8 settembre 1999 – un giovane albanese, Hyso Telharaj, muore per aver osato ribellarsi a un sistema che mortifica ancora oggi la dignità dei lavoratori agricoli, specialmente se stranieri: il caporalato.
Al pari della mafia che chiede il pizzo, il caporalato impone la tangente di restituire una parte dei guadagni del lavoro a quelle stesse persone che il lavoro te lo procurano. Quando Hyso arriva in Italia per lavorare, queste cose ancora non le sa.
Troppo giovane e pieno di sogni…E’ partito da un paesino vicino Valona, nell’Albania ancora squarciata dagli esiti del crollo del comunismo, con l’idea di lavorare per poter riprendere a studiare e diventare geometra. Arriva in Puglia, nella zona del foggiano, quella che ha ancora oggi attività prevalente nell’agricoltura. Va a vivere vicino a Borgo Incoronata, paesino della Capitanata pugliese, e accetta un lavoro come bracciante.
Si ritrova incastrato in quel sistema criminale che quasi decide della vita e della morte dei lavoratori della terra. Paghe misere, condizioni di lavoro al limite dello schiavismo e, soprattutto, l’obbligo di restituire una parte della propria paga ai ‘caporali’, persone di cui il lavoratore spesso non conosce nemmeno i volti.
Hyso non ci sta. Sogna un futuro migliore di quello che l’Albania non ha potuto dargli. I soldi gli servono, li ha guadagnati sudando e non ci sta a pagare la tangente. Si ribella, non sapendo che, facendo in questo modo, costituisce una sorta di precedente che può indurre anche altri lavoratori a ribellarsi.
Il ‘no’ ai caporali sarà la sua condanna a morte.
Il 5 settembre 1999, quando è in Italia da pochissimi mesi, qualcuno lo avverte che lo stanno venendo a cercare. Ha schiacciato i piedi a qualcuno, come si suole dire. Gli suggeriscono di fuggire, per mettersi in salvo, ma lui non lo fa. Lo trovano e parte il pestaggio. Tre giorni di agonia in ospedale e poi muore l’8 settembre.
Come nella migliore tradizione omertosa, la sua morte, seppur servita da monito, deve passare subito nel dimenticatoio. A Borgo Incoronata si farà finta di non sapere.
Hyso viene seppellito in Albania e della sua morte, per tanti anni, nemmeno la sua famiglia avrà più il coraggio di parlare, non per paura ma per dolore. In Italia di lui non si conosce nemmeno il suo volto.
Poi, come tutte le verità che DEVONO venire a galla, accade qualcosa. Nel 2012, una ragazza albanese, Ajada, in Italia da quando ha 11 anni, partecipa ad un campo di E!State Liberi , che si occupa di impegno e formazione sui beni confiscati alla criminalità.
Viene a conoscenza della storia di Hyso, vuole ridargli la dignità di lavoratore ma vuole anche conoscere la sua famiglia per farle sapere che c’è una associazione in Italia che non ha mai dimenticato il suo atto di coraggio e ha, addirittura, dato il nome del ragazzo ad una bottiglia di vino ottenuta dalle uve raccolte in terre confiscate alla mafia.
Per 4 anni cerca, e cerca…Internet le dà una mano, ma dovrà aspettare fino al 2016, poi riesce nel miracolo. Non solo rintraccia la famiglia del giovane, ma convince i genitori a farsi dare una foto del ragazzo. Ora Hyso ha un volto.
La sua famiglia, dopo tanti anni, trova il coraggio di venire in Italia. Alla associazione Libera , che ha tenuto viva la memoria del giovane, il fratello maggiore porta in dono la cosa più preziosa che ancora hanno di Hyso, il suo passaporto.
La vicenda giudiziaria ha poi seguito il suo corso. Chi doveva essere condannato, lo è stato. Più o meno…questione che è inadatto discutere qui.
A noi interessa sapere che c’è stato un giovane, venuto da una terra vicina alla nostra, con la sua valigia di sogni e che gli sono stati infranti perché ha avuto il coraggio di dire NO.
E che c’è un’associazione in Italia che, potremmo dire, ‘vive per non far morire’. Non far morire la memoria di persone coraggiose, che hanno pagato con la loro vita l’ardire di ribellarsi a sistemi sbagliati, lesivi della dignità umana.
Uno di questi coraggiosi è stato Hyso.