Mi ritrovo seduto ai tavolini di un bar, lungo una delle vie principali della città. Le strade sono affollate di umanità: bella, variegata, amichevole. Ordino un espresso.
Il caffè è una di quelle piccole cose che fa grande una cultura, il che potrà sembrare poco ma non lo è affatto. Sono a Tirana. Sarà un breve soggiorno il mio, ma abbastanza lungo per riflettere sui legami che ho tessuto con questo luogo nel tempo. Sono tornato in Albania dopo anni dalla mia ultima visita. Tirana è cambiata: si adatta, cresce, ma i bar che ne riempiono le strade restano, sempre uguali, quasi fossero luoghi fuori dal tempo. Passo l’intera mattinata lì seduto, osservo, leggo, o come direbbero da qualche parte al “sud”, sto. Amo stare. Non credo esista un’appropriata definizione dello ‘stare’: non semplice e banale cessazione di movimento ma filosofia di vita.
Oggi posso dire di amare l’Albania, ma c’è stato un tempo in cui ne ero intimorito.
La mia famiglia è originaria di un piccolo paese del Basso Molise a minoranza linguistica arbëreshë. Parlare l’arbëreshë o di arbëreshë dovrebbe lasciar intendere un qualche tipo di riferimento o legame, perlomeno culturale, con l’altra sponda dell’Adriatico. Definire tale legame però mi è sempre risultato difficile.
Da piccolo non ho mai provato grandi sentimenti per questo Paese a me sconosciuto, e, se mai avessi dovuto sentire qualcosa, certo quel sentimento non era vicinanza. La mia è una famiglia di emigrati, e pertanto non mi sono mai sentito veramente parte della comunità d’origine (sempre che esista) o ho mai sviluppato una qualche caratteristica identitaria arbëreshë (sic!) – tant’è che non parlo nemmeno la lingua.
Anche nel piccolo Paese molisano, che io ricordi, non ho mai notato segni di attaccamento emotivo all’Albania. Ciò che però posso assicurare è che, per un ragazzo cresciuto in Italia negli anni 90, il ritratto dell’Albania e degli albanesi che, come tanti altri, ho ereditato da quel decennio non è propriamente sublime: un paese povero, rimasto ermeticamente chiuso per decenni, di cui si sapeva poco e niente.
La speculazione mediatica e politica ha fatto il resto, trasformando il trauma collettivo di un popolo – il crollo del regime comunista che aveva retto il Paese per decenni e il conseguente collasso del sistema – in un’emergenza securitaria.
L’albanese venne ben presto ridotto a categoria: prima da aiutare e integrare, poi, viste le difficoltà organizzative e le implicazioni elettorali di una pianificazione a lungo termine, da marginalizzare e respingere. Venne così il tempo dei profughi, dei delinquenti, che non si volevano integrare, che rubavano (e tante altre semplificazioni della realtà).
Non a caso, il dizionario coniato in quegli anni viene sistematicamente riproposto ogni volta che la situazione – dinamiche migratorie strutturali ridotte a emergenza per mancanza di strategia, politica ma non solo – è propizia alla strumentalizzazione mediatica ed elettorale. Il risultato fu per anni un senso di rigetto, discriminazione, ed esclusione verso l’albanese, che incise fortemente sulla società e le dinamiche di integrazione di molte famiglie albanesi.
Superare determinati stereotipi così incastonati nella memoria collettiva non è un processo semplice, né tantomeno rapido, soprattutto per un bambino. Tale immagine mi accompagnò per tutta l’infanzia e l’adolescenza, fino a che non decisi di affrontare lo spettro dei Balcani e partire. Ricordo così la prima volta che arrivai in Albania. Era estate. Partii di notte dal porto di Bari, direzione Durazzo.
Sarei arrivato il mattino seguente e poi avrei proseguito direttamente per Prishtina. Viaggiai tutta la notte in passaggio ponte, insieme ad altri albanesi che tornavano a casa per le vacanze. C’erano dei ragazzi con me, avranno avuto la mia stessa età. Sembravano felici. Bevemmo e fumammo insieme. Erano bravi ragazzi, ma io troppo diffidente per lasciarmi andare. Quando sbarcai ero stanco, spaesato.
