Arrivata in Italia circa quattordici anni fa, Olta Demi è una donna professionalmente realizzata, orgogliosa del suo essere albanese e serena nella sua quotidianità. Non fa un viaggio della speranza, ma un trasferimento consapevole che vive come investimento oggettivo e morale.
La rabbia verso i limiti dai quali si sente avvolta in Albania e il desiderio di poter esprimere pienamente la propria professionalità sono i motivi che le danno una vigorosa spinta verso l’Italia.
Oggi, la collera è svanita; Olta lavora nel sociale, gestendo con suo marito il Centro Ciampacavalli ai Castelli, a pochi chilometri da Roma, una realtà che partendo dal progetto di inclusione, opera interventi assistiti con gli animali, rivolti prevalentemente a quei bambini che necessitano di un sostegno terapeutico specifico.
Intervista a Olta Demi
Quando e come inizia la tua storia in Italia?
Sono arrivata in Italia nel settembre del 2007, quando avevo appena compiuto 30 anni, dopo un percorso di studi svolto ad Atene con ottimi risultati e un periodo di lavoro presso il Comune di Tirana, durato qualche anno. Sono assistente sociale e ho prestato il mio servizio, appunto, ai Servizi sociali, operando nel settore della protezione per i diritti dei minori. A un certo punto, ho avvertito una forte urgenza di cambiamento, dettata dall’esigenza di voler dare una possibilità evolutiva differente alle mie capacità. Mi sono resa conto, che la mia idea di lavoro nel sociale non incontrava i bisogni degli schemi regolatori del sistema albanese e per questo mi sentivo molto limitata nella mia professione. Inoltre, avevo il desiderio di accrescere le mie conoscenze e di fare un percorso di approfondimento di politica sociale.
Appena giunta in Italia, mi sono iscritta all’università, dove ho frequentato un corso di specializzazione in programmazione e gestione delle politiche dei servizi sociali, che mi ha dato la possibilità di perfezionarmi ulteriormente nella mia professione, che esercito con passione, essendo stata una scelta consapevole. La figura dell’assistente sociale, in Albania, nasce subito dopo la caduta del regime ed è per questo considerata un “nuovo mestiere”. Non ho mai avuto dubbi in merito: ho voluto che il mio futuro lavorativo fosse, proprio, nel sociale.
Al mio arrivo in Italia, mi sono subito appassionata al percorso di studi intrapreso, collaborando con il prof. Franco Pittau a una ricerca – dalla quale è, poi, nato un dossier pubblicato – sui testimoni privilegiati dell’immigrazione albanese. Mi sono così ritrovata a intervistare diversi personaggi di spicco che sono riusciti ad affermarsi in Italia, come Rando Devole e tanti altri. È stata un’esperienza edificante, che mi ha predisposto positivamente, visto che quando ho deciso di partire, non avevo programmato di restare in Italia per la vita.
Tra il primo e il secondo anno del mio impegno universitario, ho trovato un lavoro per il periodo estivo, presso la casa famiglia Ciampetto a Ciampino; avevo il compito di assistere una persona con disabilità, che, allo stesso tempo frequentava un corso di formazione all’interno di un gruppo. Ho trovato questa esperienza molto interessante, tanto che non si sono mai interrotti i rapporti con la casa famiglia, con la quale, ancora oggi, continuo a collaborare.
La casa Ciampetto ospita, in regime residenziale, otto persone adulte con disabilità intellettiva, inserite nel programma di residenzialità del quinto dipartimento del comune di Roma, relativo alle politiche sociali. Un piano di lavoro importante, con l’obiettivo di sviluppare le capacità razionali di chi vi rientra. È un ambito, per me, molto affascinante, perché rispecchia la mia formazione, i miei valori professionali e il mio concetto di lavoro nel sociale, caratterizzato da una totale propensione verso l’altro, in maniera costruttiva, diretta e programmatica.
Dalla mente di casa Ciampetto è nata Ciampacavallo, una realtà diventata nota a Roma, costituita da un centro molto grande, situato sull’Appia Antica, creato dai ragazzi disabili e da alcuni operatori. Ciampacavallo si basa su un nobile progetto, che vede tra gli obiettivi la socializzazione, l’inclusione sociale e l’integrazione di persone con disabilità intellettiva o con disagi di altra natura, trasformandole da utenti dei servizi, a offerenti delle proprie prestazioni, creando una dimensione da gestire con consapevolezza, competenza e accoglienza.
Sono stata chiamata a far parte di questo interessante progetto e dopo due anni, insieme al mio compagno – di professione psicologo – che in seguito è diventato mio marito, abbiamo creato una nuova realtà che si chiama Ciampacavallo ai Castelli. Partendo, quindi, dal generoso pensiero di praticare l’inclusione nel sociale, così come ho sempre sognato che fosse, abbiamo creato questo centro che si trova tra Lanuvio e Genzano, dove pratichiamo interventi assistiti con gli animali. Abbiamo, infatti, una piccola scuderia di cavalli, un’asina e avevamo un cane che ora non c’è più. Il nostro impegno è rivolto verso i bambini in età evolutiva, che necessitano di un sostegno terapeutico specifico. L’intervento assistito con gli animali, (così si chiama), è una disciplina riconosciuta, essendo un lavoro svolto in modo scientifico e con una base pratica molto solida. Il nostro è un centro diurno, anche se ci capita di organizzare centri estivi. Una dimensione in stretta relazione con Ciampacavallo, alla quale abbiamo dato la nostra personale impronta, specializzandoci sugli interventi in età evolutiva.
