Cento anni fa, all’inizio del secolo, gli imprenditori si chiamavano padroni, i lavoratori erano braccianti o operai, i meno abbienti erano semplicemente: poveri.
Lo Stato era il potere di banchieri, cardinali e padroni. Solo loro potevano votare ed esser votati, le camere del parlamento erano un club di signori e signorotti, notabili delle valli settentrionali e dei feudi meridionali. Era lo Stato liberale.
All’inizio di quel secolo alcuni preti coraggiosi aprivano le sale delle parrocchie ai figli, spesso numerosi, di operai e braccianti e a quelli dei disoccupati. Coraggiosi perché il potere non li amava. Anzi li odiava a morte, letteralmente. Don Minzoni, prete di Argenta, su ammazzato a bastonate, nel ’23.
Nelle sale delle parrocchie quei bambini trovavano le uniche mense possibili, gli unici doposcuola immaginabili. Altro per loro e per le loro famiglie non c’era. A loro lo Stato non provvedeva.
Nacquero nel nord le Società di mutuo soccorso, nacquero le Società operaie. Contadini ed operai si tassavano e costituivano fondi per aiutare nel momento del bisogno i più sfortunati, ma compravano anche libri, creavano biblioteche…
Recentemente ho visto la Società operaia di Cividale del Friuli, in provincia di Udine. Gli operai friulani la vollero proprio come una casa da signori, una di quelle in cui loro entravano a testa bassa e col cappello in mano, se mai capitava di metterci piede. Vi misero dentro ciò che all’epoca era prerogativa delle case dei ricchi: i fregi, gli stucchi bianchi, le pareti decorate e affrescate; e libri, vollero tanti libri, tanti da riempire intere teche in legno di noce, intere pareti. Al pomeriggio i maestri aiutavano i ragazzi a fare i compiti, alla sera aprivano gli abecedari dinanzi ai loro padri e, meno spesso, alle mamma. Così migliaia e migliaia di uomini e donne furono accompagnati fuori dall’analfabetismo. Poi i maestri aprivano quelle teche e leggevano Omero, Virgilio, Tasso, raccontavano i viaggi di Ulisse, la pietà di Enea, le gesta di Tancredi e Rinaldo…A metà di quel secolo, per questo arrivò la Costituzione.
All’inizio del nostro secolo… All’inizio del nostro secolo, a Verona c’è uno scuolabus, uno di quei pullman gialli con le rondini di carta sui finestrini, che attraversa la città, alcune volte si ferma e fa salire dei bambini a bordo, altre volte tira dritto, lasciandone altri a terra. Sul marciapiede lascia i figli dei poveri, quelli che non hanno pagato la rata dello scuolabus.
All’inizio di questo secolo, ad Adro, in provincia di Brescia, nella mensa della scuola materna alcuni bimbi ricevono i piatti, altri no, e tornano a casa. Sono i figli dei poveri, che non hanno pagato la retta al comune.Una volta c’era lo Stato sociale. Poi lo stato sociale è diventato una parolaccia. Certo, quello Stato sociale possedeva addirittura fabbriche di saponette e di pomodori pelati, ed era troppo. Allora lo Stato sociale ha venduto le fabbriche di saponette e di pomodori pelati… ed anche le poste, la corrente elettrica, i telefoni, i treni, gli aerei, ha messo manager alla testa di ospedali e scuole. Ha creato Protezione civile spa e presto arriverà Difesa spa. Poi venderà l’acqua ai privati. Lo Stato sociale è diventato lo Stato e basta.
Dallo scuolabus che passa alcune manine salutano gli amici. Dal marciapiede altre manine si alzano, mentre il pullman tira dritto. Da una parte i nasi incollati ai finestrini. Dall’altra i visi all’insù. Tutti sorridenti, come fosse un gioco. “Perché non si è fermato papà?”. E il papà cosa risponde? “Perché non mangio alla mensa con gli altri, mamma?”. E la mamma cosa risponde?Nella scuola da sempre ci sono i grembiulini. Tutti dello stesso colore, tutti uguali. Sotto ci sono vestiti nuovi o vecchi, pantaloni firmati o sdruciti, magliette ultima moda o con le toppe ai gomiti. Sotto. Sopra sono tutti uguali. E così si sentono fra loro i bambini.
