Hajri Kaci è un albanese di Lura, in Italia da ventisette anni, cittadino italiano, capace di sfoderare un accento piemontese da far invidia agli autoctoni.
Vive a Torino, dove è proprietario della Trattoria AlleVolte, un ristorante che offre cucina piemontese. Oggi, Hajri è un imprenditore realizzato, un cittadino ben integrato, affezionato alla sua città di adozione e legato all’Albania, alla quale pensa con rammarico e un velo di nostalgia. Il suo percorso in Italia è stato profondamente difficoltoso; ne parla durante l’intervista concessa ad Albania news, per la rubrica della Diaspora. Buona lettura.
Partiamo dalla fine: la Trattoria AlleVolte quando e perché nasce?
La Trattoria nasce nel 2019; già nel 2010 mi sono occupato di ristorazione, dedicandomi per tanto tempo all’attività dei locali, anche se principalmente notturni. Inoltre, mia sorella è cuoca e per tutta questa serie di motivi, ho sempre avuto il desiderio di avere un mio ristorante. A spronarmi ulteriormente verso questa decisione, è stato il mio amore per la tavola e il senso di accoglienza.
La nostra è un’attività a conduzione familiare: mia sorella è in cucina, mia nipote è responsabile di sala e poi è con noi, anche se temporaneamente, un altro nipote, in quanto frequenta la scuola per diventare pilota e avrà un altro futuro. Professionalmente sono molto soddisfatto, mi piace quello che facciamo e come lo facciamo: la metà della nostra clientela è composta da turisti e questo mi gratifica molto, perché possono gustare i piatti tipici piemontesi.
Si trova qualche piatto albanese nel menù?
No, non ho inserito la cucina albanese. Trovo che ognuno si debba dedicare a quello che sa fare. Io sono cresciuto qui, pur conservando i miei legami con l’Albania: sono arrivato a Torino ventisette anni fa e non mi sono più mosso. Amo questa città, la sua posizione geografica e la sua ricchezza architettonica.
Arrivo da Lura, un paese situato tra le montagne albanesi e per questo apprezzo ancora di più il variegato paesaggio piemontese. Torino è tra le città più grandi d’Italia, ma non è solo cemento: il verde e il bellissimo paesaggio che la circonda sembrano appartenermi.
Mia sorella lavora da vent’anni nella ristorazione torinese; avremmo dovuto inventarci la cucina albanese. Inoltre, sono stato molto fortunato a trovare una location dalle caratteristiche sabaude; non ho avuto un attimo di esitazione circa l’obiettivo da raggiungere e l’ho visto unicamente nella cucina locale. Tra l’altro, sono appassionato di vini e mi piacciono molto quelli piemontesi. Attraverso la mia attività , ho voluto dare continuità a quello che vivo ogni giorno e niente di più rispetto a questo.
Come e perché arrivi in Italia?
Il motivo risiede nel bisogno. L’Albania, negli anni Novanta, era in piena povertà e confusione, tanto che le famiglie non riuscivano a provvedere nemmeno al cibo quotidiano. Attraversava un momento molto difficile: il comunismo è stato drammatico, ma il post comunismo non è stato da meno. Io ero ragazzino e avevo una gran voglia di andare all’estero per costruire qualcosa, perché in Albania non si intravedeva alcun futuro. Così, ho deciso di salire su un gommone e arrivare in Italia.
Hai voglia di raccontare il tuo viaggio?
È stato un film dell’orrore; la paura prendeva piede ancora prima di salire sul gommone. A organizzare i viaggi erano le bande, erano contrabbandieri di essere umani e non solo. Contrabbandavano merce e insieme ci mettevano le persone. A volte non imbarcavano nemmeno, prendevano i soldi e mandavano via i malcapitati, oppure facevano fare il giro del mare albanese, per poi lasciarli sulle montagne. Era un traffico molto pericoloso, operato da gente senza scrupoli.
Quanto ti è costato il viaggio verso l’Italia?
Circa 950mila lire. Era tantissimo, una persona avrebbe dovuto lavorare sei mesi per mettere insieme quella cifra.
Con chi sei partito?
Con due cugini e un mio caro amico e di nascosto dai miei genitori, che avevano più paura di me. Ci abbiamo messo due giorni, perché una notte siamo stati fermi a Valona a causa del mar mosso e la notte successiva siamo partiti.
Siete arrivati a Otranto da clandestini. Cosa è successo dopo?
È stata molto dura. Sono rimasto per sette mesi a dormire e a mangiare fuori, alla Caritas o dove capitava. Non è stato facile. Una piccola curiosità: il mio ristorante si trova a pochi metri dalla sede della Caritas dove mi recavo quotidianamente.
Quando è arrivata la svolta?