La folla che attendeva sul molo mi intimorì. Ricordo solo le facce, delle gran brutte facce. Provai una sensazione di rigetto. Dovevo aver attirato l’attenzione perché un signore, un perfetto estraneo, mi prese letteralmente sotto braccio. Parlava italiano, e la cosa mi tranquillizzò. Mi chiese dove stessi andando e si offrì di guidarmi fino alla stazione degli autobus, dove, mi assicurò, avrei trovato un mezzo per Prishtina.
Fu una scena surreale: mi lasciai guidare da quell’uomo che non conoscevo affatto ma di cui in quel momento mi fidavo ciecamente, e mi feci guidare attraverso la città. Non proferii parola. Alla stazione (che non aveva affatto le parvenze di una stazione ma di un parcheggio abusivo poco e male asfaltato, tra palazzi fatiscenti, senza informazioni, pensiline, od orari) l’uomo parlò con alcuni autisti e mi disse di salire su uno dei tanti autobus che attendevano. Non chiesi e dissi niente, eseguii e basta. L’uomo pagò per me. Ringraziai. Se ne andò senza grandi commiati, così come era arrivato.
Mi sentivo in balia degli eventi: non sapevo dove stessi andando, perché fossi salito su quell’autobus ma soprattutto se fosse quello l’autobus giusto. Mi scaricarono ad un bivio. Scesi. Era l’inizio della strada che collega l’Albania al Kosovo. Lì sarebbero passati tutti gli autobus diretti a Prishtina. Dovevo fidarmi. Anche perché non c’erano informazioni, orari e, a parte qualche venditore di frutta e verdura, nessuno a cui chiedere. Facendomi forza cercai di comunicare con le poche persone che condividevano con me quell’incrocio, cercando di capire come, quando e se sarei arrivato a destinazione. Non ottenni niente, se non che uno di loro si offrì di portarmi a Prishtina per la modica cifra di cento euro. Rifiutai gentilmente.
Non so quanto attesi prima che un Kombi si fermò per caricarmi. Fui sollevato, ma la sensazione di estraneità continuava ad aleggiare su di me. Mi sentivo fuori luogo, fuori strada, non capivo niente di quello che mi dicevano, ma soprattutto non avevo Lek con cui pagare l’autista (solo banconote da cinquanta euro, il che la dice lunga sulle mie capacità organizzative). Il conducente e i passeggeri si dimostrarono però estremamente gentili e disponibili. Tra loro c’era un ragazzo che parlava italiano. Mi offrì il pranzo e si fece cambiare i soldi dal cameriere. Arrivai a Prishtina alle otto di sera. Ero partito da Durazzo dodici ore prima. Ero stanco, sporco, ma felice: ce l’avevo fatta. Fu questa la mia prima grande storia albanese.
Aldilà delle singole esperienze (felici o infelici che siano) e delle balle mediatiche, la storiografia descrive un’intesa molto antica e solida tra le due sponde dell’Adriatico (parlare di Italia e Albania sarebbe storicamente incorretto per l’epoca). L’emigrazione albanese in Italia non è certo iniziata negli anni 90. Una prima testimonianza numericamente consistente per poter parlare di flussi migratori risale al 1448.
All’epoca gli ottomani, dopo aver spodestato i bizantini quale principale potenza geopolitica regionale, avevano iniziato la loro conquista della penisola balcanica. Gli albanesi, insieme ad altre popolazioni balcaniche, opposero una fiera resistenza, uniti sotto il vessillo di Giorgio Castriota Scanderbeg. Principe, politico, e stratega, Giorgio era cresciuto presso la corte ottomana di Adrianopoli, dopo essere stato catturato dalle forze ottomane. Egli, dotato di grande intelletto e carisma, era asceso rapidamente nei ranghi dell’esercito ottomano, salvo poi disertare, tornare in patria, e organizzare la resistenza.
Negli stessi anni, il Regno di Napoli viveva una guerra intestina tra la casata reggente aragonese e i baroni meridionali, che ne disconoscevano l’autorità. Fu in tale contesto storico-politico che arrivò in Italia il primo nucleo di albanesi, guidati dallo stesso Skanderbeg, giunto in aiuto del re Alfonso d’Aragona. In cambio dell’aiuto militare offerto, il re donò alcune terre al principe. Fu in queste terre che le prime famiglie albanesi iniziarono a stanziarsi, poi diventate comunità via via più numerose quando la resistenza albanese si divise alla morte di Skanderbeg, e fu infine piegata dal Grande Turco.