Nella città dello scuolabus che lascia i poveri in strada e nel paese che manda a casa i poveri all’ora di pranzo, comandano sindaci leghisti. Ma il problema non sono loro. Il problema è più vecchio… risale a quando, dopo le fabbriche di saponette, è stato venduto tutto il resto. E con esso il senso di una missione. Di una responsabilità. Come se tutti potessero comprare. Come se tutti potessero stare sul mercato. Anche quei bambini che invece sono rimasti da soli alla fermata del loro bus.
L’Italia è cambiata, le nostre città hanno cambiato volto. Non ci sono più i tram e tutti hanno i telefonini… ma all’inizio di questo secolo il cerchio si è chiuso. Le storie di Verona e di Brescia sono solo quelle di cui i giornali sanno e parlano. Altre, migliaia di altre, per pudore e per dignità, restano celate nelle case. Molte di esse riguardano i nuovi italiani, famiglie venute da altri Paesi. E molte riguardano italiani che sono italiani da sempre. Il cerchio si è chiuso: di nuovo le sale delle Caritas diocesane si riempiono, di nuovo le mense dei frati si affollano di bianchi e di neri, di lingue straniere e di dialetti italiani.
E lo Stato? Non fa più beneficenza. La festa è finita, signori. Adesso o si paga o niente. Non è mica Pantalone.
La cultura, la sensibilità dello Stato è cambiata: si sente moderna e degna del Duemila, ed invece è semplicemente tornata ad essere quella dei signorotti dei primi del ’900. Con tanta volgarità in più. Inutile battere alla porta del Palazzo e rivendicare diritti, inutile invocare la Costituzione. Inutile. Se non è stata (ancora) soppressa la cassa integrazione per chi perde il lavoro, è solo per paura. Perché la fame vera, quella di massa, fa paura, fa tremare il potere. Uno scuolabus che non si ferma è quasi una curiosità. Come la mensa di Adro.
Perché ho deciso di mandare questo articolo proprio ad Albanianews. Perché, oltre che un punto di riferimento degli albanesi in Italia, e dunque di una importante componente della migrazione più recente, è una specie di hub dell’associazionismo “straniero” e non.
In questa nuova Italia, nata anche dalle migrazioni degli ultimi vent’anni, ciò che un tempo fu costruito dalle Società operaie, dalle Società di mutuo soccorso, oggi, credo, tocchi farlo alle associazioni. Mi si risponderà “No, tocca allo Stato”. E’ vero, toccherebbe; la Costituzione affida ancora a Stato, Regioni, Province e Comuni una missione di progresso sociale, ma provate a bussare. Dal Palazzo uscirà (forse) qualcuno con un bilancio in mano, che scuoterà la testa e risponderà “Non è previsto. Per le biblioteche, per la cultura, per l’istruzione, per le mense, per gli alloggi occorrono schei”.
E’ una sfida nuova. Ma forse nelle associazioni di migranti c’è quella linfa nuova che agli italiani, storditi da un torpore decennale, è mancata. Anche la ribellione più plateale alla camorra, a Casal di Principe (Caserta), è stata degli africani. E lo stesso a Rosarno (Reggio Calabria).
Non sarebbe beneficenza, ma l’inizio di una nuova stagione di diffusione della consapevolezza dei diritti. Sarebbe il motore di una ricostruzione. Mi piace immaginare, e forse sarebbe addirittura normale, che proprio da quel mondo che per anni è stato fatto sentire “diverso” e “ospite” (anche indesiderato), che insomma proprio dal mondo delle migrazioni venisse un aiuto all’Italia (l’Italia degli italiani di sempre e l’Italia dei nuovi italiani) un aiuto a ritrovare la pulizia, la bellezza, la semplicità dell’uguaglianza. Perché è vero, è scritta nella Costituzione, ma l’abbiamo persa. E mica solo a Verona e ad Adro.