Le edizioni Kurumuny hanno di recente ridato alle stampe Delle volte il vento, interessante e significativo romanzo di Milena Magnani, pubblicato per la prima volta nel 1996 da Vallecchi Editore. Il libro della Magnani, che ambienta la sua storia all’epoca dei primi sbarchi degli anni ’90 sulle coste pugliesi, ci svela l’altro, quell’”altro” così vicino eppure così lontano e sconosciuto per decenni. Il muro di confine naturale fra due Paesi all’improvviso si sgretola e cade, diventando al contempo anche lo specchio nel quale il sud Italia scopre le sue virtù, passioni, chiusure e contraddizioni attraverso il personaggio principale di Carmela.Abbiamo incontrato l’autrice in occasione di questa nuova edizione, e quelle che seguono sono le impressioni che ci siamo scambiate nel corso dell’incontro.”Delle volte il vento è un viaggio verso una terra promessa che forse non è mai esistita”, ha scritto Stefano Donno in un articolo dedicatoal tuo romanzo. Volevi davvero rappresentare una terra promessa inesistente, dando voce alle speranze -che spesso si infrangono appenatoccata terra- di una dei tanti protagonisti di quest’esodo? O piuttosto dare voce a un legame forte fra due donne, Carmela e Lume, che cercano ilconfronto pur nelle loro diversità culturali (l’Occidente non affascina Lume e per questo sceglie di trincerarsi nel mutismo, in una contraddizione esistenziale e culturale che attira Carmela, anche lei in continuo scontro con una società contraddittoria, definita “moderna”, ma in realtà ancoralontana dal meritare tale definizione…)?Ho scritto Delle volte il vento per parlare dello straniamento di cui si fa esperienza quando si lascia la propria terra per approdare a una nuovarealtà, esperienza di per sé già difficile ma resa ancora più complicata dalla rappresentazione che i paesi di approdo danno dello straniero.
Nel romanzo ho cercato di raccontare questo straniamento attraverso l’ incontro tra due donne, una donna albanese appena arrivata in Salento con una delle prime navi “della speranza” e una donna salentina che, per certi aspetti, che si scopre a sua volta straniera in patria. Si tratta di un incontro difficile perché Lume, la donna albanese, non si lascia incantare dalle false suggestioni di una società del benessere e purdi non scendere a compromessi con un modo di vivere che non riconosce preferisce barricarsi dietro una fragile barriera di cartoni e bivaccaredavanti al mare. Questo suo atteggiamento di autoesclusione incuriosisce l’altra protagonista, salentina, che si accanisce sempre più per cercare di capirne la storia.
Si tratta così di un incontro, questo tra Lume e Carmela, che mi ha offerto l’ opportunità di parlare del Salento, terra a cui sono molto legata per motivi affettivi e personali, ma anche dell’Albania, a sua volta una terra che mi è molto cara, che per tanti anni ho guardato dall’altra parte del mare come se fosse una realtà irraggiungibile, fino a che poi, nei primi anni novanta, il mare da barriera non si è fatto ponte lasciandosiattraversare.
C’è in questo romanzo l’atmosfera del primo esodo degli albanesi verso l’Italia, esodo che io ho cercato di raccontare non solo dal lato dellesperanze albanesi ma anche dal punto di vista della chiusura culturale che ha impedito a noi italiani di accogliere la cultura albanese per quello cheera e che valeva.Qual è l’aspetto più pregnante del romanzo a tuo avviso?Forse l’aspetto su cui ho puntato di più i miei sforzi è stato il tentativo di raccontare il Salento e l’Albania al di là dei luoghi comuni.
Nel 1992 ero stata in Albania per la prima volta e avevo avuto modo di conoscere una terra appena uscita da quarant’anni di marxizem leninizmit,eppure una terra che, nonostante le ferite e le difficoltà, nonostante le privazioni e la rabbia, era ancora capace di meraviglia e di accoglienza. Durante quel soggiorno ho avuto modo di raccogliere la storia di tante persone e di capire quanto l’Albania di Enver Hoxa, oltre a essere stata unpaese autarchico chiuso in una tirannia senza confronti, sia stata anche una terra attraversata da sogni, in cui le persone avevano imparato a difendersi dalla dittatura con la furbizia e la speranza, dove alcuni fatti semplici del vivere quotidiano venivano trasformati in vere e proprie gioie collettive, come quando nei negozi arrivavano le stoffe turche, e le donne facevano la fila per riempirsi gli occhi di tutti quei colori.
Lo stimolo a raccontare l’Albania in questo modo nasce dal tipo di esperienza che ho vissuto in quella terra nel ’92. In quell’anno infatti sonostata ospitata nell’appartamento in un palazzone di Tirana, uno di quei palazzi costruiti a blocchi modulari che stanno alla periferia. Ero ospitatanel cuore della vita di tutti, dove le strade non erano asfaltate e dove si scendeva alle cinque della mattina con gli altri condomini per prender l’acqua che veniva erogata solo in quelle ore.
