Questa storia vera e al contempo, incredibile, è avvenuta come fosse in sintonia con lo stile degli anelli delle cicatrici sui tronchi degli alberi, i quali al loro interno, segnano il tempo. E spesso, il modo di raccontare una storia, diventa anche più importante della storia stessa.
Nella primavera del 1942, lui era alle prese con la preparazione della tesi di laurea in architettura e lei invece, nella stessa facoltà, iniziava il suo primo anno di studi. Il loro è stato un amore a prima vista, così come quello tra la Luna quando cala sul Golfo di Napoli, con l’impressione che una volta incontrati, lei ed il golfo, non si staccherebbero mai più l’uno dall’altra. Lo stesso mese in cui lui si è laureato, i due hanno celebrato il loro matrimonio nella chiesa di San Marco, invitando molti amici e vicini di casa.
“Reginella, Reginella!”- sembrava che tutta Napoli si unisse in un canto corale, intonando la canzone, il cui titolo portava guarda caso, lo stesso nome della ragazza, protagonista di questa storia e che sembrava addirittura presagire il suo futuro.
“Tu m’è vuluto bene a me” “Tu mi hai voluto bene”.
Reginella, una bella ragazza ventenne, a Napoli stava sposando un architetto che veniva da Scutari, dall’altra parte del mare. Lui era stato il primo amore della sua vita e stava per diventare anche suo marito. Lei non avrebbe mai potuto immaginare che proprio quella facoltà in cui il marito si era laureato a Napoli, nella sua città, si sarebbe trasformata nel maggiore incubo della loro vita.
“Col senno di poi, se avessi previsto come sarebbero andate le cose, non ti avrei lasciato terminare gli studi di architettura. Sarebbe stata forse una soluzione migliore, quella di dedicarsi alla pasticceria, come la mia famiglia!”- pensava Reginella, mentre andava a trovare il marito in quel carcere tra le montagne albanesi.
La coppia aveva lasciato l’Italia e si era trasferita a Scutari nell’autunno del 1943, nel momento storico che coincideva con la capitolazione dell’Italia fascista ed il passaggio in Albania dei nazisti tedeschi. Mentre l’Italia era venuta in Albania con l’intenzione di intrattenersi per le lunghe, la Germania si trovava lì di transito.
Loro erano una coppia così bella, che quando attraversavano il Grande Vialone di Scutari, la gente si affacciava alle finestre per contemplare il loro fascino. Lungo quel Vialone scutarino, a Reginella sembrava di trovarsi sul palcoscenico del Teatro dell’Opera di Napoli, e le finestre a cui la gente si affacciava per osservarli, le immaginava come il loggione in cui gli spettatori del Teatro si siedono per ammirare uno spettacolo, talmente tanti gli occhi puntati su di loro in quegli attimi.
Quando invece, si stava per recare in quel carcere di montagna, “Burg di montagna”, come lei lo definiva al suo modo bilingue, carica di borse a tracolla, si sentiva addosso tanti altri sguardi che la raggiungevano dalle finestre e dalle sbarre di ferro, ma quelli erano ormai sguardi diversi, erano sguardi spenti, di persone a cui la vita stessa si era spenta come la fiamma di una candela.
A Scutari, questa coppia felice e innamorata, che aveva da poco lasciato l’Italia, paese in cui l’architetto si era laureato, nel suo piccolo, regalava attimi di serenità e pace, che in un certo modo, contribuivano ad abbattere la tristezza che la Seconda Guerra Mondiale aveva causato e le perplessità che il futuro incerto incuteva.
Mark, questo talentuoso architetto, a G’juhadol, Scutari, aveva fatto abbattere la vecchia abitazione dei suoi e sulle sue fondamenta ne aveva fatto costruire una nuova, sotto gli occhi della sua amata che seguiva felice i lavori. Gli elementi napoletani, accostati a quelli scutarini, donavano una gioiosa immagine al nuovo nido d’amore.
