Con i suoi 26.000 ettari vitati, l’Albania è una terra ancora poco conosciuta dal punto di vista enologico, anche se molte sono le potenzialità del territorio
Indice
Età antica
L’Albania, come ogni paese mediterraneo, è un produttore vinicolo: uno dei più antichi d’Europa. Già dall’VIII secolo a.C. la viticoltura si era sviluppata sulla base di varietà autoctone.
L’Illiria o Illirico (Illyricum o Illyria) era la regione corrispondente alla parte occidentale della penisola balcanica, verso la costa sud-orientale del Mare Adriatico, abitata dagli illiri, antica popolazione di lingua indoeuropea. Il contatto con il mondo greco coloniale nel VI sec. a.C. fu propizio; non solo l’élite, ma anche la classe media iniziò a bere il vino con coppe ioniche.
La coltivazione della vite in Illiria risale al periodo preromano prima della costruzione di via Egnatia. La Via Egnatia (o Via Ignazia) è un’antica via di comunicazione costruita nel 146 a.C. su ordine di Gaio Ignazio, proconsole di Macedonia, da cui prese il nome. Con tale opera gli antichi romani realizzarono, dalla seconda metà del II secolo a.C., una millenaria direttrice di comunicazione est-ovest tra il basso Adriatico e l’Egeo settentrionale e Costantinopoli. Molte varietà di uve albanesi che si trovano in Albania si pensa che siano state portate dai Romani, dall’altra parte alcune varietà oggi italiane sono arrivate nella penisola italica proprio dall’Albania.
Henri Enjalbert, eminente specialista in geologia del vino, nel suo trattato ‘La storia del vino’ (Parigi 1975), scrive: “I territori albanesi sono tra quelli con la più antica storia in Europa”. Sono molte le testimonianze di carattere vitivinicolo, che provengono dall’antichità del mondo illirico-albanese. Tra queste, spiccano sculture, mosaici e dipinti raffiguranti grappoli d’uva, germogli di vite oppure contenitori di vino rinvenuti nelle antiche città di Amantia, Apolonia, Butrinto, Bylis, Dyrrachium, Lin e Oricum. Di particolare importanza, è il ritrovamento della cantina enologica di Bylis (IV secolo a.C) con le 1.500 anfore rinvenute ad Apollonia e il recupero di vasi di vino a bordo della nave illirica affondata nel golfo del Catarro. (Prof. Dott. A. Shundi, ibidem). Il 12 lug 2019, la nave da ricerca Hercules della RPM Nautical Foundation ha rintracciato 22 anfore risalenti ad almeno 2500 anni fa nel Mar Ionio, al largo delle coste albanesi, vicino alla penisola di Karaburun. Le anfore, di tipo corinzio (vasi a due mani con collo stretto), disperse nel corso di un naufragio, sono usate per stipare vino e olio e risalgono a un periodo compreso tra il VII e il V secolo a.C..
La vite è considerata una delle più antiche piante della terra. La vite selvatica, come quella vinifera è ormai certo che fosse diffusa nel Mediterraneo già prima della comparsa dell’uomo sulla terra. L’Asia meridionale sembra essere stata però la culla della vite. Nell’Asia Minore e soprattutto in Armenia, intorno al monte Ararat dove secondo la Bibbia approdò l’Arca di Noè, la vite cresce spontaneamente e senza essere coltivata ha una buona produzione (O. Ottavi, Enologia, 1929). Si pensa che da qui la coltivazione della vite si sia diffusa nella Tracia per poi giungere, dai navigatori fenici, in Grecia e nell’Illiria. In seguito la coltivazione della vite si è diffusa nella Penisola italica, in Gallia e in Europa centrale, per opera dei romani.
Il padre del vino albanese
Nel mondo, secondo la leggenda “l’invenzione” del vino è attribuita a Noè, che sarebbe stato anche il primo ubriaco della storia: Noè faceva il contadino e produceva del vino buono ma, non è stato attento abbastanza e “una volta ne ha bevuto troppo”…
Il Re longobardo Alboino, è considerato da molti come il padre dei Sommelier. Il suo nome è rimasto nella storia anche per un gesto clamoroso: Nel 567 d.C., Alboino sconfisse il re dei gepidi Cunimondo, sposando poi la figlia di Cunimondo Rosmunda. In una notte di baldorie a Verona, secondo quanto narra la storia, Alboino, re dei Longobardi, avrebbe costretto la sua sposa a bere del vino dal teschio del padre, trasformato in una coppa (detta scala nella lingua longobarda). Comunque, l’usanza è presente nella storia di diversi popoli, anche lontani tra loro.
Anche gli albanesi hanno il loro “Re sommelier”, cioè un primo uomo conoscitore di vino, antesignano del moderno sommelier, secondo le fonti storiche scritte: Gent (Genzio, Gentius in latino o Genthios in greco). Genzio è stato l’ultimo re degli illiri.