Era una situazione a metà tra periferia degradata e i resti di una storia tutta da ricostruire, e proprio lì ho conosciuto delle persone generose estraordinarie che mi hanno raccontato la loro storia di fatica e di dolore per le dinamiche di un regime capace di soffocare in modo tentacolareanche i microambiti della vita quotidiana.
Ma non solo: ho conosciuto anche persone che mi hanno raccontato della speranza che aveva animato l’instaurarsi del marxismo leninismo in prima battuta. Quel sistema politico che inizialmente ad alcuni era parso carico di promessa, soprattutto a coloro che venivano da quelle zone dell’Albania dove fino ai primi del novecento vigevano condizioni del lavoro e dei rapporti sociali molto vicini ad una vera e propria schiavitù della terra (come ad esempio nella pianura del Myzeqe). Per rispetto a queste narrazioni, nel romanzo poi, per quanto in modo solo tratteggiato, ho cercato di immedesimarmi nella vita quotidiana dellepersone e di vedere l’Albania con gli occhi di Lume che da bambina, come tutti gli altri bimbi albanesi, aveva cantato con gioia le le filastrocchea Enver, xhaxhi Enver xhaxhi Enver e ke gojën me sheqer, me sheqer e me hurma…Gli occhi di una fervente comunista che poi non capisce perché la sua fede le si ritorca contro fino a trovarsi detenuta in un carcere politico.
Ho cercato di uscire dagli stereotipi con cui la stampa italiana ci aveva tratteggiato i profughi che venivano dal paese delle aquile, e direstituire loro senso e rispetto.
A partire da questo tipo di sguardo tutto interno a una realtà sociale, che ho cercato di stabilire un parallelo con la terra del Salento, un pontedialogico, perché anche questa è una terra ricca di contrasti e di fascinazioni, che, oltre ad essere la patria delle donne morse dalla taranta, è stata a sua volta terra di latifondi e dove i braccianti e le tabacchine hanno combattuto battaglie negli anni cinquanta per raggiungere unminimo di giustizia sociale, fino a poi rassegnarsi e cominciare ad andare a cercare un miglioramento di vita altrove, ad esempionelle fabbriche tedesche e svizzere.
Due terre di migranti quindi, che si sono trovate di colpo una di fronte all’altra.Il vento che scompiglia tutto, rimescola le carte crea un nuovo destino è una simbologia potente questa.Il Salento si trova tra due mari e il vento è un elemento fondante del suohabitat e delal sua bellezza, un elemento a cui dato molta enfasi nel romanzoperché rappresenta quello che intendo per energia ricombinanate. Il ventopassa attraverso le recinzioni e, nonostante i confini e le barriere, porta ingiro i suoni e gli odori. Porta le voci e l’idea ch
e tutto si possa semprescombinare e ricomporre.
Il vento è la metafora di ciò che non si può arginare, come appunto i flussimigratori delle persone e il fatto che in una società globale tutto siadestinato ad essere in interscambio continuo nonostante certi tentativipolitici di ostinarsi a erigere barriere.
C ome dice una bellissima canzone salentina che ho riportato nel romanzoSutt’acqua e sutta a jentu navicamu, Sott’acqua e sotto vento navighiamo.
Parlaci un po’ del tuo rapporto con l’Albania.
L’Albania è una terra che mi è molto cara.
La prima volta che ci sono andata è stato nel 1992 allo scopo di conoscereil posto dove era morto mio nonno durante la guerra fascista contro laGrecia.
Per anni avevo fantasticato che un modo per conoscere qualcosa di quell’uomodi cui non avevo nessuna immagine se non una piccola foto tessera, potesseessere andare a vedere le atmosfere e i luoghi che lui aveva visto prima dimorire.
Con questo obiettivo è cominciata la mia prima esperienza albanese.
E’ stato un viaggio alla ricerca di qualcosa di me stessa che questa terracustodiva, un viaggio durante il quale questa terra mi si è aperta, prima conla realtà urbana di Tirana dove ero stata ospitata in modo davvero accogliente, ma poi via via, verso il del monte Chiarista, che è il monte dove, durantela guerra, si era stabilito il fronte italo greco e che noi raggiungemmo abordo di una vecchia jeap cinese..
Dico “noi “ perché in questa mia prima esperienza albanese sono stataaccompagnata da un mio collega di lavoro, che era di origine Arbereshe, di unpaese calabrese, Santa Sofia d’Epiro, lui parlava l’albanese del 1500 ma in unmodo o nell’altro riusciva a farsi intendere.
Segno evidente che il legame tra le nostre due culture era già dentro di noi,nel nostro paese, da secoli, che c’era un ponte culturale che bastava saperlocercare e guardare.