Quando la villetta di due piani aveva terminato i lavori di costruzione, nel 1944, era nato il loro primogenito, Jozef (Giuseppe), il quale aveva preso il nome del nonno materno, il padre di Reginella. Il suo battesimo aveva avuto luogo nella grande Cattedrale di Scutari, in una domenica di settembre, tempo in cui l’acqua del Lago era ancora tiepida e sembrava che estendesse la sua benedizione su tutti gli abitanti della città.
Invece, il giorno in cui la Cattedrale della città era stata chiusa e le opere di Kol Idromeno, un Da Vinci albanese, erano state caricate e trascinate via con dei carri, Reginella aveva visto il marmo del fonte battesimale coprirsi di sangue di persone innocenti, e aveva capito che in Albania erano giunti tempi crudeli ed una terribile dimensione umana.
Il suo amore, tuttavia non ha avuto timore e, sul cerchio stretto della vita, lei ha disegnato e sovrapposto un altro ben più ampio, che era quello che le insegnava l’amore stesso.
Il giorno in cui i comunisti avevano preso il potere, avevano chiamato tutti gli intellettuali, coloro che avevano conseguito gli studi laureandosi all’estero e Mark si era presentato entusiasta nel poter offrire il suo sapere e la sua preparazione alla ricostruzione del futuro paese in modo democratico, così come veniva definito.
Da qui era arrivata invece la grande delusione, in quanto tutti coloro che si erano laureati all’estero, vennero etichettati come nemici del paese, vennero caricati su delle auto militari, sotto la custodia di partigiani armati fino ai denti e mandati in una prigione sconosciuta nelle paludi del Sud.
L’incredulità di Reginella per il grave e triste accaduto, non riusciva a trovare spiegazioni diversamente, se non in un parlottio della gente che associava la persecuzione degli intellettuali albanesi laureati all’estero, ad un vero e proprio accanimento nei loro confronti da parte dei comunisti al potere, per il motivo che coloro come Hoxha e Shehu, gli studi in Occidente, probabilmente li avevano già intrapresi pure loro stessi ma, mai li avevano portati a termine, a differenza di quelli come Mark, l’architetto e tanti altri, che all’estero si erano laureati e con buoni risultati.
Trascorso un anno, Reginella era riuscita ad incontrare l’amato marito che da carcerato, lavorava in un campo di lavoro forzato. Con le lacrime agli occhi, Mark la aveva supplicato che lei andasse per sempre a Napoli con il bambino.
“In Italia è arrivata la democrazia, in Albania invece si sta instaurando la dittatura, una dittatura ancora più sanguinosa del fascismo!” – aveva detto Mark a Reginella.
Lui che, stava scontando una pena per l’unica “colpa”: quella di essersi stato laureato in architettura in Italia.
Ma lei, gli regalava solo dei sorrisi. E lui, nella sua grande disperazione, non riusciva a realizzare fino a che punto arrivasse l’amore di questa donna napoletana, sua moglie, quanto forte fosse questo amore!
“Il nostro amore, a quanto pare, è fin qui che era destinato a vivere, è inutile sfidare ulteriormente la sorte!”- aveva detto Mark a Reginella, l’architetto che ormai era incaricato a progettare canali di irrigazione, intanto che scontava la pena e che per l’amore non poteva più trovare uno spazio nella sua vita.
Lei, non solo non era partita, ma si era fermata invece lì nel campo, essendo riuscita ad ottenere un permesso speciale. Come frutto di questa sua permanenza accanto al marito, era arrivato il loro secondogenito, Mario. Lo avevano chiamato così, ispirandosi al nome di sua madre a Napoli, Maria. Era stato l’amore stesso di Reginella a fare la scelta di rimanere in Albania, nonostante la decisione del Tribunale di Tirana di condannare Mark Kelmendi a dieci anni di reclusione con l’accusa di “agitazione e propaganda” contro il sistema al potere.
Il primo piano della loro abitazione, Reginella lo aveva fatto trasformare in una Pasticceria. Ogni mattina si alzava presto per preparare i dolci, per i quali cercava di conservare le ricette napoletane e riempiva il quartiere di buoni profumi e aromi, che sembravano arrivare dalla sua lontana Napoli. Per ogni occasione di festa o eventi, gli abitanti della città si rivolgevano alla sua pasticceria per procurarsi i dolci e le paste.
