CESENA – Le nuvole che si adagiano sul mio mare, l’Adriatico, sono emulsioni di zucchero filato bianco sospese nel nulla. I Balcani sono fatti di spicchi di cielo. La cartina geografica De Agostini è ancora sulla scrivania a ricordo della bizzarra impresa: io e mia moglie siamo partiti da Cesena alle quattro del mattino in direzione Ksamil, Albania. Tra noi e la terra delle aquile, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Slovenia, Croazia, Bosnia e Montenegro.

Quanti chilometri abbiamo percorso? Più di quattromila, però la risposta precisa si cela tra le pieghe dell’asfalto, sui graffi della carrozzeria della nostra esile, ma infaticabile e stoica Fiat Panda, la quale ha affrontato il lungo viaggio con disarmante noncuranza delle buche, delle strade sterrate e dei passi di montagna: nonostante la piccola cubatura del motore non si temono ostacoli, frontiere, dogane, perché sarà anche oggettivamente impossibilitata a raggiungere alte velocità, ma è indiscutibilmente inarrestabile e si aggiusta con poco o niente. A casa ti ci riporta sempre. Non ha schermi “touch”, l’infotainment si limita a tre tasti di plastica rigida, però ha ancora sotto al cofano il retrogusto della libertà ed è questo l’accessorio a cui tengo di più.
Le ho dato un nome che suona strano: Fǎxiǎn (法顯).
Così si chiamava un monaco itinerante, il primo pellegrino cinese buddista che giunse in India e raccolse in un volume (“Fóguójì”), nel 416, le cronache del suo sensazionale girovagare. Non aveva una Panda, ma buone gambe.
Abbiamo riempito il baule supplementare da tetto con i nostri involti e adagiato sui sedili posteriori tele e colori, perché il mondo a cui saremmo andati incontro meritava d’essere impresso sulle bianche superfici ruvide che profumano di eternità. Non sono un pittore, fatico a tenere in mano il pennello, ma la mia assoluta non conoscenza di regole e schemi mi ha consentito di esprimermi liberamente e con pienezza.
Sono occhi di bambino quelli che hanno scelto le tempere da stendere sull’inconsueto e ingombrante taccuino di viaggio: non ho mai riprodotto monumenti o ameni paesaggi. I miei soggetti sono borgate popolari, facciate di condominii dall’intonaco scrostato, bambini che rendono omaggio alla vita, tenendosi per mano dinanzi alle coloratissime scuole elementari di paesi dai nomi falotici, strade lastricate, bancarelle di venditori di frutta di cui rammento la sconfinata generosità, lo sguardo e le mani consumate dal lavoro. E’ stato un cammino di un milione di leghe percorso fuori e dentro di me. Ho cercato volti pasoliniani, immerso le mani in un mondo che si sta sgretolando con l’incedere di una modernità che è infelice e informe cosa, la quale deruba gli uomini della loro umanità e scava solchi grigi destinati a diventare voragini sconfinate.
La Slovenia è un vasto giardino all’inglese: ricco, florido e profumato. Si attraversa in qualche ora, giusto il tempo di assaporarne la bellezza mitteleuropea, absburgica, geometrica. Superata la frontiera italiana si entra in un mondo particolarissimo e il benvenuto viene quasi gridato da enormi maiali infilzati su altrettanto enormi girarrosti; tutt’attorno, aroma di carne alla brace che s’insinua prepotentemente nelle narici.
Ci si ritrova così in Croazia con destinazione Dubrovnik. Il mare è il terzo compagno di viaggio: incedendo sospesi nell’aria a causa della lentezza del mezzo utilizzato si possono udire parole sconosciute ed è d’una facilità esasperante perdersi tra le cronache della storia: qui, ogni singolo granello di terra era veneziano. All’orizzonte par quasi di intravedere le sagome di qualche galeone ramingo e solitario, figlio di una immaginazione che si alimenta con l’aumentare dei chilometri.
