Alla fine di ottobre del 1990, un potente motoscafo entrobordo con a bordo otto profughi albanesi giunge a Monopoli, a sud di Bari. All’epoca ero il corrispondente monopolitano per il quotidiano regionale “Puglia” e scrissi dell’avvenimento. Nessuno in quell’istante poteva immaginare quello che da lì a pochi mesi sarebbe accaduto, nessuno nemmeno lontanamente avrebbe potuto prevedere quella dolorosa diaspora che tantissimi albanesi avrebbe portato sulle coste pugliesi.
Al successivo 30 marzo 1991 erano diventati 1153 gli albanesi a Monopoli. Sapevo ben poco di Albania ed albanesi in quei giorni, se non quello che mi giungeva dalle testate nazionali, dallo studio che dovetti affrontare per poter trattare l’argomento con serietà (partendo dallo splendido reportage, seppur datato, di Indro Montanelli, “Albania una e mille” , Paravia 1939), qualche aneddoto che si raccontava in giro (quale quello che in tutta l’Albania si riuscivano a vedere in tv un paio di canali italiani oltre al canale nazionale TVSH). Per anni non ci pensai più anche perché l’integrazione albanese in Puglia fu ben gestita, molte famiglie vennero accolte ed ospitate anche da privati, quasi tutti trovarono lavoro e si inserirono perfettamente nel tessuto sociale.
Dovetti attendere i primi anni del 2000 per sentire di nuovo parlare, in maniera forte, d’Albania. Collaboravo con la “Teca del Mediterraneo”, la Biblioteca del Consiglio Regionale della Puglia e, all’interno dell’Interreg IIIA (un progetto di collaborazione transfrontaliero tra Italia ed Albania con finanziamento europeo) curavo la redazione di un bollettino bilingue, interfacciandomi con una mediatrice culturale e traduttrice originaria di Elbasan. Lei è poi diventata mia moglie.
Il mio interesse verso il Paese delle Aquile, quindi, aumentò esponenzialmente e tra giugno e luglio 2007 cominciai anche a viaggiare tra Puglia ed Albania, offrendomi sempre volontario in ambito lavorativo ogni volta che si rendesse necessario essere presente ad un convegno o per consegnare o ritirare materiale documentario. Così, in un momento in cui la concessione dei visti era ancora molto ristretta, riuscivo ad incontrare la mia futura moglie con notevole frequenza.
La prima volta che arrivai in Albania ci giunsi con un aereo della Albanian Airlines. L’aeroporto Internazionale di Tirana-Rinas, dedicato a Nënë Tereza, mi accolse con suoni e colori che difficilmente potrò dimenticare. Oltre ai passeggeri in transito, nelle zone di libero accesso c’erano tantissimi cittadini delle zone limitrofe che utilizzavano i bar dell’aeroporto come piacevole punto d’incontro. Inimmaginabile in Italia.
Come nemmeno potrò mai dimenticare il caldo che solo chi c’è stato conosce e che ritrovo ad attendermi ad ogni vacanza estiva. Ovunque, già da giugno fino a settembre inoltrato, la temperatura supera spesso e volentieri i 40 gradi, senza lasciare scampo. Tocca rifugiarsi in qualche bar o in un supermercato, anche per una spesa improvvisata. Un furgoncino mi accompagnò nel mio albergo a Tirana, in rruga Myslym Shyri, e la mia vita cambiò radicalmente. Anche il traffico mi entrò nel profondo dell’animo, mentre col tassista parlottavo in un italiano rudimentale (solo successivamente imparai l’albanese, cominciando con un vocabolarietto reperito alla Feltrinelli ed una vecchia grammatica per studenti universitari); quanti colori e che luci, quanti incredibili odori, primo fra tutti quello del cibo cotto per strada (qofte o pollo…).
La gente era seria senza essere seriosa, sempre gentile, sempre con un sorriso, sempre pronta ad aiutarti, chiunque, in qualunque istante, dal tassista al ragazzo della reception dell’albergo, dalle cassiere dei supermercati ai camerieri dei bar… Ero perso, in una dimensione che non credevo esistente, a cavallo tra un inizio di modernità ed una sorta di storico immobilismo (tra turchi, fascisti e poi il regime di Enver Hoxha…).
In giro per Tirana ero quasi smarrito, lì dove per la prima volta imparai che non solo per retorica ma anche concretamente le religioni possono convivere. Ed ecco che a pochi passi l’una dall’altra trovavo una moschea, una chiesa ortodossa, la cattedrale cattolica di San Paolo.
Mi affascinavano le abitazioni, alcune coloratissime, altre quasi diroccate, con i mattoni ed il cemento a vista. Poi i palazzi della cultura, della politica, del potere, tutti vicini, tutti con ancora in bella vista lapidi e monumenti del periodo del regime.
Quasi stordito da tanta feconda bellezza mi lasciavo trasportare dal flusso della gente per le strade. Ad ogni angolo un ristorante o un bar, piccolo o grande, molti con nomi italiani (magari ad indicare che il proprietario era stato in Italia in passato ed era rientrato in Albania con suo bagaglio d’esperienza), tutti bellissimi.
Imparai subito perché quasi tutti i negozi avevano all’esterno un generatore pronto all’uso: perché in Albania, soprattutto in piena estate, la corrente manca almeno un paio di volte al giorno; a volte manca anche l’acqua. Questo è il momento giusto per lasciare la propria abitazione (o l’albergo, come a me capitò in quell’occasione) per andare a prendere un caffè all’aperto.
Già, anche l’acqua è una risorsa fondamentale, guai a farsi cogliere impreparati ed a farsela mancare in casa. I negozi vendono anche dei bidoncini da 5 litri e quasi tutti i palazzi e le abitazioni singole possono contare su una cisterna di riserva per i periodi di maggiore siccità.
Negli immediati intorni di Tirana già si sprofondava in un’altra Albania, un’Albania agreste ed agricola, un’Albania ricca nella sua modestia, un’Albania nella quale ci si perde facilmente e dalla quale non si vuole più tornare indietro. Ci si inerpicava per immense distese di colline, la vecchia strada per Elbasan (prima che costruissero la recentissima autostrada) era quasi una mulattiera senza protezioni sul vuoto, salvo una sorta di quasi artistico muretto bianco fatto di tanti archetti successivi, alto forse una trentina di centimetri. Quasi ovunque spuntavano fuori dal terreno dei vecchi piccoli bunker in cemento, voluti in gran numero da Enver Hoxha; alcuni di questi sono semidistrutti, altri dipinti in maniera fantasiosa, altri ancora adattati alla bisogna (tipo per farci crescere intorno e sopra delle viti, come nella foto).
Mille pensieri ed emozioni mi riempivano la testa, amplificati dall’amore per la mia futura sposa che ha sempre ben incarnato l’orgoglio, la fierezza e la caparbietà del popolo albanese. Il mio primo viaggio in Albania, il primo di una lunghissima serie che ancora dura oggi, fu lungo appena una settimana. Troppo poco per mettere a fuoco tutto, abbastanza per innamorarmi perdutamente di una Terra, del suo popolo, della sua storia, delle sue tradizioni, della sua cultura.
Rientrai in Puglia in traghetto. Partii da Durazzo, dal “vecchio” porto di Durazzo. Ma questa è un’altra storia…