Kosovo: Storie di Visti (quasi) vissuti.
Kosovska Mitrovica, Provincia Autonoma di Kosovo e Methodja. Più o meno lo stesso periodo, più o meno la stessa città. Dusan era uno dei migliori studenti del suo corso: “semplicemente brillante” a detta dei suoi professori.
Era al quarto anno di Medicina. Un ragazzo promettente; presto sarebbe partito per gli Stati Uniti con una borsa di studio. Era figlio di un ingegnere molto rispettato in città che per anni aveva lavorato nei quadri direttivi delle miniere Trepça, un genio che la guerra aveva trasformato in venditore ambulante. Aveva visto la Yugoslavia disgregarsi sotto i suoi occhi, cadere come un castello di carte. Era sempre stato contrario alla politica di apartheid portata avanti dal regime di Milosevic nella regione. Sapeva bene che continuando su quella strada, presto la fratellanza e l’unità sarebbero cadute sotto i colpi dei Kalashnikov e sepolte nei cimiteri, insieme a migliaia di persone. Suo padre gli aveva insegnato a non giudicare mai un persona dal credo religioso, la lingua o ‘l’etnia’ d’appartenenza.
Gli aveva sempre detto che le persone erano ciò che sceglievano di essere. Sembravano stupidaggini ma Dusan aveva un profondo rispetto per suo padre. Sua madre era morta durante la guerra; ‘danni collaterali’, così lì chiamavano. Quando non studiava aiutava spesso suo padre. Era un uomo fantastico che nonostante la misera vita che era costretto a subire non aveva mai smesso di sorridere e di credere che, un giorno, le cose sarebbero migliorate. Dusan non ricordava esattamente quando fosse stata l’ultima volta che aveva lasciato il Paese ma doveva essere stato molto tempo prima. Gli sarebbe piaciuto partire nuovamente, concedersi una piccola vacanza. Non voleva assentarsi troppo a lungo, gli studi non glielo avrebbero permesso e suo padre aveva bisogno di lui, ma una o due settimane se le sarebbe potute concedere. L’Italia era da sempre stato il suo sogno.
Il Consiglio d’Europa nel Luglio del 2008 aveva finalmente approvato la liberalizzazione dei visti per l’area dei Balcani Occidentali. Dal gennaio dell’anno successivo tutti i cittadini serbi avevano iniziato a viaggiare liberamente all’interno dell’area Schengen, per un periodo non superiore ai tre mesi. C’era un ‘ma’ in tutta questa storia che Dusan, a suo discapito, avrebbe presto scoperto. Esisteva una discriminante: i ‘cittadini’ serbi residenti in Kosovo, differentemente dal resto dei loro compatrioti, non godevano di tale libertà. Il documento redatto dalla Commissione Europea riportava: “ Dal 1999 la Serbia non ha avuto la possibilità di compiere alcuna verifica riguardante le persone residenti in Kosovo sotto la UNSCR 1244/99. […] la Commissione e gli esperti degli Stati membri non sono stati nella posizione di verificare l’emanazione di tali documenti (Passaporti Biometrici) e l’integrità e la sicurezza delle procedure seguite dalle autorità serbe per la verifica della correttezza dei dati presentati dalle persone residenti in Kosovo […].
Inoltre, in vista di preoccupazioni riguardanti la sicurezza, in particolare la potenziale migrazione clandestina da parte di persone residenti in Kosovo o persone la quale cittadinanza è stata emanata per il territorio del Kosovo sotto la UNSCR 1244/99 […], la Commissione considera che i possessori di passaporti serbi emanati dal Coordination Directorate debbano essere esclusi dal regime di liberalizzazione dei visti per la Serbia”. Ovviamente Dusan conobbe tutto ciò solo una volta arrivato a Belgrado. Avrebbe ottenuto il passaporto, sì, ma senza il visto sarebbe stato del tutto inutile. Andò al Consolato italiano a Belgrado per fare domanda ma lo rispedirono a casa dicendogli che era il consolato di Prishtina ad essere in carico per le questioni riguardanti i residenti nella provincia, che fossero questi albanesi o serbi. Questo significava che avrebbe dovuto fare richiesta per i documenti kosovari. Non che la cosa gli desse fastidio, non era mai riuscito a provare, neanche sforzandosi, quel senso di umiliazione o sconfitta che molti dei suoi coetanei sembravano soffrire dopo che il Kosovo aveva unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. A lui non interessava: Kosovo, Serbia, quello che più gli compiaceva; bastava solo che lo facessero uscire da quel maledetto Paese. Il punto problematico era che per un serbo recarsi a Prishtina era più facile a dirsi che a farsi, forse nemmeno questo, visto che nessun serbo diceva mai di ‘voler andare a Prishtina’. Prese coraggio e andò, non aveva alternativa.
Non avrebbe mai potuto pensare che per passare qualche giorno di assoluto relax in Italia avrebbe dovuto stressarsi a tal punto. In meno di due giorni aveva percorso più di mille chilometri, speso più di cinquemila dinari, visitato almeno sei edifici governativi tra ministeri e consolati, senza, alla fine, essere riuscito a concludere alcuna cosa. Appena entrato nel palazzo del consolato vide un ragazzo uscire la cui espressione gli rimase impressa. Sembrava sconvolto, come se il mondo gli fosse caduto addosso. Si chiamava Lulzim.
[FINE SECONDA PARTE]
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