Intervista con Cécile Kyenge Kashetu, coordinatrice nazionale del Movimento Primo Marzo sulla seconda edizione della “giornata senza immigrati” e la partecipazione politica dei cittadini migranti.
Diritto al lavoro, diritti nel lavoro e orgoglio di una nuova cittadinanza fondata sulla mixitée, le tre parole d’ordine del Primo Marzo 2011, lo sciopero degli “stranieri”. E non è stato scelto a caso il lavoro come tema unificante della “giornata senza immigrati” di quest’anno. Complici la crisi economica e la normativa sull’immigrazione, il migrante si trova in cerchio vizioso: se perde il lavoro rischia di commettere un reato ed essere espulso dall’Italia. È dal 2002 che il contratto di soggiorno condiziona la quotidianità dei migranti. Non fa altro che legare il soggiorno regolare in Italia al contratto di lavoro. E perdere il lavoro significa rischiare di diventare irregolare, perché alla scadenza del permesso di soggiorno si hanno 6 mesi di tempo per trovarne un altro, altrimenti si viene espulso e dall’anno scorso anche di finire in carcere grazie al reato di clandestinità introdotto con il pacchetto sicurezza. Cécile Kyenge Kashetu, coordinatrice nazionale del Movimento Primo Marzo, invita tutti i sindacati, in primis quelli che hanno aderito allo sciopero, di attivarsi “per avere una grande mobilitazione il primo marzo prossimo”. L’anno scorso hanno partecipato in 300.000 tra autoctoni e migranti e il Movimento punta soprattutto sulla partecipazione dei migranti. “È una giornata senza di noi nei luoghi in cui contiamo, ma ci troviamo lo stesso in piazza. Quindi con noi e senza di noi”, ribadisce Cécile. E i migranti devono essere protagonisti: “il Primo Marzo se ha avuto successo e continuiamo a farlo è perché vogliamo dare voce a loro. Quindi non è solo per i migranti ma è anche con i migranti in primo piano”. Ma la partecipazione non si può limitare al Primo Marzo e nei altri 364 giorni, dice Cécile, i migranti devono essere presenti ovunque. Invece, chi ha avuto l’opportunità di acquisire la cittadinanza, ha la possibilità di partecipare in politica, e chi è già impegnato, non può “vivere di egoismo”, perché solo “con le lotte si possono ottenere il diritto di cittadinanza e di voto” e in questo modo “si riesce a dare un’opportunità anche agli altri”.
E lei lo fa già. Medico oculista di origine congolese, arrivata in Italia nel 1983, è impegnata con il PD su vari livelli: consigliere provinciale a Modena, responsabile provinciale del Forum della Cooperazione Internazionale ed immigrazione e responsabile delle politiche dell’immigrazione nel direttivo regionale dell’Emilia Romagna. Si è unita al Movimento Primo Marzo per portare avanti le lotte sui diritti dei migranti e continua a difendere la sua posizione anche all’interno del partito. Battaglia che per lei donna, nera, migrante, non è per niente facile, ma è determinata in ciò che crede.
Diritto al lavoro e diritti nel lavoro, sono due delle tre parole d’ordine dello sciopero del Primo Marzo che dovrebbe prevedere in primo luogo l’astensione dal lavoro. È un modo per attirare di più i sindacati che l’anno scorso hanno avuto una posizione ambigua per quanto riguarda la loro adesione?
No, non è un modo per attirare i sindacati. Lo abbiamo scelto come strumento di protesta per far capire il peso dei migranti nella società italiana. Per cui non cerchiamo di attirare i sindacati, piuttosto poniamo dei problemi davanti a loro. Lo dimostra il fatto stesso che noi scendiamo in piazza e che molti migranti decidono di aderire anche facendo degli scioperi individuali. È chiaro che non possiamo dichiarare lo sciopero generale come quello indetto dai sindacati, ma possiamo avvalerci di quello individuale che è un diritto costituzionale. In più il nostro invito è quello di chiedere ai sindacati che aderiscono alla nostra protesta di accompagnarci per arrivare a una grande mobilitazione il primo marzo prossimo. Ma la nostra mission, il nostro scopo è quello di far sentire più forte la voce dei migranti e chi aderisce ben venga. L’anno scorso, i sindacati in alcune aree hanno deciso di indire lo sciopero a livello di azienda se veniva richiesto dai lavoratori e comunque in tutto i casi tutelavano il diritto allo sciopero anche a livello individuale. Quest’anno gli sindacati come si stanno muovendo nei confronti del Primo Marzo?
Mancano ancora alcuni giorni da cui al primo marzo, per cui credo che fanno ancora in tempo ad aderire. Un segnale positivo arriva dalla Fiom che ha aderito a livello nazionale e ha chiesto alle sue unità di base sui territori di attivarsi per arrivare alla mobilitazione di più lavoratori. Per quanto riguarda gli altri sindacati, non abbiamo ancora segnali ben precisi. Credo che non sarò io a giustificarli con le difficoltà che possono avere con il periodo di crisi economica per quanto riguarda il lavoro. Il migrante è iscritto ai sindacati come ogni cittadino italiano, per cui quello che chiediamo è un’attenzione particolare anche quando si fanno le lotte per i diritti dei lavoratori. È chiaro che si può dichiarare una giornata di sciopero generale dai sindacati, dicendo che è una giornata per il lavoro, ma sappiamo allo stesso tempo che i lavoratori italiani e quelli migranti non hanno lo stesso tipo di contratto. E in più il lavoratore migrante è penalizzato perché una volta che perde il lavoro ha sei mesi di tempo per trovare un altro per rinnovare il permesso di soggiorno. Questo non capito ad un lavoratore italiano. Quindi un cittadino migrante diventa colpevole di trovarsi in una situazione economica non adeguata. Ed è anticostituzionale perché nemmeno la costituzione lo richiede. Per cui i sindacati dovrebbero porre più attenzione alla situazione dei migranti e non uscire fuori con la questione dello sciopero etnico perché non lo è affatto. Là dove si attaccano i diritti della persona, si indebolisce la cittadinanza di tutti. La terza parola d’ordine per il Primo Marzo prossimo riguarda la dignità e l’orgoglio di una nuova cittadinanza. Cosa significa?
