Mio nonno, che aveva vissuto la guerra, ancora negli anni Ottanta, quando ero bambino, raccontava sempre di quando chiacchierava con i soldati italiani. E in italiano ripeteva frammenti dei dialoghi dell’epoca: «io lo parlo l’italiano, lo sai» – mi diceva. Ma per me, che già studiavo quella lingua, lui non la parlava bene. Comunque sia conosceva le parole chiave e bene o male riusciva a esprimersi e a farsi capire. L’opportunità di lucidare il suo italiano venne a mio nonno agli inizi degli anni Novanta, con i nuovi soldati della missione Pellicano. Come lui, anche molti – quasi tutti – cittadini di Valona e di altre città costiere come Durazzo e Scutari, ma anche di Tirana, riuscivano a comprendere e parlare l’italiano e, cosa importante, erano convinti che fosse una lingua facile. La nuova generazione di giovani, coloro che alla caduta del comunismo avevano fra i 15 e i 35 anni, conosceva l’italiano a un livello almeno sufficiente. Molti lo parlavano in modo eccellente senza aver messo mai piede in Italia. Convinti di avere un feeling particolare con la lingua di Dante – come sostiene anche Kadare – ma anche sentendosi spinti, per interesse, per curiosità, e soprattutto per prestigio, a impararla. Ancora negli anni Novanta e nei primissimi anni Duemila l’italiano era la lingua straniera per eccellenza, che tutti apprendevano in un modo o nell’altro: tv, corsi privati, scuola.
Inizio del declino
Le cose, però, gradualmente hanno cominciato a cambiare: la fine del primo decennio del nuovo secolo coincide con un allontanamento e un distacco degli albanesi dalla lingua italiana e oggi è raro trovare giovani che la parlino. Oltre all’inglese, che già da tempo si insegna molto bene a scuola, oggi si studia anche il tedesco, percepito come lingua del futuro soprattutto dalla classe media (una volta si sarebbe detto piccola borghesia) delle città principali. E persino lo spagnolo, lingua delle telenovelas sudamericane, il cui prestigio è legato anche al mito della cultura spagnola e della vita gioiosa che si immagina in città come Madrid e Barcellona, ha guadagnato terreno. L’italiano, al contrario, è stato un po’ messo da parte e, anzi, capita addirittura che a volte i genitori protestino contro il suo insegnamento nelle scuole, preferendo altre lingue straniere[1]. Ci sarebbe da chiedersi il perché di tutto questo.
Che cosa è cambiato nel ruolo dell’Italia in Albania?
Le cause sono molteplici e quasi tutte connesse alla caduta di prestigio dell’Italia nell’opinione pubblica albanese. Ciò potrebbe essere spiegato con la crisi economica che l’ha colpita negli anni 2000 – per cui sempre meno persone emigrano in Italia, ormai. Ma anche i lunghi anni del berlusconismo e la nuova immagine del Belpaese nel mondo hanno avuto un certo peso. In Albania l’Italia non è più una finestra sul sull’Occidente, tanto meno è un modello, e le informazioni provengono per la maggior parte dalle potenti emittenti in lingua inglese quali Bbc, Cnn o Euro News. Accade così che anche l’immagine italiana venga recepita “confezionata” da altri prima che “tradotta” in Albania. Un altro aspetto è soprattutto quello connesso, questa volta, all’immagine dell’albanese che si è creata ed è stata alimentata in Italia. Nessun albanese – nemmeno fra le categorie stigmatizzate come emarginati o malavitosi – si riconoscerebbe nella narrazione italiana. Il linguaggio offensivo e razzista spesso diffuso dai media per anni e adottato da molti politici italiani nei confronti della cultura albanese ha sempre di più allontanato gli albanesi dalla “passione” per l’Italia. Ha allontanato soprattutto le nuove élite albanesi che, forti del loro progresso materiale, guardano esse stesse agli italiani con scarsa considerazione, conseguenza soprattutto dei viaggi nella “vera” Europa, che per questi parvenus è quella del nord: Germania, Inghilterra, Paesi Bassi ecc.. Si tratta di una forma inconscia di rivalsa nei confronti degli italiani e della loro visione stereotipata degli albanesi.
Altro aspetto molto importante è quello culturale, agli occhi degli albanesi di oggi l’Italia è in una crisi irreversibile da questo punto di vista: il cinema non ha molto da dire e da dare e la musica italiana è del tutto “inascoltabile” per generazioni che condividono gusti globalizzati e anglofili, come per quegli altri albanesi nostalgici dei tempi d’oro del cantautorato o del Festival di Sanremo ai suoi apici. Persino il calcio italiano – con la serie A che incollava agli apparecchi radio i maschi di un intero popolo e il mitico 90esimo minuto – è oggi dimenticato, mentre si guarda e si scommette soprattutto sulla Premier inglese o la Liga spagnola, anche se molti continuano a tifare la nazionale azzurra.
