Uno degli aspetti più difficili da spiegare ai giovani di oggi è quanto razzismo e pregiudizio si avesse nei confronti degli albanesi. E, si badi, non si parla dei primi anni 90, ma di alcuni anni fa.Ed è quindi, ancora più strano, seppure godibile, notare come ci siano pochissime tracce di questo razzismo negli odierni Under 30 italiani. Merito, ovviamente, di tanti fattori sociali, politici, economici e culturali. E merito, anche e soprattutto, degli stessi albanesi che hanno saputo diventare parte importante della società italiana. C’è chi parla di integrazione, chi di assimilazione e chi addirittura di mimetizzazione. Per me, io penso che un tale complesso processo sociale non possa essere racchiuso in simili titoli di giornali, così come penso che sia stato il tempo a decidere il miglior metodo da usare. Se negli anni 90 si parlava, giustamente, di mimetizzazione, credo che gli anni zero siano stati gli anni dell’assimilazione. Toccherà alla prossima generazione decidere che strada prendere, che se la sbrighino loro come meglio credono. Personalmente non credo a chi spiega tutto questo accusando gli stessi albanesi di una serie di nefandezze identitarie, che possono essere così riassunte: l’immigrato albanese è l’ideale, perché è capace di assumere tutte le forme identitarie che gli vengono chieste. In parte per ragioni naturali, quali il colore della pelle, e in parte per motivi sociali, quale il fatto di essere sì, sensibile, ma non troppo religioso. Per questi motivi, questo immigrato è proprio quello che i media, la società e l’ambiente di lavoro richiede. Questi, dal canto suo, è disposto a diventare simile, pur di essere lasciato in pace. Se proprio ci deve essere un contrasto tra identità, questo deve essere evitato e posticipato a tutti i costi. Secondo questa idea, quindi, l’albanese è una specie di camaleonte sociale che può assumere le forme che meglio gli permettono di sopravivere. Ma, come dicevo, non credo a questa teoria.