Sono andata senza alcuna voglia quella sera in quella casa. Mi pesava tutto. Perfino la gente che mi circondava, e che faceva di tutto affinché io mi perdessi nel fiume delle parole vuote, per dimenticare quello che stavo provando in quell’inizio.
Un inizio, una partenza verso il vuoto dello sconosciuto. Volevo cambiare vita. Cambiare vita? In che senso? Nel senso di sbattere il naso contro il muro fino a quando i tuoi occhi vedono una parete grigia? Grigia scura e punto. Così mi sentivo quella sera. La vista persa e le orecchie che fischiavano per il disorientamento della vista. Una catena continua.
A volte la voce innocente di mia figlia mi faceva tornare ogni tanto in me, ma niente di più. Mi perdevo in continuazione nel mio buio. Avevo bisogno di vivere. Ma per vivere devi respirare e il respiro mi mancava. E ho accettato di andare in quella casa nella periferia di Torino. Accettato è una grande parola. Era buio. Ricordo di aver sempre vissuto nel buio in quel momento della mia vita. Il sole non lo vedevo, la luce neanche. Ma si può vivere anche nel buio.
Anche quando non sei in grado di pensare che tra poco sorgerà il sole. Mia figlia era contenta di andare a quella cena. Doveva cambiare ambiente. Gente nuova. Bambini nuovi. Ma io nemmeno lei non potevo vedere….
Torniamo alla cena di quella sera. Non mi ricordo se ho detto che era buio. Torino è una città piena di luci ma io soffrivo di una grave malattia degli occhi. Soffrivo e basta. Non era una malattia genetica, nemmeno contagiosa, tanto meno inguaribile, ma in quel momento era così.
Non so se sono stata brava a nascondere il fastidio di quei sorrisi che non facevano nient’altro che irritarmi i nervi. Quei sorrisi li notavo oltre al muro grigio. Non sono tanto brava a nascondere quello che provo. Un difetto dalla nascita. O meglio della crescita. Non lo saprò dire mai. Anche fra 100 anni. Ma non mi voglio perdere in cose così piccole. Devo parlare di una cosa grande.
“Benvenuti! Mireseardhet…” una miscela tra italiano e albanese. Le mie labbra si aprivano con una difficoltà pazzesca. Oh Dio! Una coppia giovane in mezzo ai quei vecchi ruderi. La mia salvezza. E quella di mia figlia. Eh, sì! Perché la povera creatura invece di crescere tranquilla e senza pensieri, era preoccupata per sua madre. Mi conosceva bene da allora.
Ogni mio cambiamento di sguardo, lei lo capiva. Penso che ci siamo presentati. Non mi ricordo come si chiamassero. Ma anche se me lo ricordassi, di sicuro non lo direi. Sarà un segreto. Almeno il nome. Nemmeno le iniziali. Ho saputo che la ragazza giovane era l’ex coinquilina della signora che ci aveva invitato quella sera. E ci voleva far conoscere sia lei, che il suo ragazzo. Era un bel ragazzo quello.
Parlavo male l’italiano in quel momento. Non che adesso lo parli perfettamente, ma meglio di sicuro. Il fatto che ci fosse lei che parlava la mia lingua, mi rassicurava. Se lui non poteva parlare la nostra lingua, erano problemi suoi. Io ne avevo abbastanza di problemi, non è che dovevo pensare anche quelli di lui. Ma forse se ne fregava di capire.
Forse aveva fatto il callo a forza di sentire parlare la sua ragazza bla e bla e bla. Ma lei parlava benissimo l’italiano. E forse a lui bastava questo. Mi sono aggrappata a lei come fa una figlia dietro il vestito di sua madre. Mi sembra di aver dimenticato di dire che era molto più piccola di me. Tanti anni meno di me. Ma era grande. La vita l’aveva fatta diventare grande da un giorno all’altro.