Ti senti realizzata professionalmente?
Ho tanti progetti in mente e guai a non averne, il rischio sarebbe quello di diventare schiavi. Lavorare nel mio settore non è semplice, tra l’altro il periodo è particolarmente difficile e specialmente il sociale è molto sofferente dal punto di vista economico. Comunque, a parte Ciampacavallo ai Castelli, ho diverse collaborazioni, quindi direi di sì.
Qual è il tuo ruolo a Ciampacavallo ai Castelli?
Coordino tutte le attività e gli inserimenti e sono corresponsabile della gestione di tutto quello che concerne sia l’Associazione che è alla base, che il centro stesso. Mi occupo dei colloqui d’ingresso con i genitori, in caso di minori, o con le persone che si prendono cura degli adulti. Sono supervisore di tutti gli interventi che vengono effettuati, faccio parte della programmazione degli stessi, occupandomi, anche, della sezione amministrativa.
Collaboriamo con tutte le realtà che l’ASL gestisce nella zona. Non siamo convenzionati con l’ Azienda sanitaria locale, perché tutti gli interventi assistiti con gli animali nella regione Lazio, sono in via di riconoscimento e le modalità con cui verranno offerti, in via di definizione. Al momento, la ASL non sovvenziona questi servizi, però, collaboriamo con i centri diurni, con le scuole e le case famiglia.
Come ho specificato prima, siamo specializzati in età evolutiva, ma lavoriamo anche con gli adulti, attraverso un’attività incentrata sulla relazione. Naturalmente, non accogliamo solo persone con disabilità psichica, ma anche con disagio psico – fisico e sociale e realizziamo degli interessanti progetti con le scuole, in modo che le persone imparino ad adottare buone pratiche relazionali, per poter poi essere facilitati nella vita.
Torniamo un po’ indietro nel tempo. Hai scelto consapevolmente di arrivare in Italia: con quale spirito, invece, hai lasciato l’Albania?
Il mio non è stato un viaggio della speranza: ero consapevole del cambiamento e ho fatto una sorta di investimento oggettivo e personale. Sono partita lasciando in Albania mia madre, ma a Roma, viveva già mia sorella. Ho lasciato il mio Paese, portandomi dietro della rabbia. Io volevo stare in Albania, quando studiavo ad Atene, vivevo con il desiderio di tornare nella mia terra. Avevo le mie amicizie, non stavo male. Però, mi ritengo una persona dai giusti valori e per questo, ho voluto cercare una dimensione di vita e sociale più vicina al mio modo di essere, agire e pensare. Non avevo una necessità economica per andare via dalla mia nazione, né tanto meno personale. Certo, il sentimento che ha accompagnato il distacco dal mio Paese era di rabbia, cosa che ho imparato a elaborare nel tempo, sostituendola con la voglia di progredire nel modo in cui desideravo e non nel modo in cui mi veniva prospettato in Albania.
Insomma, è una questione di punti di vista, di pensiero e soprattutto di voler vedere la proiezione di un futuro così come lo si cerca, non come te lo pongono gli altri. Desideravo esprimere al meglio le mie capacità lavorative e per questo, ho pensato di cercare un ambiente consono, dove poter operare appassionatamente, dove riuscire a fare un percorso professionale senza bruciare le tappe.
Quindi, il mio trasferimento, da una parte è stato dettato dalla rabbia, ma anche dalla necessità di potermi realizzare professionalmente. Sono arrivata in questo Paese senza avere in mente un percorso definito, che si è concretizzato nel tempo.
Quali sono stati gli incontri che ti hanno più segnato e che sono stati determinanti per la tua evoluzione in Italia?
In riferimento al mio primo anno nel nuovo Paese, non menzionerei una o due persone, bensì un gruppo di gente che ho incontrato all’università e anche presso la casa delle suore dove ho alloggiato. Ho trovato delle amicizie particolarmente belle, con cui ho rapporti ancora oggi, come una mia collega siciliana, con la quale siamo ancora molto amiche. Quindi, la bella accoglienza trovata, facilitata dalla conoscenza della lingua e dalle mie precedenti visite turistiche, mi hanno ben predisposto. Anche l’incontro con il professor Pittau mi ha aiutato molto, perché mi ha donato tanta forza, sostenendo il mio inserimento nel nuovo mondo, che non è mai facile e coinvolgendomi nella sua bella iniziativa.
Sicuramente, un incontro rilevante è stato quello con casa Ciampetto e con Ciampacavallo, che mi hanno dato l’occasione di lavorare nell’inclusione sociale.
Ti sei mai sentita straniera?
