Scrivo questo articolo quando sembra essere sbollita la polemica sulla legge bavaglio. Lo faccio adesso per evitare di inserirmi nella disputa su quella legge. Il mio obiettivo è piuttosto porre l’attenzione sul confronto tra un Codice consuetudinario vecchio di secoli e quella che viene proposta, nel 2010, come una legge “di civiltà”.
Mi sembra evocativo recuperare un’idea che Antonio Caiazza , grande conoscitore dell’Albania e della sua storia, ha sviluppato a “Porti Cittadini” .
Provo ad argomentare una tesi a suo modo paradossale ma realistica: il kanun degli albanesi è molto più liberale della proposta di legge italiana sulle intercettazioni. Ricordiamo brevemente, è storia di qualche mese fa: il DDL prevede pene aumentate per i giornali e i giornalisti che pubblicano intercettazioni, oltre a restrizione dell’utilizzo delle stesse per le forze di polizia e la magistratura. Una legge molto criticata a sinistra ma anche a destra e che sembra, oggi, giunta ad un punto fermo. Sembra.
Intanto ragioniamo. Il kanun degli albanesi, ci dicono, era già conosciuto ai tempi degli imperatori romani di origine illirica: Diocleziano, Costantino e Giustiniano. Lo conferma anche la ricercatrice Mirie Rushani (“La vendetta e il perdono nella tradizione consuetudinaria albanese ”). Il kanun è una legge arcaica, che prevede istituti particolarmente feroci come la “presa del sangue” (impropriamente conosciuta anche come legge del taglione), ma al tempo stesso è anche un insieme di regole che valorizzano la parola data (la “besa”) e costituiscono una “legge senza stato”, una legge popolare, e in quanto tale certamente di grande interesse, come tutto il diritto consuetudinario dei popoli.
Il poeta albanese Visar Zhiti ha sottolineato che l’immagine contemporanea del kanun è legata soprattutto agli aspetti meccanicisti del kanun, come la faida, mentre se ne è persa la spiritualità, molto più legata alle relazioni tra i popoli e le genti delle montagne. La stessa Rushani (cit.) ne richiama gli istituti di pacificazione, oltre a quelli di vendetta.
La trascrizione di Shtjefen Gjeçov, nella traduzione di Paolo Dodaj (Besa editrice), ci permette di conoscere meglio questo corpo di leggi. Il libro settimo in particolare ci interessa. Si intitola “La Parola”. All’articolo 86 dice: “La parola non causa morte”. O anche “La bocca loquace non contrae alcuna vendetta di sangue”. Dunque, pure per il “feroce” kanun le opinioni sono sacre. Il diritto di parola è sancito e intoccabile.
Il capoverso 521 sembra scritto proprio per marcare una differenza con la cosiddetta legge bavaglio: “Se la mia parola passa nelle orecchie di un altro e costui l’usa a danno di un terzo, per ogni conseguenza potrò restarmene indifferente”. È anche vero che altrove si dice che “Colui che va seminando maldicenze ed intrighi per l’uno o per l’altro, è soprannominato dal Codice un cattivo operaio. Nessuno gli affida un lavoro e nessuno lo paga”. Come a dire: nessuno ti fa del male per ciò che dici, ma non puoi pensare di raccontare bugie impunemente. Viene in mente un’altra pratica italiana contemporanea: il dossieraggio.
Va sottolineato, per chi non conosce la storia albanese, che il kanun non è più formalmente in vigore da molto tempo. Rimangono, interiorizzate dal popolo albanese parecchie norme alla base del Codice. È probabilmente la parte spirituale di cui parla Zhiti.
Come dicevamo, si tratta di leggi vecchie di secoli, di millenni. Eppure contengono, a loro modo, una conquista di modernità che, paradossalmente, oggi l’Italia rischia di perdere.