“Quando un amore intende sopravvivere, si fa strada da sé!”, – diceva lei.
La terza dei figli è stata una femminuccia, la avevano chiamata Francesca, in onore di San Francesco D’Assisi e il quarto, un maschietto di nome Gennaro, come il Santo Patrono dei miracoli di Napoli. Tutti i figli li avevano concepiti nel campo di internamento quando lei andava a trovare il marito, mentre si fermava compromettendo le guardie, offrendo loro delle monete di oro albanesi.
Nel 1956, Mark aveva già scontato la sua condanna di dieci anni. Ma, invece di uscire da quell’inferno e unirsi alla sua famiglia, alla sua pena vennero aggiunti altri dieci anni di reclusione con motivazione: “Infrazione delle norme carcerarie“, anche se, al contrario, lui si era sempre comportato adeguatamente ed era stato cortese con tutti.
La sfida della vita sotto dittatura, Reginella la affrontò con la fermezza da napoletana verace e la guardò dritto negli occhi, disegnando sempre dei cerchi più grandi di amore, superando così quel anello stretto di odio.
Nei sei anni a seguire, l’amore fece loro il dono di altri tre figli: Antonio, Luigi e Paola, vennero alla luce. Ormai lei usciva nel Grande Vialone di Scutari con i suoi sette figli, che alimentava con i prodotti della sua pasticceria, come se volesse contribuire a mantenere viva una città nel periodo della sua disperazione più grande.
I figli crescevano, ma non riuscivano a comprendere il perché della carcerazione del padre, per l’unica “colpa” di aver conseguito gli studi in Italia, a Napoli, la città di origine della loro madre e loro, al contempo, il papà non lo conoscevano affatto… L’ironia della sorte, sotto dittatura, si accentuava ancora di più, nel momento in cui a loro non venivano concesse le borse di studio per il conseguimento degli studi, per il motivo banale, “il torto” di loro padre, di aver conseguito gli studi all’estero e per aver ottenuto una formazione ed una cultura tale che, il regime attuale guardava con diffidenza o che con cui, era in contraddizione. Cosa che aveva costituito il motivo paradossale della sua carcerazione.
Gli anni avanzavano e Reginella si chiudeva sempre più in se stessa. Stava diventando come una pianta di rose che appassisce, ma che i fiori continua a produrli sempre belli e rigogliosi.
All’avvicinarsi della data precisa del consueto colloquio semestrale con il suo amato marito rinchiuso in carcere, lei ormai iniziava ad avvertire una grande trepidazione. Era come la sensazione che prova il corpo di un ammalato, in attesa dei suoi sedativi. Ormai era totalmente dipendente dell’amore di colui, che stava scontando una pena assurda, ingiusta, solo per aver conseguito gli studi nella sua città natale, Napoli.
Reginella si era mostrata determinata a sfidare un’intera dittatura dalla posizione di una madre di tanti figli, e alle richieste che volgeva allo stato ed al partito per la liberazione del marito ed il suo ritorno al loro focolare, da madre di sette figli, lei associava sempre un attitudine di civiltà e mai una di pietà.
Prima ancora di terminare la sua condanna di venti anni di reclusione, Mark morì in carcere in circostanze mai rese note. Come se ciò non bastasse, nemmeno la sua salma venne concessa alla famiglia, secondo le normative vigenti che dettavano che un prigioniero, anche da morto, appartiene alla casa circondariale, negandogli in questo modo, anche il diritto alla sepoltura.
Reginella aveva superato da poco i suoi quarant’anni. Decise di portare il lutto, si coprì il capo di un velo nero, il quale non lo tolse più fino alla fine dei suoi giorni.
Il suo cuore veniva colmato dell’amore dei figli, i quali assomigliavano tutti al loro padre, il suo amato Mark, che loro avevano conosciuto solo per poco oppure di passaggio nella loro vita.
