Non ho mai dato retta a siti o riviste che pretendono di occuparsi o di pre-occuparsi in maniera oggettiva o disinteressata della questione balcanica. L’oggettività su questo tema non può esistere dal momento in cui si parte sempre dal presupposto che ci sono colpe da tutte le parti o da entrambe le parti in un qualsiasi conflitto: questa è una visione tipica della ristretta mentalità borghese giustificatrice. Non ho mai creduto che nella storia ci sia bisogno di tribunali e tantomeno di arbitri. E non voglio comunque pensare che chiunque porti avanti indagini o osservazioni sul mondo balcanico sia mosso da interessi (politici) precisi o generici: è assai probabile che si possa trattare di un manipolo di velleitari studiosi di storia – come è già successo in passato ad altre generazioni benestanti, riscopertisi improvvisamente appassionati di Balcani – con la presunzione di essere imparziali e, nella loro imparzialità magari sincera, danno possibilità in modo acritico “alle parti” di esprimersi a prescindere dalle loro intenzioni e dalla qualità degli scritti.
Sì, perché dare spazio a un articolo come quello di Gilda Lyghounis, “Greci d’Albania” , significa essere stati costretti a farlo oppure essere talmente incapaci e superficiali da non vedere la mediocrità intrinseca di tale scritto. Sicuramente chi le ha dato spazio non sa e non conosce la storia di quei confini e forse nemmeno le due lingue in questione, ovvero albanese e greco.
L’Articolo di per sé è una commistione forzata di elementi senza nessun senso logico, tanto meno storico o filosofico (d’altronde si tratta della stessa persona che passa dal trattare la questione dei “cani randagi in Grecia” al discettare di etimologia e storia). Mette insieme contesti e questioni assurdi se correlati tra loro: parte dalla etimologia dei luoghi, ovviamente senza che la “studiosa” sappia l’albanese e tanto meno i legami della lingua albanese con il greco antico o con altro di ancora più antico. Senza considerare il fatto che moltissime città del mediterraneo hanno, per ovvie ragioni, nomi greci “antichi”… Poi si passa ai cantanti “giovani star del busiki” (?!) oppure i “big della canzone greca” (vi immaginate…!). Poi alla questione europea, perché «Atene abbia dato l’assenso alla procedura d’ingresso in UE dell’Albania», successivamente al comunismo, le persecuzioni (ai greci!?!); poi fatti di cronaca con protagonisti dei mezzi criminali e provocatori e persino il coronavirus ai danni dei poveri anziani greci in Albania (qualche centinaia se ancora ci sono, non di più) rimasti soli, d’altronde come i tanti genitori di albanesi emigrati. E tutto questo, proprio ora che il rapporto fra le popolazioni sembrava indirizzato verso una nuova amicizia.
Da dove cominciare… E’ veramente fastidioso per uno studioso intellettualmente onesto occuparsi di confutare scientificamente delle idiozie, ma è necessario farlo perché le idiozie ripetute rischiano di diventare verità. Nell’articolo mancano cifre esatte e fonti reali a cui rifarsi per sostenere tali bislacche argomentazioni; non esiste una cronologia e tantomeno una sola citazione storiografica mentre molti sono gli elementi storici omessi.
Partiamo dalla ignoranza dell’autrice sui termini: Epiro del nord e Albania del sud non sono termini che riguardano la visione greca o albanese. L’autrice, essendo ignorante in storia dell’Albania e non conoscendo la lingua, non sa che quella zona a cui lei si riferisce in albanese ha diversi toponimi che non sono però sinonimi, tanto meno culturali: prima Toskëria (ma non sto qui a farle una lezione etimologica) e l’altro è Labëria, e poi, soprattutto Çamëria cioè termine che volutamente l’autrice non nomina. Eh sì, perché c’è addirittura un territorio oltre il confine albanese, nell’entroterra della Grecia continentale, chiamato così e popolato da albanesi chiamati, appunto “çam-ë”, di cui i greci conoscono molto bene le danze e i loro vestiti tradizionali, molto simili a quelle delle guardie presidenziali.
