ha segnato una vera e propria inversione di tendenza, contribuendo a rompere ogni precedente stereotipo negativo: mentre prima essa sembrava interessata solo a sbarcare il lunario (per ovvi motivi), ora dimostra interesse nel mostrare orgogliosamente la propria storia, la propria cultura, le proprie tradizioni, la propria terra di origine, la propria diversità. E ciò risulta essere molto apprezzato. Parallelamente non è sfuggito il suo particolare percorso di integrazione maturato all’interno del territorio: un radicamento effettivo che non ne haalterato l’identità. Si percepisce negli albanesi il forte desiderio di essere riconosciuti come parte integrante della società italiana e personalmente ritengo insensata ogni reticenza verso questo sentimento. Mi tocca altresì purtroppo rimarcare che, viceversa, la società italiana sembra tutt’ora retrocedere e chiudersi, invece di crescere grazie alle opportunità di arricchimento che il multiculturalismo offre. In questo forse Torino e i torinesi rappresentano una felice eccezione.
Autore: Javier Scordato