Era la mattina del 6 marzo 1991, quando andai dal console algerino (nella Via delle Ambasciate), per richiedere un visto per l’Algeria.
Il mio piano era quindi quello di ottenere, oltre al visto algerino, anche un visto di transito dalla Gabriela, la famosa console italiana a Tirana. Dopo, una volta a Fiumicino, mi sarei dovuto “ammalare”. Sicuramente mi avrebbero ricoverato in un ospedale di Roma e da lì, me la sarei dato a gambe levate. Avrei guadagnato l’Italia o qualche altro paese in Europa.
Mi accolse il console, un uomo di mezza età, con dei baffi e dalla faccia paffuta.
“Perché vuoi andarci in Algeria?” mi chiese con tanta pigrizia.
Avevo bevuto di colpo un doppio ponch nella pasticceria della Strada di Kavaja solo per dissipare le emozioni ed essere fluente nella mia lezione shakespeariana. Per non fare sentire la puzza del ponch, per qualche minuto, avevo messo in bocca del dentifricio.
La mia risposta, ricordandola oggi, era degna del miglior schiaffo in faccia ma, era anche l’unica che avrebbe potuto darmi qualche speranza per una risposta positiva.
“Sono uno studente di storia, signor Console”, recitai per l’ultima volta il testo preparato da giorni, il quale ero capace di recitare, senza nemmeno essere confuso, anche nel sonno. “E voglio visitare la famosa Kazbah che ho visto nel film “La battaglia di Algeri” … perché la lotta del popolo algerino contro l’occupazione francese” …
Il console sgranò gli occhi, mentre io, per rassicurarlo sul fatto che non ero fuggito dal padiglione 17 (cosi si chiamava a quei tempi l’ Ospedale psichiatrico), ripetevo alcune altre frasi su Ali Pyka, che, per non arrendersi ai occupatori francesi accettò di essere ucciso con la dinamite…
“Hai una garanzia per vito e alloggio da parte di un cittadino algerino?” mi chiese.
“No, ma ho $100”,gli mentii.
“Senza garanzia non c’e visto”, mi interruppe, indicandomi la porta dell’ufficio con la mano.
Rom di merda, dissi a me stesso. Le bestemmie che gli dissi, mentre scendevo le scale, includevano sua madre, la moglie e qualche sorella che avrebbe potuto avere …
… Ma sembrava che il destino sia stato scritto: dopo un’ora, sulla Strada di Kavaja, incontrai Gali, un mio caro amico.
“Vieni a Durazzo?”, mi chiese, “perché mi sembra che ci sia una nave diretta in Italia.”
“Cazzate della gente”, risposi incredulo.
“Vieni, amico”, continuò. “Sei il primo a lamentarsi, ma quando arriva l’ora delle azioni, non ci sei mai… hai solo delle parole … Non lascerai mai l’Albania, tu …!”
Era la frase che mi ferì l’orgoglio. Corsi a casa dove, dopo aver mangiato il mio piatto di spinaci, lasciai un lettera d’ addio per i miei genitori, per evitare di preoccuparsi se non tornavo più a casa.
Alla stazione ferroviaria di Tirana trovai Gali e un’ altro amico nostro. Verso le 16:00 il treno si fermò alla stazione di Shkozet.
Da lì corremmo per dieci minuti ed arrivammo nel porto.
Salimmo a bordo della nave panamense, Legend …
… per non scendere mai più da quel viaggio che si chiama emigrazione…