Riguardo a questo tema , intitolando tale scritto “i greci d’Albania” è evidente che si vuole distogliere l’attenzione internazionale proprio dalla Questione Çame , dalle persecuzioni greche, dal genocidio nei confronti della popolazione albanese (musulmana) della Çamëria, ma soprattutto dalle pretese di giustizia di questa popolazione. L’autrice si guarda bene dal menzionare la circostanza storica secondo la quale, dopo la Guerra Balcanica e fino alla I Guerra Mondiale, le persecuzioni e le deportazioni delle popolazioni albanesi da parte greca erano state tremende, tanto che l’ingresso in Albania da parte dell’Italia nell’ottobre del 1914 è stato giustificato proprio come atto umanitario verso le migliaia di çam-ë deportati dalla Grecia e accampati alle porte della città di Valona. Ma la studiosa non sa che oggi questi albanesi pretendono di avere indietro le loro terre, nella Grecia continentale, di cui rivendicano la proprietà con tanto di documenti e che portano avanti la loro causa nei tribunali europei per ottenere giustizia. In Albania, invece, i greci non hanno mai subito niente del genere. Al contrario, il comunismo albanese alla sua maniera, soltanto nei primi 10 anni di potere condannò a morte o a carcere duro quasi l’8% della propria popolazione, tra cui una maggioranza di cattolici e musulmani appartenenti per lo più alla classe benestante, mentre mai ricorse a persecuzioni per motivazioni etniche.
L’autrice, a quanto pare, non ha letto (o finge di non averlo fatto) niente sulla questione del confine fra l’Albania e la Grecia e delle dinamiche internazionali, almeno nulla che faccia riferimento alla ricerca seria ed intellettualmente onesta; non le converrebbe certamente farsi sfuggire anche un solo piccolo riferimento alla questione dell’aiuto dato dalla G.B. alla Grecia nel tracciare le frontiere, ovvero la vicenda dei confini mobili fatti di greci che si spostavano sempre più a nord – come dice l’inviato della SdN, – con gli abanesi cacciati e le loro case dipinte all’ultimo all’esterno in bianco-blu, mentre all’interno delle case si trovavano ancora i kilim con le aquile rosso-nere stilizzate. Di fronte a tanta ignoranza, però, posso rinfrescare io la memoria all’autrice e anche alla sua redazione dell’Osservatorio, che pare essere sprovvista del cannocchiale per vedere la Storia dei grandi avvenimenti, ma possiede certamente un microscopio per dedicarsi con maestria a trascurabili e vacue beghe di quartiere. Per il mio scopo non mi rifarò ad autori albanesi, ma con: MacMillan M., Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo, Mondadori, Milano 2001, ecco cosa scrive del 1919:
«La povera e piccola Albania […] aveva molti nemici potenti e quasi nessun amico». Nella definizioni del confine si notò proprio la differenza, quando, durante i lavori della commissione internazionale, si vedeva – scrive la storica: «lo stesso gruppo di persone che puntava a ogni tappa di viaggio con cartelli recanti la scritta “benvenuti in una città greca”. Le truppe greche in occupazione temporanea non solo costringevano i bambini a cantare canzoni greche, ma avevano ordinato agli abitanti locali di dipingere le loro case con i colori nazionali greci. E anche dopo aver ritirato le truppe, la Grecia continuò a far entrare clandestinamente delle forze irregolari, che cercavano di fomentare la rivolta». E tutto questo mentre nella Conferenza di Parigi gli albanesi erano gli unici a portare «un solo buon argomento più convincente degli altri, e cioè che nei territori da essa indicati la maggior parte della popolazione era albanese» gli altri la prendevano alla lontana, «i greci sostenevano di essere più civilizzati degli albanesi, eppure avevano commesso atrocità spaventose, come del resto i serbi. Durante la guerra, l’Albania aveva fatto tutto il possibile per aiutare gli Alleati, pertanto non doveva perdere alcun territorio; anzi, a essere giusti, avrebbe dovuto ottenere quelle aree della Serbia, del Montenegro e della Grecia in cui gli albanesi erano in netta maggioranza» – conclude la MacMillan. Alla fine, l’Albania non ottenne mai quelle aree, ovvero Çamëria e Kosovo.
A tal riguardo, invece la nostra autrice “osservatrice”, nella sua evidente ignoranza, non saprebbe spiegare perché ci fossero molti più albanesi oltre il confine in Grecia di quanti fossero i greci oltre il confine albanese.