Giuro che è così. Capita di sentir dire che Tizio o Caio sono diventati grandi con un solo salto. Come quello che dicevano a noi da bambini. “Papà, papà. Vedi l’arcobaleno?” – “Lo vedo shpirt i babit. Lo sai tu che se oltrepassi l’arcobaleno diventi maschio all’istante?” – “Davvero papà? Ma non è che mi può far crescere i capelli così mi diventano belli e ondulati dietro la schiena? E io così avrò i capelli più belli del quartiere! Solo in un maschio mi può trasformare?” – “Sì, solo in un maschio”.
E lei era cresciuta così. Dall’oggi al domani. Ma non aveva passato l’arcobaleno. Solo il mare aveva attraversato. Come me. Ma in un altro modo. Con una barca piccola con della gente che quasi non conosceva e che parlavano con un accento che lei odiava. Ma non è che l’avesse odiato da sempre. Solo da quella notte. Così all’improvviso, come per magia. Ma giuro da quella sera. Torniamo al mare e a quella sera buia. O Dio, pensare che lei aveva preso quella barca al buio a solo 17 anni! Mi vengono i brividi. I brividi da mamma, da donna, da vittima, da essere umano, da…. “Perché sei salita?” – “L’avevo deciso”. Un po’ non capivo tanto per come ero messa in quel momento, un po’ perché non puoi evitare la domanda perché. Ero stordita. Mi fa effetto quel momento, anche oggi, e grazie a Dio quel giorno lei è voluta uscire a fumare una sigaretta.
Evvai! Io e lei che potevamo parlare da sole. Ho promesso che sarò sincera. E così sarà. Se fossi stata ancora a Tirana, io con quella non ci avrei parlato. Perché io ero cittadina, lei no. Lei era una contadina di una provincia di Tirana. Il suo paesino lontano da Tirana di 15 km. Solo 15 km. Eppure era una contadina. Io a quell’epoca avevo una mentalità provinciale, chiusa. Un passo avanti chi non è mai stato così. Eravamo con la puzza sotto il naso.
Ma lei era più saggia di me. Capiva bene la mia situazione. Ero di Tirana? E poi? Non ero nient’altro che una povera creatura che cercava il suo habitat seguendo il tempo caldo. Come quella ricerca degli animali, o degli uccelli che cercano il tempo e il cibo giusto. E lei lo capiva.
Oggi le sono grata. Lei non lo sa. Perché l’ho vista quella notte e mai più. Mai. Ma mi ricordo ogni sua singola parola, ogni singolo ciuffo di cappelli biondi (naturali) sulla fronte. Ogni tremore delle sue labbra. L’intonazione della sua voce che cambiava in continuazione. Le sue guance sempre asciutte, mai bagnate da una lacrima, anche se il suo parlare era un pianto continuo. Adesso ho lei davanti ai miei occhi. Era bella e snella.
“L’ho presa perché l’avevo deciso in silenzio”. (intendo dire la barca). “Ma perché?” Quanto ero pesante con i miei perché. Adesso lo capisco, allora no.
Mi avrà giudicata come un’invadente? Ma lei voleva parlare e io anche. O forse lo volevo solo io! Qualcosa di male? Lei era intelligente, capiva che avevo bisogno del suo racconto. Capiva che la mia vista era scura in quel momento come lo è stata la sua per anni. Poi alla fine io non lo potevo raccontare a nessuno. E giuro che è stato così per anni. Solo adesso lo sto raccontando.
“Tu non sai quante notti insonni ho passato prima di prendere quella barca! Non dirò mai maledetta barca, perché maledetta era la mia vita in quella casa, maledetta lo era dopo. La barca non c’entra per niente”- “Ma scusami, ma una sorella non ce l’hai?” – “Certo che ce l’ho. E non solo una, ma ben tre. Ma anche quelle erano ignoranti come mia madre, che spero che muoia e che le ossa le rimangano intatte per punizione!”