Dopo secoli di forte mescolanza e integrazione, non si può certo parlare di diaspora o minoranza nazionale (il concetto stesso di nazione emerse ed inizio a diffondersi solo in seguito alla rivoluzione francese), ma alcuni caratteri culturali – come il rito greco-ortodosso o la lingua – si sono tramandati, mantenendo vivo il legame. Stando a tale narrativa, parte del mio lignaggio risalirebbe proprio ai coloni albanesi.
Fu grande la sorpresa (e lo shock) quando iniziai a capire che la mia famiglia parlava una lingua diversa dalle altre. Erano gli anni dell’invasione albanese, quando decine di migliaia di cittadini albanesi, in fuga da un sistema politico, economico e sociale al collasso, si riversarono sulle coste italiane. Il trattamento da parte dei media prima, e, a cascata, dell’opinione pubblica poi fu devastante.
Erano gli anni di Schengen, della costruzione del sogno e dell’identità (sic!) europea, un progetto basato sull’esclusione e fondato sui muri. L’abbattimento delle frontiere interne e la liberalizzazione del movimento di merci, capitali, servizi, e persone, all’interno del mercato unico europeo, servi per mascherare il vero obiettivo del trattato: il rafforzamento delle frontiere esterne della Comunità.
Così la Fortezza Europa cresceva. Imparammo ad essere europei, erigendo confini tra il “noi”, civilizzato, guidato dalla ragione e dai lumi, e il “loro”, barbaro, passionario, emotivo, instabile. Stigmatizzando, educando, e confinando, costruimmo l’altro da noi, per identificarci ed elevarci a nazione civile. Un’opera sistematica di lavaggio del cervello e appiattimento culturale iniziata allora e perseguita oggi con maggior insistenza (e risorse). Non ne fui immune nemmeno io. L’albanese era brutto, cattivo, rubava, sporcava. Di certo io non volevo essere comparato a loro per i miei presunti “legami”. Rifiutai quella parte di me. A scuola non ne parlavo mai con nessuno, e quando invitavo i compagni a casa chiedevo ai miei genitori se potevano parlare italiano. Se gli altri avessero sentito, io avrei sorvolato, come facevo sempre. Non avrei saputo spiegare la cosa, loro non avrebbero capito e sinceramente non lo capivo neanche io.
Superato il trauma, ad emergenza rientrata, cercai lentamente di approfondire quella parte di me che avevo emarginato. Iniziai ad apprezzare questa diversità (mi rendeva unico in un certo qual senso), e sempre più spesso cercavo il modo di farla affiorare. Questo creava non poco imbarazzo quando, superata la fase di sorpresa e ilarità dei miei compagni, dovevo passare alle spiegazioni. Iniziai ad approfondire davvero la cosa solo all’università. Mi convinsi presto che il mio futuro accademico, che mai si sarebbe realizzato, era legato allo studio della relazione tra le due sponde dell’Adriatico, i due me. Questo mi offrì il pretesto per re-immaginare la relazione con la diversità, che, nel mio caso, aveva assunto le caratteristiche albanesi.
Sposai la causa, lessi, studiai, scrissi, salvo poi scoprire quanto questo ricco e complesso legame culturale fosse stato bistrattato e dimenticato per secoli. L’Albania riacquisì interesse per noi italiani, all’interno di una logica puramente colonialista, solo alla fine nella seconda metà del diciannovesimo secolo, per raggiungere poi l’apice durante il periodo fascista. Durante i primi decenni del novecento ci fu una florida produzione letteraria di molti autori e studiosi italo-albanesi, che il regime utilizzò poi in chiave propagandistica a prova del forte legame tra i due popoli, giustificando e legittimando così la penetrazione italiana in Albania, culminata nel 1939 con l’occupazione militare e l’annessione.
Il mio lavoro non apporto granché alla ricerca storiografica e non ebbe alcuna eco nel mondo culturale arbëreshë. Per me fu uno spartiacque fondamentale per la creazione di una nuova coscienza e il modo di rapportarmi con l’altro da me. Quell’altra sponda del mare dove ogni tanto mi piace tornare.