Decidemmo di abbandonare l’autostrada e di entrare in Bosnia attraverso una via secondaria. Fu un pullulare di paesini in mattoni bianchi, viti, ulivi, vegetazione incontrollata e, soprattutto, innumerevoli automobili Yugo arrugginite e scricchiolanti prodotte dalla jugoslava Zastava.
La Bosnia meriterebbe pagine e pagine, ma per questioni di spazio dovrò dare di piglio al dono che mi manca: quello della sintesi. Attraversammo una specie di dogana in aperta campagna alle tre del mattino successivo.
Troppe case portavano ancora i segni della guerra: i buchi delle pallottole facevano mostra di loro sui cartelli stradali arrugginiti sui quali non sono riuscito a leggere nient’altro che il nome della città di Mostar.
Scegliemmo di rimandare la visita a Sarajevo e in compenso ci perdemmo irrimediabilmente in una vallata senza nome. A tentativi riuscimmo a ritrovare la strada maestra: quella che ci avrebbe portati in Montenegro. Un cartello posto al confine recitava più o meno così: “Cerna gora Montenegro”. Sospiri di sollievo e attimi di beatitudine, poiché la Bosnia era ufficialmente alle nostre spalle.
Ci riposammo a Cattaro, Kotor, e l’indomani facemmo il bagno nell’insenatura che rende mirabile questo luogo di inusitato splendore.
Ci rimettemmo in marcia con ancora l’acqua salata sulla pelle e dopo circa un paio d’ore di strada d’una bellezza abbacinante che si snodava tra vallate verdissime, ecco l’Albania.
La prima sosta fu a Scutari. Da quel momento, vagammo come palline prive di senno dentro un flipper balcanico: Durazzo, Rrubik, Rreshen, Tirana, Elbasan, Pogradec, Korça, Tepelene sulle tracce di Alì Pascià, accompagnati dal romanzo di Dumas, Argirocastro a respirare la stessa aria di Ismail Kadare e poi il passo del Llogara che fa il solletico al cielo, Valona, Saranda, Corfù (Grecia), gli azzurri flutti di Ksamil e Butrinto.


Mete poste sulla nostra cartina quasi a mo’di provocazione rispetto alle leggi della geografia e del buonsenso: Nord, Sud, ancora Nord e nuovamente rotta verso Sud.
Mi sono arricchito oltremodo durante questa schizofrenica danza di punti cardinali. Abbiamo mangiato pesce su bianche spiagge, siamo stati ospitati dalle generose famiglie del nord, abbiamo fatto amicizia con Gjon, il quale ha ammazzato un maiale, importante fonte di sostentamento familiare, unicamente per darci il benvenuto a casa sua, ho visto piangere un uomo che non vede sua figlia da anni, perché vive in Italia e nemmeno lui sa in quale luogo ella si trovi: si è confidato con noi. Perché? Perché c’è un filo rosso che passa attraverso i cuori e lega le anime. Questo filo di seta rossa, sottile e caldissimo, vale più di tutte le ricchezze dell’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg.
Viaggio per una sola ragione: diventare tutt’uno con il sale della terra. Viaggio per osservare dritto negli occhi uomini e donne che il destino ha posto lontano da me e raccontare le loro storie, le loro vite, le loro voci. Viaggio perché sono alla ricerca di ciò che non ho mai vissuto.
Ci imbarcammo a Durazzo, la mia Cesena al di là dell’Adriatico. Sbarcammo a Bari dopo una nottata di mare grosso e assenza di sonno. Ricordo le lacrime cadere dritte in mare: sale che si aggiunse ad altro sale; due piccoli mari, quello interiore e l’Adriatico, destinati a diventare oceano di tracce indelebili.
La Panda, frattanto, soffriva nella stiva del traghetto e un arrivederci soffiava tra i venti di maestrale.
Jacopo Rinaldini