I primi due o tre anni sono stati difficili. Non trovavo una casa e non mi davano un lavoro perché ero albanese. Non eravamo integrati per niente, non parlavamo l’italiano e spesso si entrava in contatto con gente poco seria, che non possedeva una ditta vera e propria. Quindi, si lavorava qualche giorno sì, qualche altro no ed era impossibile trovare un alloggio, tanto che più volte mi è capitato di vivere in case subaffittate.
Nel ‘98 ho iniziato a lavorare con una cooperativa impegnata nel facchinaggio durante i concerti: anche loro non potevano garantirmi una continuità lavorativa. Fortunatamente, la medesima società aveva vinto un appalto all’ospedale Molinette e al bisogno mi chiedevano di recarmi lì. Nel ‘99 hanno perso la concessione e anche se ancora non vigeva l’obbligo secondo il quale l’azienda subentrante deve conservare il personale già impiegato, chiesero informazioni su di me alla ragioniera sig.ra Gamba, la quale ebbe parole di elogio nei miei confronti, specificando che è un bravo ragazzo, anche se da a tutti del tu.
Hanno quindi deciso di tenermi e questo è successo dopo quattro anni dal mio arrivo in Italia: finalmente, ogni giorno potevo recarmi nello stesso posto per lavorare. Il mio primo stipendio superava di poco il milione di lire, ma io non guardavo neanche la busta paga. Per me, già avere un punto di riferimento lavorativo era un successo.
All’epoca avevo mio fratello e mia sorella in Italia; e nel ‘96 sono tornato in Albania e al rientro ho portato con me mio cognato. Siamo arrivati sempre con il gommone, perché nonostante avessi depositato tutta la documentazione necessaria, non ero ancora in possesso del permesso di soggiorno. Quindi, ho rischiato ancora la vita: attraversare il canale d’Otranto in gommone non è una passeggiata.
Nel ‘99, con la cooperativa che si occupava prevalentemente di concerti, ho iniziato a lavorare nella sicurezza. Così, dalla mattina al pomeriggio ero in ospedale e la sera, all’occorrenza, ero ai concerti.
Avevo fame di lavoro, per cui in ospedale mi sono speso tantissimo in disponibilità: non conoscevo fine settimana, non vedevo orari di entrata o uscita, per me le parole non mi compete erano inesistenti. Grazie al mio impegno, nel 2001 mi hanno nominato coordinatore della squadra.
Nel 2004 ha vinto la gara un’azienda napoletana e non avendo alcun riferimento a Torino, mi hanno nominato referente per tutto il Piemonte. Così, sono diventato il numero uno nel mio lavoro; ero impegnato in un’azienda molto grande, costituita dal Molinette, il CTO e il Sant’Anna, tanto da contare circa undicimila dipendenti. Una realtà enorme, che mi ha portato a gestire oltre sessanta collaboratori: ho iniziato questo percorso che non solo mi piaceva, ma saziava il mio desiderio di farmi una posizione e di avere l’opportunità di crearmi nuove amicizie.
Dal 2004 ho portato avanti due lavori: la gestione ospedaliera e il lavoro serale nel campo della sicurezza. Ho aperto un’agenzia insieme a un amico italiano e oltre agli eventi curavo anche le discoteche, gestendo la sicurezza delle migliori di Torino. Per quindici anni di fila ho lavorato per più di dodici ore al giorno. Mi ritenevo fortunato; mi trovavo nel momento giusto con le persone giuste.
Ho dovuto essere molto forte e avere a che fare con la diffidenza delle persone a causa della mia nazionalità. Un esempio su tutti: in ospedale durante una chiacchierata ho sentito dire da un infermiere: a me vanno bene tutti, ma gli albanesi mi stanno sullo stomaco.
Cosa avrei dovuto fare? Non potevo reagire e non mi interessava neanche; forse la mia vittoria è stata anche questa, l’essere superiore. Ho cercato di dare una risposta a chi ha avuto un atteggiamento di titubanza nei miei confronti attraverso il mio modo di fare, per dimostrare che si stava sbagliando.
Devo dire che sono riuscito a ottenere un buon riscontro; oggi sono benvoluto e qui a Torino un po’ mi conoscono. Infondo, noi albanesi qualche responsabilità dobbiamo pur prendercela per l’opinione negativa che nel tempo si è creata circa il nostro popolo. Tanti nostri connazionali hanno fatto brutte cose e ovviamente chi era in casa propria si è sentito attaccato. Purtroppo, la mancanza di integrazione a volte porta a queste situazioni, al di là di chi poi abitualmente delinque.
Quando arrivi con un gommone sei fragile e non puoi essere abbandonato a te stesso. Dormire all’addiaccio e mangiare dove capita è frustrante e non tutti resistono e continuano sulla retta via. Non tutti hanno coraggio, non tutti ce la fanno: a volte, non si commettono reati perché si è criminali. La fame ti può portare ad aggrapparti a chi ti fa guadagnare i soldi più facilmente.
Cosa è cambiato, perché hai scelto di fare altro?