“Colpe” italiane della perdita di questo ruolo in Albania?
Naturalmente si tratta di fenomeni sociali e soprattutto culturali che nella storia accadono, ma non accadono mai in un terreno vuoto: ci sono forze che accelerano, e a volte l’accelerazione è spinta, soprattutto in assenza di strumenti frenanti. La diplomazia italiana, sia quella politica e “segreta” che quella culturale e aperta, è la prima responsabile di questo tracollo culturale e politico dell’Italia nel Paese delle aquile. L’Italia per molto tempo ha cercato di assecondare l’opinione pubblica italiana sull’Albania, non riuscendo a programmare una sua missione e un progetto a lungo termine.
Abbandono delle roccaforti
Molto di ciò che è italiano in Albania è stato abbandonato e non ha ricevuto l’interesse che meritava da parte italiana. Le roccaforti della italianità, Scutari, Valona ma anche Tirana, sono state “annullate” dalle politiche trasformatrici della «klika» della Capitale, cancellando la cultura italiana addirittura nelle sue forme architettoniche. Si potrebbe accennare alla demolizione del teatro di Tirana, oppure all’offuscamento e all’obbrobriosa trasformazione del più bel palazzo italiano in Albania, il municipio di Valona, come della fontana “italiana” «Katër Topat» in Piazza della Bandiera, sempre a Valona. Scutari nel tempo sta diventando molto più cattolica che italiana – del resto molte cose in Albania si stanno trasformando, purtroppo, acquisendo o accentuando un carattere religioso. La più volte considerata “scuola superiore italiana” che si parlava di riaprire a Valona, in linea con la Commerciale degli anni ’30, da dove è venuta fuori l’élite cittadina e nazionale – Petro Marko fra i primi –, non è mai stata portata a termine e, anzi, si è lasciato che la stessa scuola venisse distrutta dagli interessi dei palazzinari della capitale. Le città “italiane”, Scutari e Valona – storicamente le più occidentali assieme alla “francese” Korça – sono totalmente abbandonate e l’interessamento italiano in tal senso lascia molto a desiderare, come lasciano a desiderare le collaborazioni fra le regioni albanesi di Valona e Scutari e la Puglia.
Qualcosa esiste
Qualcosa esiste a livello universitario, con i corsi di laurea in italiano all’«Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio» di Tirana, dove sono molti gli italiani iscritti a medicina; oppure di molti studenti albanesi nelle università italiane (anche se molto meno di una volta), ma certamente non pare sufficiente a frenare il fenomeno. Tutto questo mentre dall’Italia arrivano in massa affaristi, studi d’architettura e “turisti stabili” che comprano casa a Tiana o nella riviera tra Valona e Saranda; ma italiani in Albania non significa certo italianità in Albania. C’è tuttavia un’influenza culturale italiana, quella legata all’importazione acritica di alcuni aspetti stereotipati del costume nazional popolare italiano o di una certa tv italiana: ci sono striscia la notizia & veline albanesi, un pippobaudismo albanese, e anche un brunovespismo albanese, scimmiottatura tanto banale quanto pericolosa, sia nella forma che nella sostanza.
Il futuro?
A dire il vero nulla di male che l’Italia non rappresenti più un sogno, un ideale e nemmeno un modello, o che l’italiano non sia parlato come prima lingua straniera dagli albanesi, forse tutto rientra nella dinamica naturale della storia e ancora di più dell’era della globalizzazione “senza distanza” dove i modelli e i sogni possono provenire da ovunque. Quello che invece desta “curiosità” è osservare chi riempie, o riempirà, tale vuoto “culturale” e “politico” direttamente in Albania. Oggi, per esempio, la penetrazione turca nel Paese è talmente capillare che persino le città più laiche come Valona, Korça o Tirana o la “cattolica” Scutari verranno inglobate. Le moschee crescono come funghi, telefilm turchi hanno invaso le tv e il turco potrà essere scelto, al pari dell’italiano, come seconda lingua straniera nelle scuole.
Si potrebbe dire che Roma non ha saputo proteggere l’importanza del suo ruolo per quella parte progressista del Paese che ha sempre visto nell’Italia e nella sua affinità culturale un rifugio dalle politiche “orientaleggianti”. L’Italia, l’ottava potenza industriale del mondo, un Paese di grande eredità culturale, che è stato per molto tempo “il prossimo occidente” degli albanesi, avrebbe dovuto (pre)occuparsi di salvaguardare i profondi legami e gli scambi culturali che si sono formati nella storia fra i due paesi, e forse tentare di incentivare nuove forme di rapporti. Ma così non è stato, e c’è il rischio che altri, capaci di “offrire” di più, possano occupare quel ruolo sia in termini culturali che di importanza politica, senza tuttavia condividere con l’Albania la stessa sorte europea.