Dopo ormai dieci anni, il concetto di interventismo umanitario fa parte di un lessico politico consolidato, ma questa strategia pone diversi interrogativi, non solo di carattere strettamente militare.
Read MoreAnalizzando i fatti, viene spontaneo domandarsi se essa costituisca una guerra di tipo inedito o ripeta schemi già visti; inoltre, la sua legittimità giuridica, che costituisce un argomento di dibattito nella giurisprudenza internazionalistica, rende necessario porre queste e altre questioni.1.
La nozione di “guerra umanitaria”Molti dei conflitti del XX secolo, sono conseguiti all’aggressione di stati indipendenti da parte di una potenza straniera, causando l’intervento di un terzo soggetto, in genere dotato di grande prestigio internazionale, che in virtù di legami politici, religiosi, culturali o economici con la nazione offesa, si schiera alla difesa di quest’ultima. In realtà questo schema fa parte anche di guerre appartenenti a periodi precedenti – basti pensare alla guerra di Crimea – ma nel secolo scorso lo si è visto riprodurre nei principali conflitti. I due conflitti mondiali, per esempio, pur essendo stati scatenati da una serie di cause complesse e fra loro correlate, sono seguiti all’invasione di stati sovrani. La prima Guerra Mondiale vede contrapporsi due schieramenti – in parte latori di due differenti concezioni della sovranità – sulla base del casus belli fornito dalla questione serba. Lo stesso può dirsi per la Seconda Guerra Mondiale, che ha questa volta la sua causa contingente nell’espansionismo nazionalsocialista.
L’esito di entrambi i conflitti, è Stato ampiamente determinato dall’intervento degli Stati Uniti che, in virtù della superiorità tecnologica del loro apparato militare, hanno impresso una direzione definitiva allo svolgimento della guerra, rimodellando in seguito a quegli eventi anche l’economia e gli stili di vita del mondo occidentale. A quest’elenco potrebbero aggiungersi diverse altre crisi, come il conflitto di Corea del 1950, in cui ancora una volta gli USA assumono il ruolo di garanti dell’ordine internazionale all’interno della propria sfera d’influenza. Alla fine del secolo scorso, la responsabilità di difesa del mondo occidentale si è però trasformata nel dovere di proteggere il mondo intero. Con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale e i processi di globalizzazione e interdipendenza mondiale, la superpotenza americana è diventata “un’iperpotenza solitaria”1, cioè l’unica potenza veramente “globale”, che nei fatti ha un peso determinante nelle politiche di sicurezza del pianeta.
L’ espressione che ci accingiamo ad analizzare – “ingerenza (o guerra) umanitaria” – venuta ormai a far parte del lessico politico consolidato, ha alle proprie spalle l’esperienza delle guerre del Novecento, pur differenziandosi in maniera sostanziale da esse. L’attitudine americana di intervenire nella crisi serbo-kosovara, anche a discapito della supremazia del diritto internazionale, pare suggerita dalla volontà di contenere le crisi prima che potessero degenerare in conflitti dalle proporzioni più vaste. Del resto, il fantasma dell’appeasement,2 incombe sugli stati occidentali, che memori dell’atteggiamento tenuto nei confronti della Germania nazista durante gli anni trenta, non vogliono evidentemente incorrere in errori analoghi.
Ma cosa significa precisamente l’ espressione “ingerenza umanitaria”? Inoltre, pur avendo alle spalle degli antecedenti, è possibile affermare che costituisca una nuova forma di intervento armato? E se rappresenta una novità, in quale misura lo fa? Queste le domande alle quali si intende rispondere attraverso questo studio.
Ma cominciamo con ordine, cercando di dare una definizione il più possibile esaustiva del suo significato.