Io, mamma di una figlia femmina, sentivo una maledizione nei confronti di un’altra mamma provenire dalla bocca di sua figlia! Salvaci o Signore! Comunque non mi devo fermare sulle mie sensazioni. “Ma tu maledici tua madre e non la barca?” – “Ma che colpa aveva la barca o il mare? Se si fosse rovesciata mi avrebbe fatto un favore. Ma mi dispiaceva per quel bambino che si era attaccato alla sua mamma come una cozza.” – “Scusami cos’è la cozza?”
Ci mancava solo questa domanda in quel momento! In fondo ero in Italia da due mesi. Mica potevo conoscere tutte le parole! Meno male che sapevo arrangiarmi con le domande base per una sopravvivenza e per tornare a casa di mia zia senza prendere dieci pullman. Ha fatto un lungo tiro di sigaretta prima di rispondermi. “Quando entriamo chiediamo a loro come si dice cozza in albanese, perché io l’ho vista solo in Italia”. Ho tirato un sospiro di sollievo. Ne tiravo di sospiri ai tempi! Ma almeno lei non si è innervosita così tanto da mollarmi sul balcone al freddo e al buio.
“Ma tu sai quante volte ho provato a suicidarmi in Albania? Almeno tre. E nessuna di quelle merde di tentativi che ho fatto mi poteva far chiudere quel capitolo della mia vita. Uno, lo volevo fare per salvarmi da tutta quella banda di ignoranti dei miei familiari, e due per condannare per sempre mia madre. Non lo mettevo in dubbio che mi amava, ma era così ignorante che pensava di più a cosa pensasse la gente, che a me e alla mia vita. Tu sai quante volte mi ha dato per puttana mentre io non avevo visto ancora com’era fatto un uomo? Tu mi credi?”
Annuivo con la testa. Anche quello lo facevo alla albanese. Al contrario di come lo fa tutto il resto del mondo. Ma lei era una ragazza intelligente. Conosceva i limiti di un suo compaesano.
“E io avevo deciso di condannarla con la mia morte. Comunque non ci sono riuscita, ma l’ho condannata lo stesso con quello che ho fatto. Sai che vanno in giro a dire che la più piccola delle figlie è morta?” – “Davvero?” – “E tu pensi che me ne freghi qualcosa?” Ho alzato le spalle in segno di insaputa. Me la sono cavata senza fare qualche domanda. “Io davvero sono partita come una morta su quella barca. Perciò né caldo, né freddo”.
Eravamo in quella fase del racconto in cui non potevo fare nessuna domanda. Nonostante fossi un po’ stordita in quel momento oscuro della mia vita, a volte la logica si faceva avanti. E meno male. “Ma se vuoi sentirla tutta e se per caso pensi che ho avuto paura quella sera in quella barca, ti sbagli. Come ti dicevo, l’avevo pensato bene prima. Pensi che non sapessi che cosa mi aspettasse qua?”.
Stavo ascoltando la storia vera dalla bocca della protagonista, non era un libro di fantasia, perciò niente domande. Lei mi stava confidando una cosa grande. Ma tanto grande. Non so se riesco a far capire la grandezza di quel racconto, ma per me era una cosa enorme.
”Pensi che io ci credessi a tutte le parole vuote di quell’ignorante che, coccolandomi, pensava di fregarmi? Non lo amavo nemmeno. Ma avevo bisogno di morire, in un modo o in un altro. Capisci?” E io annuivo. Capivo niente, ma va bene così. Non mi potevo giocare quel racconto che non tutti hanno la “fortuna” di sentire.
“A volte lui mi faceva schifo l’odore di sudore del suo corpo. Era un maiale. E io ero solo una bambina. Ma non mi voleva nessuno. Ma almeno lui non mi dava le mazzate come i miei che mi cantavano in coro che ero una puttana”. Salvaci o Signore! Una famiglia che distrugge il suo proprio membro. La mia gatta quando era stata mamma per due volte aveva mangiato due dei suoi cuccioli, ma per proteggere gli altri ti graffiava. Vai a capire il perché di quelle due volte. Ma era un animale, e io sentivo raccontare in quel momento di una famiglia umana, fatta come noi, due gambe, due mani, una testa, un cuore. Un cuore? Ma che?
