Se scegli di chiamarti Scanderbeg Parma ti prendi certe responsabilità, e ne anche da poco. Voglio dire, un nome cosi impegnativo lo devi giustificare. E – chi si occupa di intercultura lo sa – la difficoltà principale delle associazioni straniere costituite in Italia non è tanto quella di “esistere” quanto quella di “continuare ad esistere” offrendo attività in modo continuativo.
Dunque affermare quotidianamente la propria presenza perché non possiamo, specialmente adesso, concederci il lusso di riposare. La S.P questo lo sa, cosi come poche altre associazioni albanesi in Italia ( mi viene in mente solo Juvenilja a Forli, e se qualcuno non si ritrova non è tanto per fare un torto quanto perché non mi viene in mente adesso o perché penso che c’è vita anche oltre il 28-29 novembre).
E’ da anni che S.P continua a offrire quella continuità. Non so se dipende solo dal fatto che è, per la maggior parte, un associazione composta da lavoratori che, si suppone, hanno anche una non indifferente disponibilità finanziaria, a differenza di tante altre fatte prevalentemente da studenti, che di disponibilità normalmente hanno solo quella del tempo.
Credo che, come sempre, si tratta di un miscuglio, ma è un idea solo mai e magari i tipi della S.P mi contraddiranno. Mi piace pensare però che questi frutti che ci vengono offerti siano il risultato del coinvolgimenti della comunità albanese, del aver trovato un comune particolarmente sensibili a questi temi nonché, ça va sans dire, del lavoro di tanti uomini e donne che non si risparmiano.
Alcuni giorni fa hanno messo in atto Rrënjët nuk mërgojnë, ( Le radici non migrano ) uno spettacolo teatrale scritto e diretto da ALBERT BEKJA, con la cura di LINDITA SOTA BEKJA.
La storia in se è semplice, una di quelle che non ha bisogno di essere complicata per colpire. Parla di una famiglia albanese trasferitasi a Parma anni fa, una di quelle che si usano chiamare “integrate”, qualsiasi cosa questa parola significhi.
La famiglia in questione riceve la visita del nonno che viene in Albania, assalito dal dubbio della comunicazione con i suoi nipoti che non ha mai visto. Si tormenta e si chiede se potrà parlare con i suoi nipoti nella stessa lingua nella quale ha parlato coi suoi avi e, nel profondo, vuole che gli sia risparmiata l’umiliazione di non poter parlare al sangue del suo sangue.
Quando dico che la storia è semplice, lo intendo come un complimento. E’ solo che è la realtà, e non c’è missione più difficile che rappresentare la realtà. Eppure, la particolarità di Rrënjët nuk mërgojnë e la sua verità oltre la realtà e, se volete, la realtà oltre gli piccoli attori che recitano i poeti albanesi. Gente come: Naim e Sami Frashëri, Mjeda, Migjeni, Cajupi o Agolli e Kadare.
Dicevo doppia verità ; uno perché la storia è una di quelle che non si vedono ma si vivono, una di quelle che prima o poi può capitare a tutti, ed è già capitato a tanti. E non importa il ruolo che fai, sia essi nonno o nipote, perché è la storia che conta.
E non meno importante la seconda verità, meglio nascosta. Lo spettacolo termina con il nonno che viene invitato a vedere le prove per uno spettacolo, il teatro nel teatro. Ed è qui che vede con le sue orecchie che non hanno dimenticato la loro lingua, e per di più, lo stanno migliorando.
E i figli che recitano sono allo stesso tempo protagonisti ed attori, veri e finzione. Recitano la parte di figli di immigrati che recitano nella propria lingua. Che poi è quello che sono.