Il termine “guerra umanitaria” o “interventismo umanitario” fa riferimento alla situazione determinatasi nel Kosovo durante il secondo mandato di Bill Clinton, nel 1999. Secondo l’amministrazione americana, le violazioni dei diritti umani nella regione erano tali da rendere necessario un intervento armato, nonostante tutto ciò fosse lesivo della sovranità della Serbia. Ma tale intervento era giustificato da una sorta di “dovere morale” che gli Americani percepivano nei confronti della popolazione oppressa; quindi occorreva agire anche a scapito del Diritto Internazionale. A questo intervento era perciò sottintesa un’eco wilsoniana, i cui principi fondamentali sono l’internazionalismo democratico e il concetto di autodeterminazione dei popoli, secondo cui ciascun gruppo sociale che abbia i requisiti per potersi definire “popolo” possiede il diritto di costituire una propria entità geopolitica. La novità di questa guerra risiedeva perciò nella sua parziale non convenzionalità giuridica: essa, paradossalmente, viola la sovranità di uno Stato per affermare il diritto all’autodeterminazione di un popolo, in definitiva per difendere un potenziale futuro Stato indipendente. Ma come si è visto sopra, per molti versi questo tipo di guerra appartiene anche al passato, poiché una potenza forte, interviene in difesa di una popolazione oppressa, così come era accaduto, per esempio, nell’Europa sotto il tallone nazista a tutela delle comunità tedesche fuori dei confini ufficiali. Ciò che rende diversa questa guerra è anche il fatto che la Nato non è intervenuta per preservare l’indipendenza di una stato già formato, ma per tutelare una popolazione che intendeva avviarsi alla formazione di un soggetto statale autonomo. Quindi se si può affermare con Sartori che la “guerra umanitaria” costituisca “un inedito”3, aggiungiamo che essa è tale principalmente per aver infranto il principio della non ingerenza, in difesa dei diritti umani, mentre ripropone il consueto schema tipico delle altre guerre del novecento e in particolare dei due conflitti mondiali.
Le conseguenze dell’ingerenza umanitaria sono molteplici. Secondo Sartori conflitti di questo tipo rischiano di incentivare la frammentazione territoriale e sociale di intere regioni4, risvegliando potenziali focolai di guerra in aree dove vi sono minoranze perseguitate. La questione che viene posta è la seguente: se nel mondo sono moltissime le etnie che aspirano ad un proprio Stato la Comunità Internazionale potrebbe trovarsi in una situazione di conflitto perpetuo e davanti a crisi difficili da gestire. Si può infatti restare inerti di fronte a grandi paesi che, pur essendo nel novero delle principali potenze effettuano violazioni dei diritti umani? Per Sartori, in sintesi, intervenire sarebbe controproducente, poiché non sopirebbe l’odio, ma lo alimenterebbe.
La dottrina internazionalistica, tende ad escludere la legittimità dell’intervento per scopi umanitari. Queste forme di risoluzione delle controversie sarebbero basate su un’interpretazione non del tutto canonica dell’art. 51 della carta delle Nazioni Unite, che secondo il Conforti, lascerebbe trasparire una sola eccezione, cioè la legittima difesa individuale e collettiva nel caso di aggressione ad un membro delle Nazioni Unite, l’unica motivazione ammissibile contro il divieto di uso della forza.52. La crisi serbo-kosovara del 1999, tra passato e presenteNell’area balcanica si sovrappongono da secoli tensioni fra i popoli che vi vivono, ciascuno rivendicante il proprio diritto all’autodeterminazione, oppure all’espansione di soggetti geopolitici consolidati o in via di rafforzamento. Il conflitto serbo-kosovaro che ci si accinge ad analizzare, trova terreno fertile in questa intricata sovrapposizione di fratture, dove sopravvivono ancora contrapposizioni antiche nell’era della civiltà globale.
Il Kosovo rappresenta infatti una regione contesa tra Serbi e Albanesi da tempo immemorabile. Abitata dagli Illiri, antico popolo indoeuropeo antenato degli Albanesi, vede avvicendarsi, nel VI secolo d.
C., l’ondata migratoria degli slavi, durante l’epoca di Giustiniano. I Serbi, che facevano parte di tali popolazioni, dettero vita a degli insediamenti, sino al punto di costruire un proprio stato nel X secolo dell’era volgare. Fu lo scenario di d
ue importanti battaglie contro gli Ottomani: Kosovo Polje (il campo dei merli, in albanese Fushë Kosovë) il 28 giugno 1389, che vide la sconfitta delle truppe cristiane; e la seconda battaglia del Kosovo (1448), quando gli Ottomani ebbero la meglio sull’esercito cristiano dell’ungherese Giovanni Hunyadi.6Le radici delle tensioni contemporanee vanno perciò ricercate in quel contesto, dove si originarono il nazionalismo serbo, e più tardivamente, l’irredentismo albanese. Stretta tra questi due opposi sentimenti, la regione ha sperimentato profonde lacerazioni nel corso dei secoli.