Roma si era inserita nell’area illirica da un quarantennio (prima guerra illirica, 229-228 a.C) ottenendo il controllo della costa, di Durazzo e dell’interno a sud del fiume Drini, Scutari (Scodra, capitali degli illiri); il padre di Genzio, Pleurato, era un alleato di Roma. Genzio gli succedette intorno al 181, ma Roma lo accusò di favorire la pirateria che danneggiava i traffici di Roma nell’Adriatico. Contro Roma, Genzio si alleò con Perseo di Macedonia (terza guerra macedonica, 171-168 a.C.) ma quest’ultimo lo tradì. Il risultato fu la terza guerra illirica, 160 a.C., che si concluse con la disfatta degli illiri e di Genzio che fu catturato e portato prigioniero a Roma, per poi morire confinato a Spoleto, non si sa quando…
Polibio (storico greco antico, 118 a.C) racconta di Gentius (180 a.C.) come uno che beveva molto vino, in seguito lo descrive come un ubriacone. Secondo Livio (storico romano, autore della Ab Urbe condita) Genzio cominciò a esagerare con il bere. Anche il suo avo Agron (230 a.C.) dopo aver vinto gli etoli (popolazione greca) si diede al bere. Insomma, le fonti riportano alcuni particolari dello stile di vita delle classi più ricche, talora fedelmente talora con spirito polemico o denigratorio.
Nella Naturalis historia, libro XXV, Plinio il Vecchio, presenta le erbe medicinali collegando il nome di genziana a un personaggio storico, Genzio (Gentius), l’ultimo sovrano degli Illiri. Plinio descrive su come “Genzio scoprì la genziana, una pianta che nasce ovunque, tuttavia in Illirico vi è quella più pregiata”. Segue poi una descrizione della pianta che, è riconoscibile come genziana maggiore Gentiana lutea. Il collegamento tra Genzio e la genziana è riferito anche da Dioscoride (medico greco 70 a.C.) il quale spiega come Gentius scopri le virtù medicinali della pianta, comune nelle aree montuose e subalpine, usandola per curare alcune infezioni particolari, le febbri oppure contro il morso di serpente. Dunque, Genzio non solo conosceva il vino ma era anche un conoscitore di erbe medicinali. La diffusione degli ariballo aryballos/i (vaso utilizzato per contenere oli profumati) dimostra che, a quei tempi, i profumi esotici si erano trasformati in una merce ricercata.
Banchetto romano, greco e illirico…
In generale pare che gli aristocratici illiri avessero una certa predilezione per il vino. Ateneo di Naucrati (uno scrittore alessandrino del II-III sec a.C.) è ricco di particolari: «Gli illiri mangiano seduti» – e dunque non sdraiati sulla kline alla moda greca – «e bevono smodatamente al punto che sono soliti stringere la cintura per scongiurare l’accrescersi del ventre». Teopompo (IV sec d.C.) conferma: «Gli aristocratici illirici ogni giorno fanno festa, bevono e si ubriacano»…
Attorno a Durazzo era piuttosto rinomato un vino chiamato basilisca (alcuni pensano che fosse l’antenato del Bordeaux), nella stessa zona il popolo dei Taulanti produceva idromele, una bevanda forte e dolce ottenuta dalla fermentazione del miele, difficile da distinguere dal vino invecchiato – scrive Aristotele. I poveri, invece, si accontentavano della sabaia, ottenuta con orzo fermentato e normalmente alternata con la parabija, una specie di proto-birra.
Durazzo era una grande città sovrappopolata, un tumultuoso melting pot – come è tipico di tutti i porti – di diverse etnie, lingue e religioni, una città così brulicante di vita che Cicerone decise di allontanarsene per trovare un po’ di quiete. Catullo, con la genialità che lo contraddistinse, gli diede l’epiteto di quaeque Durrachium Hadriae tabernum, (taverna dell’Adriatico) in uno dei suoi carmi “Carme 36”. (Albania: Nella terra degli antichi illiri, Sandro Caranzano, pag. 57).
Giusto per par condicio bisogna ricordare che, a proposito di banchetti, sappiamo come sono arrivati fino a noi i banchetti degli antichi Romani: esempi di smoderatezza e lussuria, tramandati in parte dagli stessi poeti e scrittori classici, da Seneca a Dione Cassio, Plinio ecc. dove gli invitati abusavano del cibo e del vino fino all’inverosimile. Anche la baldoria greca che seguiva il simposio non è da meno:
«Poco dopo si udì la voce di Alcibiade nel vestibolo, ubriaco fradicio e che gridava forte, chiedendo dove fosse Agatone e di condurlo da Agatone. Fu portato tra i convitati sorretto dalla flautista e da alcuni altri del gruppo: rimase sulla soglia, con una folta corona di edera e viole sul capo, e una gran quantità di nastri.» (Platone, Simposio 212d-e)
Il cristianesimo si diffuse nelle terre illiriche durante il I secolo d.C.. San Paolo scrisse di aver predicato anche nelle province romane dell’Illiria e si narra di una sua visita a Durazzo. Segue il periodo romano e le vicende storiche dell’Illiria seguono le sorti di Roma.
Il Mosaico della Basilica di Arapaj
Simbologia del mosaico
Al centro è raffigurato un cantaro (kantharos) e tralci di vite.