“Mia madre non sa cos’è l’amore per un figlio. Per lei l’importante è quello che pensa la gente. Ma anch’io non li voglio mai più vedere. Né in questa vita, e né in quell’altra. Un giorno l’ho chiesto alla mia suocera.” -”Cosa?” – “Se mi vuole vedere come una figlia.” – “Davvero?” – “Sì. E lei mi ha detto di sì. E’ brava. Tu non sai cosa mi hanno fatto una volta passato il mare. E non sai, per la mia sfiga il mare era scuro, ma porca miseria era piatto. Tranquillo. Sai cosa vuol dire tranquillo? Come se nella superficie avessero rovesciato l’olio.” – “Meno male.” – “Lo dici tu.” – “Lo dico perché ti vedo oggi affianco a lui e mi stai raccontando tutto questo. Non sei con le tue ombre.” Non so se gliel’ho detto per davvero. Ma l’ho pensato.
“Non so se avrai fegato di ascoltare quello che ti racconterò adesso, ma credimi ho passato tutto questo.” Ero con le orecchie a ventola. Niente fischi in quel momento. Per niente. L’udito mi stava migliorando e non poco. “Ti parlavo di quel maiale puzzolente. Mi ha mollata nelle mani di un altro bastardo ed è sparito per sempre. Mai più visto. Non è che mi manchi, ma è in debito con me per uno sputo. Uno di quelli che accumuli e accumuli finché esce uno sputo come quello dei lama.”
Meno male che lama è una parola internazionale e sapevo e conoscevo l’oggetto in questione. Sento il suo racconto in questo momento, e mi disturba tanto, perché è molto più avanti di quello che sto scrivendo adesso. Cercherò di tirare un po’ i freni.
“Tu hai mai sentito parlare di una violenza di gruppo?” Non sapevo se annuire o negare. Ero completamente stordita. Gli occhi mi stavano uscendo dalle orbite. Giuro. Alla faccia del muro grigio! Si era sbriciolato in un attimo, come un muro di cristallo che si sbriciola in mille pezzi. Cosi e successo a me.
“La puzza di quell’altro lo devi moltiplicare per cinque, sette. In sette mi hanno violentata. Mi hanno pisciato addosso. Ridevano di me. Ho pianto giorno e notte. Mai smesso per settimane, poi nemmeno una goccia di lacrima. Ancora oggi non sono in grado di piangere. Non so da quanti anni è che non piango! Mica piangevo dal dolore. Piangevo per non essere morta in quelle tre volte in cui ci avevo provato. Per non essere morta dalle botte che mi davano i miei. O quella notte in quella barca. Piangevo perché ero viva. Perché l’avevo “saputo” cosa mi aspettava qua, ma non sapevo che mi avrebbero torturata in quel modo. Se mi dovevano dire di battere in strada, io lo facevo, ma non mi dovevano torturare.
Ma i bastardi pensano a tutto. Se per caso uscivo in strada senza nessuna tortura, potevo anche fregarmene di tutti quei bastardi che mi avrebbero caricata e andarmene per i cavoli miei. Perché loro pensano a tutto.” Ero a pezzi. Anche adesso che lo scrivo sono a pezzi. Pensate lei. Che Dio la aiuti ad azzerare la memoria! Spero che le sia successo proprio quella notte. E così forse si è salvata una volta per tutte. E vive una vita sua. Una vita sua? Mi viene difficile da credere. Succede solo nelle favole. Ma io nemmeno alle favole ho creduto da bambina. E anche a mia figlia all’età di sei anni ho detto che Babbo Natale non esiste. Non esiste e punto! Se no, crede alla favola di Cenerentola, della Bella Addormentata e finisce che si fa il suo film su una vita che non è sua, e si trova nonna con una vita sprecata.
Torniamo a lei. Fumava le sigarette quella sera come un turco. A volte pensavo al suo fidanzato che era ancora dentro circondato dagli estranei, e per di più albanesi, e rispettava la scelta della sua ragazza di stare ancora fuori. Era saggio quel ragazzo. Mi piaceva già. “Quando ho smesso di piangere, ho deciso di parlare con il capo dei bastardi e gli ho detto che ero pronta.
