A parte che nella pubblicità (brutta) di una casa di telefonia con un pallone calciato per le piazze italiane, frutto di effetti speciali, le piazze italiane sembrano luoghi preclusi ad una vita diversa dal puro consumo. I bambini che vogliono giocare a pallone non lo fanno più per strada, ma solo nel campo recintato della squadra in cui il papà li ha iscritti. In giro non si vedono più bambini giocare, e si vedono pochi bambini in generale. La piazza è diventata un luogo triste e deserto, a cui, oramai, si preferisce un giro nei corridoi di un centro commerciale. Ma questo, forse, è conseguenza del mondo in cui viviamo, e forse è ovunque la nuova normalità. Mi sono accorto però – per caso un pomeriggio mentre badavo a mio nipote, il quale voleva riprendere la partita del sabato precedente con gli amici – che ci sono dei luoghi in cui si sentono ancora urla di un goal, dove ci sono ancora bimbi a litigare per un rigore da tirare, o che si dividono le squadre in base alle preferenze del tifo, spesso juventini e anti-juventini, come è giusto che sia.
Ho scoperto che i giardini pubblici e i parchi, della piccola e provinciale (ma ricca e presuntuosa) città del nord Italia dove abito, sono il luoghi più vivi da questo punto di vista. Un mondo di vite che si estende in quei luoghi che assomigliano alle «piazze d’Italia» di una volta. Si tratta, è vero, di un mondo italiano, ma spesso tristemente senza italiani, o meglio non di quelli con “pedigree” – per usare un linguaggio che va di moda ultimamente. La maggior parte dei parchi in Italia oggi è animata dalle voci e dall’esuberanza di quelli che qualche politico italiano non “di razza” e poco avveduto chiamerebbe ancora, in modo sprezzante, «stranieri» o figli di stranieri. Osservavo, quel pomeriggio, questi bambini che parlano nelle loro lingue con i genitori e gli amici della stessa provenienza, ma, con tutti gli altri, comunicano senza nessuna inflessione nella lingua di Dante. A tradire la loro provenienza sono i nomi, o i genitori dall’italiano alquanto zoppicante e dai vestiti dimessi o dai colori sgargianti della povertà. Le squadre che si incontrano su quel campo senza linee sembrano quelle piene di nomi stranieri molto simili a quelli a cui gli ultras, spesso filofascisti, della mia città inneggiano, idolatrando sempre dei ragazzi «stranieri», sì, ma pagati a peso d’oro. E siamo al paradosso, che degli operai nelle fabbriche del Nordest, o gente che si arrabatta coi mille e poco più di euro al mese, adorino i calciatori stranieri, spesso africani, della loro squadra che guadagnano milioni, ma disprezzano i figli dei migranti che condividono la stessa vita cittadina e forse la povertà. Ma si sa, il razzismo non è che soltanto una forma di classismo e spesso serve proprio come antidoto alla lotta di classe.
Così, allo stesso modo di molte squadre della serie A e precisamente di quella della città in cui abito, gli italiani nei parchi e nei giardini non sono che una minoranza, non perché rispettano proporzionalmente le statistiche, ma perché questi non sono luoghi dove l’italiano di oggi porta i figli. Ci sono gli stranieri, ci sono i figli dei profughi. Così si lamentava una consigliera della lega l’anno scorso: “I nostri figli sono costretti a guardarli mentre colonializzano le nostre altalene e occupano i nostri scivoli, pagati con le nostre tasse o con il condono delle nostre tasse. E quando se ne vanno dobbiamo pure passare una buona mezz’ora a disinfettare tutto per evitare che prendano qualcosa”. Mentre queste idiozie, addirittura perseguibili dalla legge perché dichiaratamente razziste e da apartheid, continuano ad impedire una piena integrazione, è invece l’assenza degli italiani e dei loro figli da questi luoghi di aggregazione a far riflettere. La famosa classe media-popolare degli italiani pare che cresca i figli all’interno di un mondo fatto di schermi che assomigliano a barriere, come luoghi di protezione e proiezione autoreferenziale. Quei pochi genitori che accompagnano i figli in questo universo degli «altri», in cui misurarsi alla pari nel mondo di fuori, sembrano appartenere ad una sola classe sociale, la borghesia intellettuale e alternativa, composta da “privilegiati” con una spiccata attitudine (e a differenza a quanto si dice, non sempre a parole ma anche nei fatti) non solo alla tolleranza ma alla convivenza con l’«altro» o il diverso.
L’assenza della maggioranza degli italiani e i loro figli da questo mondo nuovo è un cattivo presagio sulla situazione del paese che troveremo negli anni a venire. Una certa politica populista, con la strategia della diffidenza e i suoi intenti divisori, si renderà responsabile della creazione di fratture nuove – non più solo politiche ma soprattutto sociali e culturali – nel paese, che finiranno immancabilmente per danneggiare il futuro e riempire oltremodo di astio la maggioranza “popolare” dei suoi abitanti.