Dall’alto delle svariate miglia che mi separavano dal suolo, scrutavo il cielo. Era bello pensare come quell’immenso blu ci rendesse in un qualche modo tutti uguali; da qualsiasi parte lo si guardasse, egli restava sempre lo stesso.
Avevo da poco lasciato Prishtina, così come, esattamente tre mesi prima, avevo salutato Verona. Apparentemente tranquillo, un po’ triste, attraversato da tutti quei pensieri che solitamente si accatastano nella mente nel frangente tra un aeroporto e l’altro. Nessun visto sul passaporto o innumerevoli carte timbrate e firmate infilate chissà dove, né ricordi di file infinite davanti ai consolati – una fortuna apparentemente concessa a pochi la mia.
Insieme a me viaggiavano solo poche cose riposte confusamente dentro una valigia ed un piccolo quaderno bianco nella tasca. Al suo interno c’erano i nomi e i cognomi di chi avevo incontrato lungo il mio cammino, conosciuto, ascoltato. Persone che avevano deciso di raccontarsi in quanto tali, semplici, umane. Non c’era né guerra né odio nelle loro parole ma sogni. Desideri che accumunavano e che, per quanto diverse le persone ad esaudirli potessero essere, separate da un fiume o un muro, nel loro sognare non vi era alcuna differenza.
Quello era stato il mio Kosovo per mesi, dove il sognare superava ogni divisione. Così ripensavo a Lulzim e Dusan; quanti ne avevo incontrati. Le loro erano semplici storie di ragazzi come tanti – devo ammettere di essermi preso un po’ di licenza narrativa nel raccontarle ma non è forse questo il ruolo dell’artista, di raccontare attraverso una menzogna la verità – ma certo era che descrivevano una triste realtà: l’essersi dimenticati che sapore avesse la libertà, libertà di muoversi, di partire, di viaggiare, per poi sentire la mancanza di casa, quell’emozione del fare ritorno, anche se per poco, e di apprezzare le piccole cose quotidiane come mai si avesse fatto prima. No, loro non sapevano cosa questo volesse dire. Non c’era ritorno per loro. Tutto era vissuto attraverso le parole degli altri, in maniera distaccata, indiretta, provocando come un lieve piacere dalla sofferenza di una prigione. Era difficile capire cosa significasse tutto quello per chi, come me, era nato e cresciuto in un’Europa senza confini o dogane, dove bastava un niente per trovarsi dall’altro capo del continente, dove le frontiere non esistevano se non in un universo lontano. Universo che per quanto lontano potesse essere, era là, aldilà di quel mare che proprio allora stavo sorvolando. Decisi così di portarli con me, tutti, dentro un piccolo quaderno bianco, per farli rivivere ancora una volta il dolce sapore di ciò che da tempo non sentivano più: la libertà.
Il Kosovo, ad oggi, è l’unico Paese dell’area dei Balcani Occidentali a non godere di un regime di visti liberalizzato per quanto riguarda il transito ed il soggiorno nei Paesi dell’Area Schengen. Il processo di liberalizzazione che ha coinvolto l’area – Serbia, Montenegro, Albania, Bosnia-Erzegovina e Macedonia – inaugurato con il summit di Tessaloniki nel giugno del 2003 e conclusosi in due fasi a cavallo tra il 2009 e il 2010, ha visto il Kosovo totalmente escluso.
In seguito all’avvenuta dichiarazione di indipendenza del Paese (17 Febbraio 2008), il Consiglio Europeo ha enfatizzato la volontà di ‘assistere lo sviluppo economico e politico del Kosovo attraverso una chiara prospettiva europea’, auspicando la possibilità per il Paese di godere di un regime di visti meno restrittivo ‘solo una volta che tutte le condizioni vengano soddisfatte e senza pregiudizio alla posizione degli Stati membri sullo status’. La prospettiva è diventata realtà quando, il 19 Gennaio del 2012, il dialogo sulla liberalizzazione dei visti è stato finalmente lanciato.
A giugno dello stesso anno la ‘roadmap’ stilata dalla Commissione è stata consegnata al governo di Prishtina, contenente novantacinque criteri da soddisfare: dalla lotta alla criminalità organizzata alla protezione delle minoranze. Ora, il 2013 si è aperto con poche certezze – ancora nessuna data fissata per la liberalizzazione – e tante speranze ma ciò che è certo è che la paura di opinioni divergenti all’interno dell’Unione Europea per quanto riguarda lo status del Paese Balcanico – Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro non hanno riconosciuto l’indipendenza del Paese, e la crisi economica che sta investendo tutto il Vecchio Continente possano far ‘deragliare’ un processo già di per sé molto incerto. Le sfide non sono poche, soprattutto per un Paese dove tasso di criminalità e corruzione sono tra i più alti in Europa, ma ci auguriamo che possano essere superate con successo in nome di quei tanti ragazzi che sognano un’Europa senza confini proprio come la immaginiamo noi. Europa che sembra essere ancora troppo lontana.
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