Sono passati ormai 4 anni da quando il mio amico storico e archeologo Vladimir Qirjaqi mi ha sorpreso con un regalo. Dentro una busta aveva posto una vecchia foto. È sua abitudine iniziare discussioni interessanti arricchendole con argomentazioni basate su letture o scoperte archeologiche. “È un regalo” disse allontanandosi velocemente. “Ne parliamo un’altra volta”. Aveva fretta.
Covid-19 e la prolungata quarantena ad esso dovuta, mi costringe per la prima volta a vedere la mia città natale, Argirocastro, sotto un’altra prospettiva. Dalla finestra di casa mia, cerco di gustarmi il più a lungo possibile, le incantevoli immagini della città e del suo maestoso Castello. La circolazione limitata sembra avere trasformato le case in piccoli castelli – così come le descrive Kadare – nei quali gli abitanti cercano di restare in salute privandosi della propria libertà. Il Castello rappresenta uno dei monumenti più importanti del patrimonio storico e architettonico a livello nazionale; è stato ed è tutt’ora il simbolo della “città di pietra”, Argirocastro per l’appunto. Nel corso della storia la bandiera che su di esso veniva innalzata – e sono state parecchie – segnalava chi fosse il potente di turno. Purtroppo, però, non sempre chi aveva il potere era autoctono. Molti stranieri hanno invaso la città nel corso dei suoi 1500 anni. Nel 1417 la bandiera dei Zenebishe (n.d.t. famiglia nobile albanese) e di Gjin Bua Shpata (n.d.t. despota di Argirocastro) è stata sostituita da quella dell’impero ottomano. Con la dichiarazione dell’indipendenza dello stato albanese secoli più tardi, il 28 Novembre 1912 a Valona, si erge finalmente sul Castello Argjiro la bandiera nazionale. Il 4 dicembre dello stesso anno, patrioti di Argirocastro con a capo il concittadino Hasan Xhiku fanno sventolare la bandiera di Scanderbeg, anche se per pochissimo tempo: l’esercito greco, dapprima, e quello italiano in seguito invadono la città durante la prima guerra mondiale. Insomma, la bandiera albanese sventolava ogni volta che poteva, ogni volta che si riusciva a scacciare l’invasore di turno.
Vedere la vecchia foto durante la quarantena mi suscita nostalgia e ricordi preziosi che mi legano al mio caro amico Ladi. Probabilmente anche in una situazione differente avrebbe prodotto le stesse emozioni. Dopo il breve e veloce incontro in piazza non ci siamo più incontrati. La sua scomparsa improvvisa fa di questa foto il suo ultimo e prezioso regalo, anche se senza nome e senza una propria storia che la giustifichi.
Tuttavia, la lettura di alcune righe del diario di Thoma Papapano “il Maestro del Popolo”, presenti nell’archivio dello stato, le hanno dato un significato e un valore di grande importanza. In una delle pagine, sotto il titolo “Focolarini dall’America verso l’Albania”. Vi era segnato l’anno 1920. Il seguente paragrafo attira la mia attenzione
Nell’anno 1920 giunge ad Argirocastro il Battaglione dei Volontari Albanesi, quei giovani patrioti che emigrati in America tornano decisi a combattere e morire per difendere i confini della loro amata Albania.
Comincia a farsi vivo il ricordo della storia di un secolo prima del popolo albanese e della sua lotta per l’esistenza. Informazioni che ho ricevuto durante i miei anni di scuola. Ciononostante rimane il fatto che mai come ora sento così presente e vicina l’atmosfera nella quale vivevano gli abitanti della mia città in quel periodo: i confini albanesi non erano mai stati in pericolo come allora. Tale clima non poteva che essere completato se non attraverso l’intreccio tra foto e diario di Papapano. Quest’ultimo in quanto fondatore della prima scuola di lingua albanese di Argirocastro è stato designato dal popolo come ospite dei giovani patrioti e li ha accolti a “Hani i Subashit”, una locanda situata alle porte della città.
Quando sono giunti ai confini della città, pioveva a dirotto, ma loro vestiti per bene si sono messi in fila e con la banda “Vatra” a fare da guida entrarono in città.
Il gruppo di volontari della banda “Vatra” era costituito da 215 ragazzi emigranti, la maggior parte dei quali erano del sud Albania. 34 di loro erano ragazzi di Argirocastro. I volontari erano accompagnati anche dalla Banda Nazionale Vatra composta da 37 partecipanti. La loro missione era quella di reinstallare l‘autorità e la sovranità dello stato albanese. Questo accadeva ad Argirocastro.
La foto che il mio amico mi ha regalato quattro anni fa rappresenta proprio questo. Scattata in aprile del 1920, l’immagine festeggia in questa primavera mancata, il suo centenario. In essa è immortalata la cerimonia dell’atto di liberazione della città. Testimonia la partecipazione di molti cittadini. Il fez bianco (n.d.t. tipico del vestiario popolare albanese) invade la piazza. Attira l’attenzione l’ordine e la buona organizzazione che si manifestano non solo nel modo di stare in piazza, che all’epoca aveva il nome “Piazza della Polizia”, ma anche per la presenza dei partecipanti. Rappresentanti delle comunità religiose come Baba Sulejmani (n.d.t. mussulmano) e padre Stafrovor Papapano (n.d.t. cristiano ortodosso) e lunghe file di militari. Le condizioni meteorologiche a cui Papapano si riferisce nei suoi ricordi le vediamo catturate” in foto dalle decine di ombrelli che gli abitanti hanno in mano. La partecipazione dei volontari di Vatra e della loro banda hanno dato al cerimoniale non solo l’importanza dovuta ma anche l’aria pacifica del passaggio di potere dagli invasori italiani al potere locale.