Mi sono sentita straniera, ma mai estranea. Il mio essere diversa è stato ben accolto e per diversa, intendo, comunque di un altro Stato e un’altra cultura. Ho riscontrato molto interesse nei miei confronti, ho incontrato persone che hanno voluto conoscermi, hanno voluto avvicinarsi a me, persona straniera, proveniente da un altro posto. Estranea mai. Non ho mai trovato ostacoli a farmi valere come persona o a essere riconosciuta come tale. Nessuna difficoltà a inserirmi in ambito professionale, dove hanno guardato le mie capacità e non da dove arrivassi.
Con quali occhi guardi l’Albania oggi?
Non sono tornata in Albania per lungo tempo e ci torno poco, non certo quanto mi sarebbe piaciuto. Evidentemente non voglio andarci così tanto, perché altrimenti mi metterei in condizioni di farlo. Vivo molto la nostalgia di quello che c’è stato e di quello che non c’è più. I cambiamenti, a livello di infrastrutture che hanno invaso Tirana, mi rendono molto sofferente. Quando ci sono stata una delle ultime volte, mi sono sentita estranea nella mia città. A un certo punto, ricordo di essermi persa in macchina, ritrovandomi in una situazione un po’ difficile da gestire emotivamente, visto che avevo amici con me. È il mio Paese, sono le mie radici, sono profondamente albanese, ci tengo a essere riconosciuta come tale. Nonostante questo, credo che non tornerei a viverci; ho sempre un senso di nostalgia, ma con un distanziamento dal punto di vista della vita. Ora, anche mia madre vive qui, quindi il nostro piccolo nucleo familiare è radicato a Roma, per cui mi sento anche un po’ italiana, anche un po’ romana. Vivo serenamente questa mia condizione ibrida e non sono più arrabbiata. Leggo molto in albanese, amo la letteratura e tenermi informata su di essa.
Cosa ancora conservi della tua cultura albanese?
Come dicevo prima, leggo tanto in lingua. Senz’altro, amo la cucina della mia terra, anche se avendo vissuto in Grecia e ora in Italia, mi piace cambiare e quindi conservo le tradizioni culinarie di tutte e tre i posti. Mantengo anche una certa forma di portamento: sono nata e cresciuta in un’epoca in cui il contegno era molto importante e doveva essere sobrio, contraddistinto da una certa rigidità esteriore e interiore. L’Italia mi ha molto aiutata a rilassarmi dal punto di vista dell’espressività e del modo di pormi. Comunque, la mia maniera di essere non mi dispiace per niente.
Cosa ti ha tolto l’Italia e cosa ti ha dato?
A dire il vero, oggi mi sento privata del diritto di voto. Le pratiche per ottenere la cittadinanza, cosa fondamentale in Italia per poter votare, richiedono tempi lunghissimi e per questo, nonostante i miei 14 anni di attività, non ho mai potuto esprimermi in questo senso. Spero, di riuscire a farlo quanto prima. Il naturale decorso delle cose, mi ha privato dei rapporti familiari più stretti con i fratelli e i cugini. Una parte affettiva che mi è venuta meno, perché la vita va così, non perché me l’abbia tolta l’Italia. Anche le amicizie mi mancano, ma alla fine, queste le scegliamo e quelle che decidiamo di mantenere sono le più valide. Probabilmente, stando in Albania, avrei avuto una situazione simile, perché anche lì la vita è frenetica. Quello che ho, invece, acquisito è il modo molto sapiente e interessante di valorizzare le tradizioni e la cultura del passato. Apprezzo molto questo aspetto.
Cosa vuol dire valorizzare le tradizioni?
In Italia è molto importante valorizzare il passato, le tradizioni e celebrare le ricorrenze. Partendo dal singolo e arrivando alle istituzioni, nulla viene mai dimenticato, rispettando i costumi e le usanze. In Albania, la cultura storica è stata manipolata con diverse modalità.
Ho accolto molto bene questo importante pilastro culturale italiano, che mi ha sostenuta nel mio percorso di integrazione. Infondo, anche io sono stata accettata come una persona con il suo passato da raccontare e da condividere. Apprezzo tanto tutto questo.
Quindi, si può dire che tu sia un’albanese orgogliosa di esserlo, ben integrata, accolta e accogliente.
Certo, ogni rapporto è fatto di reciprocità, cosa con cui ho a che fare ogni giorno, attraverso il mio lavoro basato sulle relazioni. Quindi, un rapporto funzionante a livello di integrazione è perché funziona reciprocamente.
Se potessi riavvolgere il nastro della tua vita, faresti qualcosa di diverso?
La mia vita mi piace. Forse ho peccato in lentezza, probabilmente alcuni passaggi avrei potuto farli più velocemente. Forse, però, la mia è una lentezza caratteriale e fisiologica, quindi, lo è anche la mia esigenza di pensare tanto e fare le cose in modo consono ai miei principi e al mio modo di essere, alla mia coerenza interna a come io la percepisco. A parte questo, senz’altro avrei dovuto e potuto dedicarmi più a me stessa.