Questi dissidi erano ancora vivi dopo gli accordi di Dayton (1995), che avevano posto fine alla questione serbo-bosniaca; anzi, la questione era “alimentata dal nazionalismo della nuova Albania e dal fatto che la maggioranza della popolazione del Kosovo, etnicamente albanese, era mossa da forti pulsioni nazionalistiche.”7L’abolizione dell’autonomia regionale da parte serba, incrinò ulteriormente la frattura con Belgrado, fino a provocare una vera e propria guerra civile a partire dalla fine del 1996. Si formò così un esercito di liberazione del Kosovo, l’Uck, sebbene il leader Ibrahim Rugova premesse per una soluzione pacifica delle tensioni. Le pressioni di quest’ultimo, capo del movimento politico “Unione democratica kosovara” (Ldk), rimasero pressoché inascoltate, nonostante Rugova venisse successivamente eletto presidente della Repubblica del Kosovo.
La Serbia, da parte propria respinse un compromesso proposto dalla Nato, che prevedeva la presenza in territorio kosovaro di un contingente formato da 28.000 unità, aventi la funzione di interporsi fra le due parti belligeranti, per un periodo di tre anni, alla fine del quale la regione avrebbe optato per l’autonomia o per il rispetto dello status quo ante. Ma Belgrado, e il suo presidente Miloševiç, rifiutarono, mentre le forze Nato, dopo i negoziati di Rambouillet, dettero inizio ai bombardamenti. La situazione umanitaria della popolazione kosovara divenne allora ancor più drammatica: in seguito alle operazioni militari, si inasprirono le persecuzioni nei confronti degli Albanesi dell’area. La Nato, rispose con dei bombardamenti che si protrassero fino a metà giugno, quando Miloševiç capitolò, dopo che i bombardamenti colpirono i punti nevralgici dell’apparato produttivo serbo, e “non mancarono di provocare morti tra i civili.”8Alla conclusione delle operazioni militari, “il Kosovo si trasformò di fatto in un protettorato internazionale”.93. ConclusioniSecondo Weymouth e Henig, il conflitto in Kosovo sarebbe contemporaneamente l’ultima guerra combattuta in campo europeo dagli Stati Uniti e la prima guerra del nuovo millennio, caratteristiche che farebbero della crisi kosovara un evento unico nella storia.10 In questa guerra si sono infatti mescolati alcuni aspetti propri di conflitti precedenti accanto a evidenti novità.
La forte eco mediatica costituì indubbiamente uno degli aspetti più caratteristici. Essa ebbe come conseguenza una partecipazione emotiva dell’opinione pubblica, che assunse varie sfumature nei diversi paesi che parteciparono alle operazioni, generalmente dividendosi sull’asse pro/contro interventismo umanitario.
Fu anche un conflitto dove la tecnologia militare giocò un ruolo di primo piano nella determinazione degli esiti. La superiorità tecnologica giocò infatti a favore delle forze Nato.
Ma, soprattutto, questa guerra aprì la strada a una nuova forma di legittimazione dei conflitti, teorizzando una “giusta ingerenza” negli affari interni di uno stato qualora questo avesse compiuto violazioni di diritti umani nei confronti di gruppi o minoranze etniche. Una giustificazione che, in senso lato, si è successivamente evoluta nella “dottrina Bush”, o della guerra preventiva, anche se le premesse e le conseguenze della guerra in Irak sono state molto differenti dalla situazione Kosovara, pur sperimentando la stessa eco mediatica e l’uso di armi ipertecnologiche.
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NOTE1 Mario Del Pero, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 399-435.2 Termine che in Inglese significa “pacificazione”, indica il comportamento passivo dell’Inghilterra nei confronti del regime nazista e del fscismo italiano negli anni Trenta, che permise l’escalation di soprusi da parte tedesca, come l’annessione dei Sudeti o la questione dell’ Anschluss (unione di Austria e Germania).3 Giovanni Sartori, Mala tempora, Editori Laterza, Roma-Bari 2004, p. 453.4 Ibidem, p. 455.5 Benedetto Conforti, Diritto Internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 1999, pp. 370-371.6 Georges Castellan, Storia dei Balcani (XIV-XX secolo) Argo, Lecce, 1999, pp. 75-94.7 Ennio Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale nel XX secolo, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, p. 382.8 Giuseppe Mammarella, Paolo Cacace, Storia e politica dell’Unione europea, Editori Laterza, Roma-Bari 1999, p. 288.9 Mario Del Pero, op. cit., p. 419.10 Tony Weymouth, Stanley Henig, The Kosovo Crisis. The last American war in Europe?, Pearson Education, London 2001.Fonte: Sintesi Dialettica per l’identità democratica