Uno dei miei dubbi più lunghi concerne quello che viene chiamata “integrazione”. Mi riferisco all’integrazione degli stranieri in Italia, e come lungo mi riferisco al fatto che da tanti anni non riesco a darmi una risposta abbastanza convincente. Mi hanno insegnato a dubitare di tutto, ed è forse il miglior insegnamento passatomi dai miei parenti. Dubito dunque di chi si nasconde dietro questa parola, diffido di chi ne fa un cavallo di battaglia e di chi ne proclama l’impossibilità.
Capire la parola è un segno o l’effetto della complessità del tempo in cui viviamo. Mai come oggi il dizionario è solo un segnale vago di quello che la parola significa. Siamo sempre stati effimeri, ma oggi ne abbiamo la prova definitiva. Tutto cambia, tutto rimane uguale a se stesso. Viviamo un periodo di frettosa consumazione, ma questo già si sapeva. Quello che non tutti riescono a cogliere è che a consumarsi in fretta non sono i dischi, i libri o i sindaci sceriffi, ma noi. È una specie di gara a chi consuma valuta si innamora abbandona prima. I nostri computer e le nostre vite sono diventati dei musei, spesso l’unico modo per integrare.
E se oggi fossero ancora comunisti ( Chi, noi? Mai stati? Mai saremmo. Centro, fidati!) ci potrebbero servire una perla rifatta che fino a pochi, pochissimi anni fa usavano scrivere sui muri.«L’integrazione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza.» Può essere uno dei modi, ma da tanto tempo abbiamo deciso che se il prezzo da pagare è la violenza allora non ne vale la pena. Non sono più niente di niente pur essendo tutto ed avendo un opinione di tutto, dalla politica agricola fino al tempo di permanenza nei cosìdetti centri di permanenza. Ne hanno uno anche per l’integrazione, che però a loro dire corrisponde a “gli stranieri devono stare zitti e non rompere i coglioni.” Semplice, talmente semplice che non può funzionare.
Se questi sono gli estremisti non si può dire che gli moderati hanno fatto di meglio. Sembra che, di fatto, la scelta del governo in questo campo è quella di lasciar che tutto succeda da se, nel territorio. Per fare un esempio, la classi con un alta percentuale di stranieri. Sempre più spesso i parenti italiano tolgono i loro figli da queste classi per iscriverli in altre scuole. Un comportamento doppiamente dannoso, vuoi perché cosi gli ragazzi italiano sono sempre di meno, vuoi perché se non riusciamo neanche a integrare i bambini allora tanto vale chiudere a andare a casa. La questione delicata – se escludiamo le discutibili Classi Ponti e che dovrebbe offrirci classi di stranieri che non parlano italiano con altri stranieri che non parlano italiano con maestri che parlano solo italiano – è stato per di più delegato alla scuole e agli insegnanti che hanno il compito delicato di convincere i parenti. O alle iniziative delle comuni, come nel caso di Novara. Troppo poco per un paese come l’Italia dove oramai una fetta consistente della popolazione è composta da stranieri che vivono in pieno la loro vita qui.