La nostra autrice, quindi, oltre ad omettere il fatto storico dei migliaia di albanesi, i çam, in Grecia, deportati e vittima di genocidio, si inventa dei numeri da capogiro di greci in Albania, addirittura 300 mila, quando l’intera zona fino a Valona probabilmente ha meno di 300 mila abitanti – a maggioranza musulmana tra l’altro. Quindi, torniamo all’argomento più spinoso, perché attuale, ovvero la questione delle esagerazione di molti fatti e numeri da parte greca o al veto posto spesso dalla Grecia all’ingresso dell’Albania in UE. Tutto ciò ha un preciso scopo e corrisponde all’astuta politica ellenica a lungo termine. Il numero spropositato di greci in Albania è frutto di una macchinazione terribile giocata sulla miseria e la fame. I numeri che la Grecia spaccia per greci in Albania non sono storici, non sono altro che i migliaia di disgraziati migranti albanesi, che per avere i documenti di lavoro o cittadinanza, o semplicemente per fuggire da ricatti quotidiani e maltrattamenti, sono stati costretti a dichiarare di essere di origini greche, cioè dell’Epiro del Nord. Spesso erano addirittura musulmani che cambiavano nome. E tutto questo con una semplice autodichiarazione che stabiliva delle origini greche, con cui si poteva ottenere la documentazione, carta di soggiorno e passaporto greco. Il veto del governo greco per anni contro l’ingresso dell’Albania è spiegabile soprattutto con questo, altrimenti chi dichiarerebbe la grecità in cambio di un permesso di soggiorno, visto che non ne avrebbe più bisogno in quanto cittadino europeo.
Quindi, con questo ricatto, dietro l’accusa di maltrattamenti verso la sua minoranza, il governo greco ha condizionato sempre i politici albanesi. Ma ora il numero è già sufficientemente consistente e soltanto gli stolti o venduti politici albanesi non hanno ancora capito cosa accadrà una volta entrati in Europa. E perciò, vorrei spendere qui due parole proprio su questi governanti albanesi, colpevoli proprio del contrario, di aver sempre tollerato il comportamento greco, anche quando in alcune zone dell’Albania meridionale estremisti di Alba Dorata hanno provocato disordini, bruciato bandiere albanesi e molto altro ancora, con il chiaro intento di creare complicazioni che andassero al di là della coglionaggine estremista, (Nano e Berisha apertamente e gli altri in modo indiretto); di aver investito – per il terrore dell’ammonimento dell’Europa, essendo loro per primi ricattabili personalmente – molto di più in cittadine fantasma come Himara e molti altri centri in cui ci sia qualche velleitaria pretesa di “civiltà” greca (come Korça), a discapito e detrimento delle città capitali albanesi, Valona e Scutari. E non voglio spingermi oltre a menzionare il ’97 e la necessità straniera di distruggere Valona politicamente ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale, essendo questa la città più laica e patriottica del paese, la prima barriera a protezione della albanesità, come d’altronde lo è Scutari per il nord slavo.
Non smetterò mai di sottolineare gli errori incredibili della classe politica albanese, tanto che viene da pensare ad un agire quasi coscientemente antinazionale. Certo è che, se il Governo albanese, non rimette in sesto la divisione amministrativa e non ricostruisce la maxi-Regione di Valona (labëri-bregdet) con la provincia di Valona fino a Qeparo e il resto dei borghi e le pseudo città quali Himara o Saranda, ponendole sotto l’autorità della Regione di Valona, si commetterà il più grande errore e tradimento non solo al paese ma alla cultura albanese in primis. La scellerata idea che sta prendendo piede di staccare da Valona la parte storica della provincia a Sud, accorpando il resto con quella di Fier (!) a nord, con la quale non esiste nessuna affinità culturale o linguistica, diventerà un vero e proprio suicidio culturale, oltre che politico ed economico. Si realizzerà così il desiderio di chi ha sempre lottato per il trionfo delle identità deboli in Albania, come d’altronde sostiene da tempo la “dottrina” Kadare, che pochi purtroppo leggono e ancor meno tra questi comprendono. Dividere quindi la Regione di Valona in questo modo, significa offrire ad Atene il territorio ideale a Sud, popolato dai suoi vorioepirioti-fantasma, attraverso il quale rivendicare una presunta quanto antistorica grecità.
In ultimo, come chiusa di questo scritto, rivolgo una critica diretta ed esplicita all’“Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa” per aver deciso di pubblicare un articolo di questa “levatura” e di questo tenore, proprio ora che il rapporto fra i due popoli (lo ribadisco) cominciava a diventare d’amicizia.