Il suo corpo esile ed elegante, come quello di una sirena napoletana, pian piano perdeva le proprie belle forme, un po’ per il passare del tempo e per le sofferenze subite, e un po’ per il lavoro in pasticceria con i dolci, allontanando anche le insidie della sua bellezza dagli sguardi maschili della città.
Quando le chiedevano di Napoli, lei rispondeva che Napoli per lei era come una goccia di lacrima che non si sarebbe mai allontanata dai suoi occhi.
I suoi figli erano cresciuti con il bilinguismo in famiglia, con una parlata peculiare, in cui l’italiano di Dante e l’albanese di Fishta, mescolandosi tra di loro armoniosamente, riempivano le stanze di casa di vitalità ed aria pulita. Lei stessa parlava una leggera shkodranishte, la parlata locale di Scutari, mescolata con il suo accento vernacolare del napoletano, da trasmettere una tale tenerezza e di imporre simpatia anche al più insensibile del mondo che la scorgeva casualmente e che la sentiva mentre parlava.
Nel 1993, all’arrivo della democrazia, Papa Giovanni Paolo II, fu il primo nella storia di Roma a visitare l’Albania e precisamente, Scutari.
In quel periodo, Reginella compiva 70 anni, di cui, ben 50 trascorsi in Albania.
Lo stesso anno, lei e i figli, dopo aver pagato una consistente somma di denaro alle ex-guardie carcerarie – ormai anziani pure loro – che erano state in servizio ai tempi in cui il marito di Reginella era stato recluso, vennero a sapere da loro il luogo esatto dove riposavano i resti del suo povero marito che era morto in carcere.
Fecero l’esumazione della salma e la sua nuova collocazione fu questa volta Rrmaj, il Cimitero Cattolico di Scutari.
Reginella, dal momento in cui il marito aveva avuto una degna sepoltura, ogni giorno lo andava a salutare, a portargli dei fiori freschi e delle focacce appena sfornate, come se volesse dimostrare lui che stesse cercando di recuperare tutto il tempo perso, quando era impossibilitata a portargli da mangiare nelle celle fredde in quell’inferno dove lui si trovava tempo fa.
Era una domenica di “Rrshajet”, in scutarino, e che lei in italiano chiamava “Pentecoste”.
Intorno a mezzogiorno Reginella si era avviata verso la Cattedrale della città e dopo la messa per il marito defunto, non aveva fatto ritorno a casa. Si erano messi alla sua ricerca e la avevano trovata al cimitero, appoggiata alla foto sulla tomba del suo amato marito. Il suo cuore si era fermato lì, accanto a lui.
Li seppellirono insieme. Lei fu sepolta insieme all’unico amore della sua vita, che sfortunatamente, in vita sua aveva potuto viverlo così poco.
I figli, che nel frattempo si erano trasferiti tutti in Italia, vennero a Scutari solo per la cerimonia funebre della madre e tornarono indietro subito dopo.
In Albania, quel luogo in cui il loro padre aveva passato una vita intera in carcere – solo perché si era laureato in Occidente – e la loro madre si era ridotta al limite della pazzia, solo perché inseguiva un grande amore, loro non intendevano vivere più!
“In questo paese – dicono loro – il male non si sconfiggerebbe mai interamente, se non venisse completamente sradicato!”
Oggi, i figli della coppia, fanno ritorno solo di rado a Scutari, in occasione di anniversari di morte dei genitori oppure chiedono la cortesia di qualcuno, compensandoli, di portare sempre dei fiori freschi sulla loro tomba di famiglia.
Loro hanno fatto ritorno nella terra di loro madre, a Napoli e lei, si è fermata a vivere in eterno con il suo amore, nel paese del suo amato, a Scutari.
Alla fine, ognuno ha scelto di vivere nel posto, in cui il proprio cuore ha deciso.
Solo l’amore ha la capacità di conservare intatte tutte le nostre storie, così come un albero segna accuratamente il tempo, attraverso i cerchi all’interno del suo tronco.
Vienna, 2018
Il testo originale è stato scritto dall’autore Gjergj Jozef Kola, nella parlata dialettale di Scutari .
Tradotto in italiano da Adela Kolea.