Pronta per battere in strada. Nemmeno paura avevo in mezzo a quelle iene. Perché dopo un po’ di anni che lavori in strada, diventi una iena. Le nuove puttane per loro erano come i giovani militari del primo anno. Io quando sono uscita in strada ho fatto uscire anche le mie unghie. Me ne fregavo di quelle bocche brutte e piene di rossetto. Io ero carne fresca, ma dura. Dura come quella di un vecchio cavallo. Nessuno lo poteva vedere, ma io sapevo com’ero diventata. Forse ero così già prima di prendere quella barca. Il peggio doveva venire. Quando avevo il ciclo mi costringevano a mettere i tamponi fin in profondità e a far sparire il filo, così i clienti non si accorgevano che ero mestruata.
Dovevo lavorare tutti i giorni del mese. Tuttiiii!” Ha strisciato l’ultima parola come per farmi capire meglio quello che voleva dirmi. “Sai che dopo l’aborto mi hanno esportato anche l’utero?” -”Hai abortito?” – “Certo. Cosa dovevo fare, tenere un bambino di cui non sapevo chi fosse il padre? Tenere un essere per fargli fare una vita come la mia?” – “Ma no, tu vivi diversamente adesso.”- “Adesso! Ma non in quel momento. Sai che ho abortito al quinto mese?” – “Ma come? “ – “Sì, e i medici non volevano farmi abortire perché il bambino era grande. Ma ho preso per la giacca il medico e gli ho chiesto che se fossi stata sua figlia, mi avrebbe lasciato tenere un bambino di chissà chi a vivere una vita come la mia? E lui? Mi ha detto che sua figlia di sicuro non poteva fare la mia fine. E io, tenendolo ancora dal collo della giacca, gli ho chiesto guardandolo negli occhi: “Che ne sa lei della mia vita?” Che ne sapeva lui del perché avevo ancora il bambino in grembo?
Appena il pancione cominciò a crescere i bastardi mi chiusero in una stanza vuota. Vuota e fredda. Mi hanno spento perfino il termosifone e non potevo riscaldarmi. Mi hanno tenuta per cinque giorni nuda, nuda, nuda senza coperte, senza niente. Io e il mio pancione.” Mi stava venendo il dubbio di star vivendo un brutto sogno, e tutto quello che sentivo era la trama di quel maledetto sogno, e quando dovevo aprire gli occhi, tutto finiva. “E poi?” – “E poi niente. Io subivo senza piangere.
Non sentivo più dolori. Ero immune a tutti i dolori. Avevo deciso di abortire e non se ne parlava. E così si è fatto. Ma sai? Avevo trovato una bellissima soluzione. Quella di salvarmi un giorno da tutto quello che stavo passando e, sola al mondo, un giorno avrei trovato il mio principe azzurro, e se vuoi credermi o no, in un certo senso lui è il mio principe azzurro.” Parlava del suo ragazzo. Non avevo più la forza di chiedere, e poi, se voleva raccontarmi, andava bene, se no, altrettanto.
Era troppo per me tutto ciò che stavo ascoltando quella sera. Conoscendomi sapevo che per un po’ di tempo avrei dovuto vivere con lei davanti agli occhi. “Ho abortito e non ho sentito nessun dolore per quella creatura. Ho pensato che avevo preso da mia madre. Lei era senza anima. Io lo stesso. Lui era mio figlio ma io non sentivo dolori. Zero!”
Il freddo mi stava prendendo anche l’interno del corpo. La parte esterna era già congelata. Ma nessun cenno. Zitta. Ero là per una missione. Sentire lei. E lei per una missione. Salvare me.
