Partendo dal presupposto che in questo momento straordinario l’unica cosa che conta è la salute nostra e dei nostri cari, ecco una riflessione su una delle tante conseguenze del Coronavirus.
Il caso Coronavirus e le sue conseguenze, quali quarantena, isolamento, distanza, videochiamate, lontananza sta riguardando da vicino cittadini di tutto il mondo.
Ma questi fattori, noi immigrati, non le conosciamo già da un paio di anni?
L’immigrazione non è essa stessa distanza, lontananza, videochiamate, “chissà quando ci rivedremo” e purtroppo e sopratutto perdere i propri cari senza potersi dire addio un’ultima volta? L’attuale blocco dei confini nazionali, che è quasi un ritorno all’epoca dei visti, ci ricorda tanto quella mancanza di libertà dei nostri primi anni di immigrazione.
I cittadini che sono nati, cresciuti e vivono nel proprio paese, quelli che hanno famigliari nei comuni limitrofi, quelli che non hanno mai sperimentato in maniera diretta l’immigrazione stanno provando per la prima volta alcune delle caratteristiche di quest’ultima.
Se per loro tutto ciò è una condizione nuova, una sorpresa non molto gradita, per noi che conosciamo l’immigrazione invece, dovrebbe essere l’abitudine. Quindi noi dovremmo essere immuni psicologicamente ed emotivamente da questa nuova situazione. I pensieri su come e quando rivedremo i nostri cari ci sono ma lo shock e la sorpresa, a differenza di altre persone non abituate non sono sentimenti che ci accompagnano in questo momento difficile.
C’è invece tanta amarezza. L’amarezza l’abbiamo ingerita giorno dopo giorno in tutti questi anni e ne abbiamo costruita una corazza. Eppure, anche se abituati, per noi è un doppio colpo perché siamo passati da “non vedo mia mamma da 6 mesi” a “non vedo mia mamma da 6 mesi e chissà quando la rivedrò”.
A noi, il Coronavirus ha raddoppiato le distanze, ci ha ucciso le speranze.
La nostra speranza era quel volo prenotato da tempo per il mese di Aprile; era l’attendere intrepidi il momento in cui i nostri genitori avrebbero visto per la prima volta i nostri neonati. Solo così avremmo recuperato gli ultimi mesi passati in lontananza. Quel volo, quegli abbracci, quell’incontro ci avrebbero dato la carica e la motivazione per affrontare il viaggio di ritorno e la distanza delle nostre vite. Noi siamo quelli privi dell’affetto costante della famiglia, e noi siamo quelli dall’amore pregresso che speravamo di recuperare.
Sì cari i miei amici italiani, vi capisco. Io questa lontananza la conosco con ogni cellula del mio corpo, ogni tessuto del mio cuore e della mia mente. Dovrei perciò sentirmi più pronta, meno ferita?
No, mi sento ancora una volta strappata via, ancora più abbattuta, ed ecco che a quella corazza di amarezza se ne aggiunge un’altra dose. Perché abituati, non vuol dire meglio, perché a forza di abituarsi forse ci si stufa, forse il vaso di amarezza trabocca. Ecco perché più che le notizie e i numeri del giorno, io controllo le novità della medicina su una possibile cura, l’avanzare della scienza su una possibile soluzione; e nei momenti di sconforto, simile a un bambino che cerca risposte ma stanco di ragionare, scrivo su google “quanto puo’ durare massimo la pandemia coronavirus?” in modo da preparare la corazza al peggio. E la domanda che ci attanaglia ora è ´Chissà quando…?’
Concludo riprendendo la premessa iniziale. Ciò’ che mi è più a cuore è la salute di tutti noi; prima la salute e poi il modo di riabbracciarsi si troverà, citando il Primo Ministro, “con più calore, per correre più velocemente domani”. Mi sentivo in dovere però, di condividere anche questa sfaccettatura di questa pandemia; tra segni delle mascherine sul volto degli infermieri, macchine militari, addii mancati, senzatetto che non possono stare in casa, anche immigrati doppiamente divisi.
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