Tutt’ora sono molto riconoscente al mio collega Aldo per il modo in cui,ancora prima di partire, aveva condiviso con me tutte le riviste albanesi chenegli anni si era fatto mandare dall’ambasciata albanese in Italia, mi ricordoche ancora prima del crollo del regime, abbiamo passato ore a sfogliare le fotodi Tirana, piazza Skanderbeg, il viale dei martiri delle nazioni, galoppandocon quell’immaginario che si era fatto tanto più accanito quanto più quelluogo ci appariva irraggiungibile.
Ecco quello che poi di fatto è successo dopo è che mentre il flussomigratorio degli albanesi veniva di qua, noi andavamo di là, e questo tipo dispostamento alla rovescia di solito cambia drasticamente la prospettiva.
A distanza di vent’anni da quell’esodo, l’universo migratorio nel nostro paesepresenta ancora molti tratti complessi e contradditori.
Che storia scriveresti oggi alla luce della situazione attuale?Credo che scriverei una storia molto simile, perché la figura di Lume è unafigura che si rinnova davanti ai miei occhi ad ogni istante.
Lume è una donna che nel romanzo parla solo albanese, è fedele alla sua terrae non accetta l’atteggiamento di superiorità culturale con cui l’occidente laaccoglie.
Ecco io oggi vedo delle ” Lume” nei campi rom, e dentro i centri diidentificazione ed espulsione, vedo delle Lume fuori da scuola, tra le donnedel Nord Africa, che mi dicono che il loro sogno più profondo è soltanto ditornare in Marocco.
Credo che parlerei ancora di chi cerca l’occidente per fuggire dalla povertàe prospettarsi una vita migliore e poi si accorge di vivere in contesto chenon è per niente sano, si accorge di uno scarto immenso che separa la realtàda quelle che erano le proprie fantasie di migrazione.
Hai origini bolognesi, se non sbaglio, che cosa ti ha spinta a scegliereproprio il salento come ambientazione per delle volte il vento.
Il Salento per gli antichi era la terra di dove finiva la terra. E’ un sud,ma anche un est.
E’ la terra italiana più orientale, da cui, quando l’Albania era ancora unregime autarchico, si captava meglio radio Tirana, e dove con certe condizionidi cielo terso si vedeva l’albania dall’aaltra parte del mare.
E’ la terra più vicina alla storia che volevo raccontare ed è stato perquesto, proprio per scrivere questo romanzo che dopo l’esperienza in Albaniasono scesa in Salento e mi sono messa a ricercare.
Ho scoperto una terra magnifica, piena di fascino e di tradizioni rituali,una terra che portava i segni di un suo recente passato migratorio e dove lepersone erano alla ricerca di un modo proprio di connettersi con la modernità.Una terra dove la riscoperta delle proprie radici e il rispetto per la proprialingua, era tutt’uno con la voglia di affrontare le sfide di un mondo globale.
Mi sono legata al Salento come a una seconda patria, perché è una terracoraggiosa e piena di fermento culturale, perché è una terra che mi ha accoltoe mi ha lasciato piantare una piccola radice.
Ritroviamo qualche filone della storia fra lume e carmela in altri romanzi chehai scritto successivamente?Dopo delle volte il vento ho scritto un romanzo ambientato in un campo rom.
Il circo capovolto.
Anche i personaggi di questo romanzo hanno degli elementi in comune con Lumee Carmela, la condizione di straniero, di straniero tra stranieri e ladifficoltà di adattamento ad una realtà che svilisce la propria dignità.
Nel circo capovolto il protagonista è un uomo ungherese, un uomo che cercadi trasmettere ai bambini del campo baracche la passione per l’arte circense einsieme a questa cerca di raccontare loro la storia della comunità rom, per farcapire loro che non sono nati in mezzo alle baracche e alle pozzanghere a unc erto punto, dal nulla, ma sono gli eredi di comunità preziosa, che svolgevanoun nomadismo sano, comunità che possedevano arti e mestieri.
In entrambi i romanzi, c’è così un ruolo importante della memoria. Dellamemoria come forza, come vettore di senso e di riconoscimento di sé.
A chi o a che cosa dobbiamo le peculiarità caratteriali delle dueprotagoniste, (un evento da tv vbissuto, un viaggio, l’incontro con qualcunoche ti ha fornito degli spunti, per tratteggiarle nella mente e poi sullacarta.
Le peculiarità caratteriali di Lume e Carmela sono nate dall’osservazione ditante persone reali, dalle chiacchiere e dall’ascolto. E’ vero che si può fareletteratura in tanti modi, anche chiusi nell’ombra della propria stanza ma, perme, fare letteratura significa andare a respirare le atmosfere della realtà,ascoltare le storie di chi con la realtà si sporca le mani per davvero, allorapoi le storie e i personaggi prendono corpo da soli, si assemblano dentro dime, perché è la realtà che me le ha raccontate.
Di che cosa ti stai occupando ora e quali progetti hai in mente.
Sto scrivendo un romanzo ambientato sui confini. Sui confini che dovrebberoessere aperti e consentire di incontrarci e di riconoscerci e invece, permotivi economici e politici, vengono organizzati in modo da renderci ostili l’uno all’altro fino a dividerci.