“Ma Dio, come ti sei salvata da loro? Lui quando l’hai incontrato? Chi ha messo la mano nel cuore per te?” – “Eh, cara mia! Un po’ per i tamponi, un po’ per tutta quella gente, un po’ per l’aborto, l’utero era infiammato e per forza lo dovevo togliere. Adesso che potevo fare un figlio per noi, ma per lui per di più, perché io mica sono sicura che sarei una brava mamma, adesso non posso. Ma va bene così. Uno di quei bastardi si è innamorato di me. Ma tanto. Stravedeva per me.
Penso che gli facessi pena, ma non me ne fregava niente di lui. Dopo l’intervento dovevo per forza riposare per un po’ di giorni. Sempre sorvegliata. E lui in quei giorni era andato da Suor Livia e le aveva parlato di me, ma con l’unica condizione che io avrei dovuto lasciare immediatamente la città, perché se mi beccavano un’altra volta, non uscivo viva da lì.”
E io che sospiravo. E poi ferma senza respirare. “E poi?” – “ Lui mi ha detto che sapeva che non sarei mai stata sua, e di salvarmi, perché non poteva vivere vedendomi così. Chissà cosa gli hanno fatto dopo che me ne sono andata io, ma non ci ho mai voluto pensare. Se vuoi che sia sincera, lo ringrazierò per tutta la vita, nonostante il male che mi ha fatto quando venivo violentata, ma almeno mi ha dato una chance per riprendere a vivere.” Non potevo capirla, ma la capivo anche.
“Suor Livia, come promesso, mi ha spedita al Nord, dove sono stata seguita da psicologi e compagnia bella per trovare la forza di uscire. Non so se ne sono uscita. Non te lo so dire in questo momento. Ma ho cercato di andare avanti. Ho trovato lavoro, mi hanno dato questa casa in condivisione con altre ragazze che avevano avuto i miei stessi problemi, e così…”.
“E lui? Dove l’hai conosciuto? Sa qualcosa?” Era la prima volta che le sue labbra facevano l’arco del sorriso. Ed era un bel sorriso. Ma anche gli occhi erano diventati più dolci. Era dolce e bella quella ragazza, anche se ne aveva passate tante nella sua vita! “Una sera una delle mie amiche italiane mi invita a prendere un aperitivo e lì è arrivato lui con un suo amico.
Credimi l’ho fatto sudare sette camicie prima di accettare di frequentarlo come un possibile ragazzo che mi poteva interessare. Avevo il terrore dall’essere maschile. La paura mi era tornata ma le lacrime no. Quando uscivo con lui all’inizio e alla sera tardi capitava di passare per le strade piene di prostitute, io tremavo. Tremavo come un cane bagnato sotto la pioggia rovente. Una di quelle sere lui ha spento la macchina sotto casa e mi ha detto: “Adesso raccontami.”
E io senza una lacrima, ma con i denti che battevano facendo rumore dal tremore, gli ho raccontato tutto. Tutto, ma tutto tutto. Alla fine gli ho detto “adesso decidi tu cosa vuoi che facciamo. Io non ho nessuno in questa vita. Le persone più care sono le due suore e quella povera donna che ci ha invitato stasera.” Non c’era bisogno di chiedere cosa le avesse risposto lui. Lui era là dentro, paziente e sicuro di quello che la sua ragazza stava raccontando fuori alla perfetta sconosciuta.
Ma lui capiva meglio di me lo scopo di quel racconto. Io ero la mamma spaventata da quel mondo sconosciuto che dovevo affrontare, ma che doveva capire le fortune del proprio caso. Essere mamma, tranquilla, amata, era abbastanza per cercare di trovare la luce in quel tunnel che lei ha visto nel mio sguardo. E mi ha salvata. Ho trovato la forza in quelle parole dette da una bella ragazza, piccola di corpo, ma grande nel cuore e piena di sofferenze.
Se penso a lei dopo così tanti anni la vedo come un bell’incontro che la fortuna a volte ti mette sul piatto, e tocca a noi cogliere l’attimo e andare avanti.
Entrando nel caldo dell’ambiente piccolo e sovraccaricato dai respiri della gente, le nostre guance diventarono rosse. Il sangue aveva preso il suo percorso normale.