C’è una favola albanese secondo la quale un giorno il PadrEterno, incuriosito, decise di andare a vedere cosa ne era del mondo da Lui creato.
Grande, però, fu la sua meraviglia allorché, giunto sul nostro pianeta, si accorso che questo era diventato irriconoscibile. Alla fine il PadrEterno, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto per il triste destino del pianeta, viaggiò da un Paese all’altro in cerca di qualche traccia del mondo che ricordava.
Nulla.
Tutto era mutato.
Il tempo aveva cancellato ogni vera bellezza del passato.
Un mondo annientato.
Non sempre il mondo era stato un luogo di sola sofferenza. Vi erano stati, in epoche precedenti, esseri umani capaci di dedicare la vita ad altri esseri umani. Alcuni addirittura conoscevano la parola amore, e questo provavano per l’altro, per l’uguale. Portavano aiuto a vecchi, malati, deboli, bambini, donne o uomini che fossero, indistintamente.
Rallentavano il proprio passo per consentire a tutti di progredire, di migliorare. Bontà, si chiamava. Erano una minoranza i buoni, i giusti, ma esistevano e l’uomo li rammentava ancora: non i loro volti, svaniti nella nebbia della storia, ma i loro gesti, sì, erano incancellabili. Ora tutto ciò non esisteva più, nè sarebbe servito.
Nessun sentimento era necessario. Il sistema, le macchine, i ritmi logoranti, avevano il compito del recupero, della salvezza, della creazione del domani, del futuro, per tutti. Le città erano madri a loro modo amorevoli, tanto amorevoli da “mangiare vivo” ogni abitante, rendendolo schiavo e figlio contemporaneamente. Le città proseguivano inesorabili la loro quotidiana lotta: verticale contro il cielo, orizzontale contro la terra. Gli uomini, a gruppo, continuavano a lavorare, ovunque, come bestie ultraterrene.
Il degrado degli individui, il loro immediato sfacelo era osceno.
I più giovani camminavano dritti, guardando davanti a loro, come si punta al futuro luminoso e bugiardo, manifestando energia inesauribile, orgoglio cieco. Génération perdu. Quelli maturi, invece, avevano posture stanche, schiene curve, mani e braccia rigide. I più vecchi erano ormai completamente spaccati, fissavano le fiamme dell’inferno ad occhi aperti.
Oltreumani.
Costruire: fino a morire.
Lavorare, mangiare, lavorare, mangiare, lavorare ancora, ancora e ancora, fino a morire.
La morte è cieca.
Ma la vita no.
La vita no.
Non volendo vedere altro, senza fare rumore, quasi bloccato dal dolore, con gli occhi bagnati da lacrime amare, il PadrEterno riuscì solo a respirare tre volte, tentando di allargare i polmoni tra le zaffate di smog, poi si girò per tornare nel suo habitat naturale. Lassù l’aria era pulita di colori netti e soffusi. Lassù c’era il cielo.
Lungo il tragitto di ritorno, il PadrEterno si fermò a riposare su un litorale della penisola balcanica: l’Albania, terra delle aquile. Dolce Albania!
Tirò, finalmente, un sospiro di sollievo: “Ora mi ci raccapezzo-disse-. Questo mondo è ancora come l’ho creato io!”
La verità sull’Albania e gli Albanesi
La storiella, dai contorni di favola, ha una sua verità profonda. L’Albania è certamente il Paese europeo dove le forme di vita primitive e patriarcali più si conservano nella loro integrità anche ai nostri giorni. Gli sforzi compiuti, specialmente nel secondo dopoguerra, per dare all’Albania un volto più moderno non hanno ancora interamente modificato, nelle zone montuose dell’interno, l’aspetto tradizionale, quasi pittoresco, del Paese.
Pur cedendo dinanzi alle forze rinnovatrici, questo retraggio di istituzioni antiche ha ancora una certa importanza e contribuisce a conferire agli abitanti una fisionomia spirituale inconfondibile. Il carattere degli Albanesi assomiglia a quello del vicino popolo montenegrino: essi hanno in comune la persistenza di istituzioni talvolta primitivi, l’orgoglio, l’asprezza, l’appassionato amore per la propria indipendenza, lo spirito di solidarietà, di volontà e la capacità di aiuto.
Ai Montenegrini e ai Bosniaci gli Albanesi assomigliano anche fisicamente: sono in genere di statura superiore alla media, hanno occhi e cappelli neri, la testa piccola, la faccia allungata, il naso dritto, spesso aquilino, la bocca sottile, temperamento linfatico-muscolare. Eccellenti corridori, abilissimi alla caccia, hanno animo fiero, sono coraggiosi, magnanimi, vedi contraddizione umana, sentono più delicatamente degli altri popoli europei le offese dell’onore (si avvalgono perciò dell’antico codice, il “Kanun di Lek Dukagjini “, che regola i fenomeni di “gjakmarrje / hakmarrje” che letteralmente significa “presa del sangue”) e sono incorruttibili al denaro; taciturni, pazienti, ostinati e osservano scrupolosamente la fede giurata (“besa”).
Sono di carattere aperto, frugali e di facile contentatura, e nello stesso tempo fantastici ed immaginosi, sono insofferenti di ogni dominio domestico o di ogni politica tirannide; perciò malgrado l’arretratezza è rarissima ventura trovare un “servo” Albanese.
L’ospitalità degli Albanesi
Caro lettore, siediti, perché ancora non ti ho parlato della perla degli Albanesi: l’ospitalità (“mikpritja).
Presso gli Albanesi il culto di ospitalità è elevatissimo: l’ospite è considerato come una persona sacra, perché “la casa degli Albanesi è di Dio e dell’ospite”. Persino Lord Byron riconobbe l’immensa ospitalità del popolo albanese.
My dear mother, Ali Pacha had heard that an Englishman of rank was in his dominion and had left orders in Yanina with the Commandant to provide a house and supply me with every kind of necessary, gratis, and though I have been allowed to make presents to the slaves etc. I have not been permitted to pay for a single article of household consumption. I rode out on the vizier’s horses and saw the palaces of himself and grandsons… Lord Byron, Prevesa, November 12, 1809