Spogliatoio. Argomento figlie: -…pensa quando te lo dirà a diciotto anni! – Magari oggi come oggi sarei felice se non me lo dicesse a tredici! – Ok ma pensa se ti porta a casa un’ albanese – Ecco. In casa mia non lo faccio entrare. Comunque sempre meglio che un rumeno – Ah quelli poi, zingari…….. -.
Cazzate del genere si sono sempre sentite, non sono una novità e tralascio volentieri il compito di analizzarle ed etichettarle.
Ma c’ è qualcosa di più profondo, insidioso.
Se immagini l’ Italia non ti balza agli occhi un paese razzista, poi pensi e capisci.
Capisci che non è cambiato il soggetto ma la grammatica stessa.
Capisci che, in qualche modo, si sono modificate le nostre strutture ideali, è cambiata la percezione del reale, dell’ umano e del nostro modo di essere umani e sopratutto che il razzismo diventa dichiarazione esplicita, programma non più banalità appuntita da cartellone elettorale.
È qui e ora, accade; andrebbe urlato se solo ci fossero ancora orecchie pronte ad ascoltare. Invece no, scorre sotto lo sguardo, come l’ ennesimo campionato di calcio che si conclude.
La realtà è che c siamo sottoposti a plastica facciale; bombardati da paure, d’ opinioni al botulino mai prive di controindicazioni, da siliconate di banalità; trasfigurati senza avvertire il bisogno di specchiarci.
Forse perchè è lo stato stesso, nelle sue sfere più elevate a proporci questo look, a legittimarci.
È difficile provare la necessità di guardarsi allo specchio se manca un senso comune collettivo che ti biasima.
Anzi, in qualche modo, veniamo spinti verso tali concezioni, è il potere che te le propone in vesti eleganti, detta la linea, tra il giusto e l’ errore, tra la considerazione del bello e del brutto, tra l’ umano e il subumano.
Così comprendi il gioco. In un tempo nel quale la crisi economica crea timori reali, l’ unica redistribuzione sociale che si intende attuare è quella di togliere umanità agli “ultimi” per placare la rabbia dei “penultimi”.Una sorta di risarcimento psicologico.
Allora puoi dare senso alle ronde, agli attacchi ai kebab, ai medici e ai presidi che si vorrebbe travestire da sbirri anagrafici, ai posti riservati ai meneghini sugli autobus e chi più ne ha più ne metta aspettando il prossimo ingrediente (amaro).
Provvedimenti questi, che spingono a colpire “ecco lo straniero, infierisci ora puoi farlo anzi, è auspicabile che tu lo faccia”; sono legittimatori prima ancora che legislativi.
Non per caso gli episodi di cronaca densi di intolleranza sono in aumento esponenziale.
Abbiamo spalancato le gabbie troppo tardi per richiuderle il bestiame è già uscito.
Se si pensa al percorso che ci ha condotti in questo buco, mille sono le risposte, poche le prospettive.
Il veicolo principale sono i media che hanno avuto un ruolo chiave nella partita ma non sono gli unici, anche la comunicazione generale non è esente da colpe forse influenzata da questi ultimi.
Sono superfici quelle che ci circondano, e non penso solo a ciò che si comunica ma anche al come lo si comunica.
Manchiamo di strutture, i media oggi non sono altro che bombardieri d’ immagini, proiettori di superfici; riducono ai minimi termini le vicende per somministrarle in pillole.
Questo è l’ inganno, nulla ha più un valore senza un contenuto.
Si è sostituito alla narrazione un fluire di superfici. Se si esporta a un’ essere umano la propria storia gli si sottrae la sua stessa umanità, perde di significato, diventa numero, atomo.
Abbiamo perso la volontà di narrare, di raccontare storie e di ascoltarle anche.
Quelle sì sono colme di contenuti e significati.
E mentre si riscrive la Storia (quella italiana intendo) non ce ne vengono proposte altre quelle attuali, di tutti i giorni senza le quali ci si priva del futuro.
Torniamo a raccontare questa è l’ unica ricetta che mi viene in mente.