Non ci siamo più trovati perché l’azienda di Napoli ha perso l’appalto e con quella nuova non avrei più ricevuto i benefit da dirigente che avevo con l’altra. Nel 2017 si sono rotti i rapporti perché è venuta meno la fiducia. Non ho più l’agenzia, era diventato impossibile mantenere quei ritmi di lavoro.
Sei stato la guardia del corpo di molti vip
I casi della vita sono curiosi. Ho avuto la possibilità di regolarizzarmi in Italia grazie alla legge Bossi – Fini e il primo politico importante che ho scortato è stato proprio Fini. Ho conosciuto e offerto la sicurezza a tante personalità della politica e dello spettacolo, che per qualche motivo hanno visitato Torino. I più grandi direi.
Oggi, che albanese sei?
Nella mia vita ho cercato di non fare gli errori che commettono gli albanesi e nemmeno quelli che compiono gli italiani.
Quali sarebbero questi errori?
Molti di noi hanno avuto reazioni aggressive contro quegli italiani che hanno manifestato dissenso nei confronti degli albanesi, a causa dei connazionali che hanno commesso azioni criminali. Ovvio che fare di tutta l’erba un fascio non è corretto, ma è altrettanto vero che attaccare chi ti attacca a volte non serve. Ho cercato di prendere il lato buono dell’albanese: la mia parola è di valore, con me, come con altri albanesi, non c’è bisogno di firmare un contratto, la parola basta.
Dall’italiano ho preso la socialità, l’accoglienza, il modo di fare: parlo da italiano perché ho la fortuna di avere la doppia cittadinanza e il nostro made in Italy, il nostro modo di essere vengono invidiati dal mondo intero. Spesso, quello che di bello c’è in alcuni posti esteri è di ispirazione italiana. Per non parlare di gastronomia e vini.
Qualche volta ti senti ancora straniero?
Dire che Hajri oggi si sente straniero, sarebbe una falsità. Qualche volta ci gioco, faccio qualche battuta, ma è limitato esclusivamente allo scherzo. Mi sento totalmente integrato in questa vita e nel mondo che mi circonda. Anzi, posso dire di sentirmi spaesato più in Albania. Per me è come se fosse nato qui anche mio padre. Se dovessi riferirmi a più di venti anni fa, sì, mi sentivo straniero, specialmente in merito alla burocrazia, che per noi era particolarmente difficoltosa.
Devo ammettere che ho un carattere socievole e questo mi ha aiutato molto. Torino, dal canto suo, è una città molto accogliente. È ovvio che ognuno deve fare la sua parte: se lo straniero si chiude, se non si impegna a parlare la lingua del posto, forse vuole sentirsi diverso. Se non ti integri, se non entri nella cultura del luogo, sei tu che ti escludi. Io non avrei mai potuto aprire un ristorante albanese perché vivo qui, la cultura mi piace, ho vissuto e vivo in questa città. Se mi comportassi in maniera diversa, sarei io ad auto-discriminarmi.
Osservi l’Albania dall’esterno da 27 anni. Che ne pensi?
Questo è un punto debole per me perché vorrei vedere l’Albania messa meglio e integrata. Non esiste integrazione per il Paese e non voglio dare colpa all’Europa per questo. Rimango dell’idea che si debba operare un’autocritica; personalmente, mi sono sempre messo in discussione. Quando mi confronto o mi scontro con qualcuno, mi chiedo se non sono io a sbagliare.
L’Albania ha un potenziale enorme che è spesso finito nelle mani di persone non competenti, specialmente in relazione alla progettualità futura. Spesso, chi ha fatto politica in Albania è stata gente che non ha messo nemmeno il naso fuori dal circondario, che ha guardato solo al proprio orticello e ai relativi interessi.
Queste persone sono pericolose. La verità è che la politica albanese non vede al di là del proprio naso. A un certo punto ho desiderato tornare in Albania, tanto da comprare casa in città, acquistare casa al mare e creare una piccola ditta che non è andata a buon fine. Oggi, ho allontanato questa idea e mi dispiace perché fino a circa otto anni fa avevo intenzione di riuscire a fare qualcosa nel mio Paese, oppure mi avrebbe fatto piacere, per esempio, intorno ai sessant’anni tornare a viverci. Resterò a Torino e non intendo lasciare questa città per nulla al mondo.
Ti è stato mai detto non sembri albanese?
Tantissime volte. Ci ho riso sopra e ho sempre risposto che ho appena cancellato dalla fronte la scritta sono albanese: ho sempre affrontato questi scambi (che fondamentalmente sono infelici), in maniera ironica. Torna sempre lo stesso discorso: se si crea uno stereotipo negativo, la colpa non è solo dell’ignoranza di chi lo concepisce, ma può essere, in parte, la conseguenza dell’atteggiamento dell’altro. Alcuni albanesi si sono comportati male: come ho ribadito prima, non ritengo che fossero tutti criminali, ma alcuni abbandonati a loro stessi sì. Bisognava essere molto forti per vivere in una situazione così drammatica.