Il lungo e doloroso percorso della bandiera albanese, tra atti di invasione e di liberazione, è stato immortalato dal popolo in questi famosi versi:
Albania sasso e roccia
Si ammazza e si uccide per la bandiera
Essi tolgono e tu metti…
Otto anni dopo l’indipendenza la bandiera è stata innalzata, per la seconda volta, sul Castello dai patrioti Hasan Xhiku, Thoma Papapano, Kapo Topulli e Idriz Guri. Solo dopo avere liberato Argirocastro questi ultimi partono verso Valona. Il centenario della foto regalatami coincide quindi con il centenario della grandiosa guerra di Valona.
L’immagine del Castello, che si vede dalla mia finestra, continua a farmi compagnia durante la quarantena dovuta al Covid-19. Ma nonostante la sua maestosità, in questi giorni di primavera mancata e non goduta, suscita tristezza. Questo è probabilmente l’unico caso in cui non può offrire protezione ai suoi abitanti. La mancanza dei visitatori l’ha lasciato nel silenzio durante il giorno e nell’oscurità durante la sera. Buio che aiuta a nascondere, per quanto poco, la dicotomia tra la forza passata incorporata nella sua architettura e l’impossibilità del presente. Ero in compagnia di questi pensieri quando una sera, all’improvviso sui muri e sui merli del Castello vengono proiettati tre colori: verde, bianco e rosso. La bandiera italiana, tolta 100 anni prima “risaliva” sul cuore della mia città. Anch’io come tanti altri approvo e saluto tale nobile gesto, in quanto pieno di umanità.
Erano giorni che il Covid-19 aveva messo in ginocchio il paese vicino. Forse per la prima volta da dopo Scanderbeg i due paesi hanno un nemico che li accomuna. Un nemico che sconvolge e invade l’intero mondo. La chiusura dei confini per difendersi dal vicino contagiato, non so perché ma mi ha fatto venire in mente il vecchio detto “quello che succede nel vicinato, aspettatelo a casa”. Mai il mondo mi è sembrato tanto piccolo quanto in questi giorni. I confini con gli stati vicini somigliano alle recinzioni che dividono gli orti tipici di Argirocastro gli uni dagli altri. I volontari di una volta giunti dall’America per difendere la loro terra somigliano tanto ai volontari delle “maglie bianche” albanesi, che lasciano la stessa terra per salvare vite di abitanti della terra vicina, dove ogni 24 ore si spengono mille vite umane. Inconsciamente sono tornato alla foto regalata. Al suo centesimo compleanno trova la città totalmente differente. La bandiera alzata allora è la stessa di oggi. La simbologia non è cambiata: oggi come allora, indica il potente che regna. Argirocastro e i suoi abitanti sono di nuovo conquistate ma questa volta da sentimenti di nobiltà e solidarietà. Per un attimo ho sperato che tutti i castelli del mondo fossero occupati da tali sentimenti. La fine dell’inno nazionale italiano che ha accompagnato il tempo di proiezione della bandiera italiana sul Castello era molto simile alla chiusura di un grande spettacolo alla fine del quale non puoi fare a meno di applaudire. Ho applaudito. Ho applaudito nonostante l’immagine della foto, a volte, si contrapponesse all’immagine della bandiera proiettata. In entrambe le situazioni il centro dell’attenzione è lo stesso castello, la stessa bandiera. A prima vista, tutto ciò può sembrare contraddittorio ma non lo è affatto. L’ansia del virus ha ridimensionato tutto molto velocemente: l’individuo in quanto essere umano e il suo modo di relazionarsi con i propri simili. In condizioni diverse, il centenario della liberazione della città si sarebbe festeggiato alla grande. Ma abbiamo a che fare con un nuovo invasore, Covid-19. La sua “bandiera” con la ormai famosa corona si è innalzato sul nostro pianeta. Questo però significa, che così come c’è stato un giorno di invasione ci sarà anche un giorno di liberazione. Così come la storia della città insegna. Prendo di nuovo in mano la foto che ormai ha una sua ragione d’essere grazie alla storia ritrovata. Sotto il nome dell’amico che me l’ha regalata annoto il fatto che tale foto era stata richiesta, al fotografo della città, il 24 aprile 1920 da Kasem Shaqir Cabeu abitante del quartiere Mecite.
Ricordando il compleanno di questa foto non posso non nominare questi altri anniversari:
105 anni fa è avvenuta la creazione de “Le truppe volontarie per la difesa” da Akif Permeti
105 anni fa è stata creata la banda nazionale Vatra diretta da Thoma Nasi
100 anni fa faceva la sua prima performance il gruppo canoro dei canti a cappella della città.
Quattro mesi dopo lo scatto di questa foto il popolo albanese avrebbe fatto La Storia Albanese a Valona.
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Traduzione del seguente: telegraf.al
Autore del testo: Ilirian Lluri
Fonti: AQSH Thoma Papapano Kujtime, Ditarët e Llambi Vaskë Jorgjit botim 2014, Foto Gjirokastra sot Vilson Kuçi
Tradotto da: Lindita Meni