Il kantharos, era una coppa per bere il vino. I due cervi in mezzo (maschio a destra e femmina a sinistra) simboleggiano l’uomo e la donna. Nella cultura celtica il Cervo è il simbolo della rigenerazione vitale. Invece secondo la leggenda greca di Ciparisso (Cipresso, in albanese Qiparis), il Cervo è simbolo dell’eternità. Da tempi antichissimi per le popolazioni del nord questo regale animale è associato al simbolismo del Sole e della luce, personificando gli aspetti di creazione e civilizzazione.
Il vino, l’uva e la vite da cui ha origine, è considerato l’essenza della vita e dell’immortalità. Fufluns, il dio etrusco del vino, era raffigurato con il kantharos e i tralci di vite.
Dioniso/Bacco è la divinità della liberazione dei sensi e simboleggia il fluire continuo dell’universo e la vitalità dell’esistenza. In molte civiltà la vite è considerata una pianta sacra.
Per il cristianesimo la vite è simbolo di ricchezza è abbondanza. La vite rispecchia il desiderio di fertilità e bellezza. Sacrificio, fede e buona volontà sono le qualità richieste perché la vite dia frutto.
Medioevo
I monasteri, conventi e istituzioni religiose coltivano la vite e producono il vino da messa. Al nord dell’Albania è stato da sempre coltivato il Kallmet, vitigno a bacca rossa più diffuso al nord d’Albania. Kallmet è anche il nome del paese noto almeno dal 1404 quando Papa Innocenzo VII scrisse al Vescovo di Lezha (Lissus) concedendogli il diritto di usufruire delle rendite della chiesa parrocchiale di S. Eufemia a Kallmet.
Nell’Archivio di Stato di Venezia, Registro del catasto e delle concessioni, si trovano molte informazioni a proposito dei vigneti e della viticoltura di Scutari.
Cod.94. «Descrizione della città e del contado di Scutari, con molti documenti relativi,1416-1417. L’ultimo terzo è un registro delle concessioni e privilegi dati dalla Repubblica a diverse famiglie in quel contado.»
Dalla caduta del castello di Scutari nel 1479, fino alla conquista dell’indipendenza nel 1912, l’Albania diviene parte dell’Impero Ottomano. Durante il XVII secolo, la produzione vinicola rallenta sotto l’influenza dell’islam e ai nuovi dettami religiosi che vietavano il consumo di bevande alcoliche. La coltivazione della vite subisce un forte calo e la scarsa produzione di vino è dovuta anche al fatto dell’abbandono delle campagne da parte dei contadini, che non avevano l’intenzione di convertirsi all’islam. Comunque bisogna precisare che l’Albania presenta un caso a parte, a differenza degli altri paesi sotto il dominio ottomano, per via della presenza di credenti bektashi, in quanto molti musulmani fanno parte di questo ordine sufi per i quali non c’è un divieto di assumere bevande alcooliche. Secondo loro il Corano afferma: “Non c’è costrizione nella religione”. Sura XLVII – di Muhammad 15: «….Vi (Paradiso) saranno fiumi di acqua incorruttibile, e fiumi di latte dal gusto immutabile, e fiumi di vino delizioso a chi beve, e fiumi di miele purissimo. E ivi essi godranno d’ogni frutto».
Età moderna
Dal secondo dopoguerra, seguono cinquant’anni d’isolamento. Tutte le aziende agricole, cantine, osterie, negozi, attività commerciali nel settore degli “spiriti” (mescita, vendita al dettaglio, commercio all’ingrosso, depositi) saranno confiscate dallo stato. La dimensione dei lotti di terreno diventa minima e la produzione scende spesso a un livello nemmeno sufficiente alla mera sussistenza familiare. Alla fine degli anni Sessanta tutta la terra è statalizzata. Ai tempi della dittatura spariscono anche tutte le attività private tipicamente artigianali. Le forme giuridiche d’impresa esistenti negli anni del regime sono due: le aziende di Stato e le cooperative (sempre statali). Ovviamente, alcune attività continuano in modo clandestino. Nel 1972, durante la dittatura la produzione vinicola albanese riprende vita, fino a raggiungere il suo picco con 20.000 ettari coltivati, senza calcolare l’economia privata poiché praticamente inesistente.
Queste “epoche” hanno segnato la storia dell’Albania, la sua cultura e la sua ricchezza agronomica, la viticoltura e l’enologia, fino agli anni ’90.
Referenze
- “Rakia connecting people” – La storia e l’industria dell’alcool in Albania
- Albania, l’enoturismo punta su vini da autoctoni
- Caratterizzazione genetica e vitigni tradizionali della Serbia
- FISAR
- I Balcani: nuova frontiera per il vino.
- I vini della Bulgaria
- I vitigni classificati da Plinio e Columella: la Vitis Balisca e la Vitis Caburnica.
- Kallmet: un’uva, un vino, un territorio
- La rinascita dei vini albanesi
- Origini della vite e del vino
- Produttori di vino Kallmet
- SlowFood
- Una guida per gli amanti del vino in Albania
- Vino – Made in Albania