L’abbiamo chiamato anche mixitée, una parola che vuole far capire il fatto di una nuova cittadinanza in cui prima di tutto vengono applicati e rispettati i principi di base, quindi i diritti fondamentali delle persone. In questo momento, le leggi sull’immigrazione in Italia non rispettano e non mettono al centro la persona a partire dalla legge Bossi – Fini e dal pacchetto sicurezza in cui il migrante è colpevolizzato in continuazione. Sembra quasi che sia lui il responsabile della crisi economica, quando di fatto non lo è. L’orgoglio di una nuova cittadinanza vuol dire anche un paese dove tutti noi ci possiamo sentire orgogliosi di condividere i valori della nostra cultura con altre culture. Dove ognuno di noi mantiene la sua identità e la diversità diventa una ricchezza e dove non si deve cercare per forza di appiattire tutti, cercando di costringere le persone a dimenticare la loro cultura. Per quanto riguarda il mixitée, in sostanza si tratta di costruire anche uno spazio condiviso nella sfera pubblica in cui tutti in un certo modo cediamo a qualcosa per un obiettivo comune?
Esatto, senza rinunciare alla propria cultura. Tengo a precisarlo. È scritto anche in diversi libri di psicologia ma anche in alcuni metodi di lavoro di non rinunciare mai alla propria lingua madre. Impoverisce anche psicologicamente da un punto di vista identitario. Per cui condividere gli spazi, lo ripeto ancora, non è un appiattimento, ma vuol dire io metto in comune le mie cose con quelle degli altri, condividendole ma mantenendo le mie usanze.
L’anno scorso, ad esclusione di alcune città con una tradizione nella partecipazione dei migranti, si è avuto l’impressione che più di uno sciopero e manifestazione di migranti, si trattasse di uno sciopero e una manifestazione per i migranti. Quest’anno come sarà?
Noi puntiamo sulla partecipazione dei migranti. È una giornata senza di noi nei luoghi in cui contiamo, ma ci troviamo lo stesso in pi
azza. Quindi con noi e senza di noi. Questo è importante perché la partecipazione dei migranti non significa finire in secondo piano, ma essere protagonisti. Credo che la giornata del Primo Marzo se ha avuto successo e continuiamo a farlo è perché vogliamo dare voce ai migranti. Quindi non è solo per i migranti ma è anche con i migranti in primo piano. Sembra che bisogna trovare il modo per consapevolizzare i migranti non solo a partecipare in questo movimento ma anche nella vita pubblica e sociale. Come riuscirci?
Questa è la sfida. È chiaro che per ognuno di noi il primo marzo è una giornata, poi ne abbiamo altre 364. Ecco, in quei 364 giorni, il messaggio è quello di dire: noi migranti dobbiamo essere presenti ovunque. Una persona deve essere libera di scegliere e stabilirsi dove vuole vivere. È una delle leggi che non viene mai rispettata e attaccata in continuazione. È anche uno degli articoli della Carta europea che richiama proprio la libera circolazione, non osservato da tantissimi paesi. Dall’altra parte, penso che se noi decidiamo di stabilirci in un luogo, dobbiamo cercare di capire come funziona il meccanismo di quel paese e di porre le basi per nuove politiche in futuro, non tanto per noi, ma per i nostri figli. Perché se non li tracciamo la strada, si troveranno maggiormente in difficoltà. Ma se lo facciamo, avremmo il coraggio di guardare i nostri figli negli occhi. Tirarsi indietro, vuol dire vivere un po’ di egoismo. Faccio il mio esempio. Sono libera professionista, faccio il medico, l’oculista, e ho deciso di impegnarmi in altri settori anche se non sono retribuita. Potrei benissimo stare in casa mia e dire non mi impegno perché il mio lavoro mi paga benissimo. Invece, ho deciso che vivere bene, non vuol dire solo economia. Vivere bene vuol dire anche star bene in un paese, condividere i suoi valori, ma rimanere allo stesso tempo con i miei valori e preparare la strada per i miei figli. Si nota una sorta di frustrazione da parte di giovani e adulti, cittadini di origine straniera o nati in Italia. In un certo senso, la loro voce non viene ascoltata dalla società e la politica, nonostante abbiano le competenze e le capacità, partecipino attivamente oppure abbiano voglia di partecipare.
C’è un po’ una carenza su questo versante, perché non basta solo la buona volontà per partecipare. Insomma, non basta solo il fatto che uno debba volere, ma bisogna che il paese gli offra anche spazi e strumenti per partecipare. Molte persone che sono nate e cresciute in Italia, se per caso non hanno la fortuna di avere la cittadinanza, sono un po’ esclusi da tanti spazi. Non puoi partecipare al voto, non puoi impegnarti al 100% in politica. Ci sono molti aspetti che praticamente fanno sì che tu sei italiana, ma sei tagliata fuori. Quando arrivi a 18 anni, ti rendi conto che sei diversa dai tuoi compagni e sei straniera perché devi fare la fila davanti alla questura. Per esempio, i miei nipoti quando è arrivato il momento di fare la gita in Irlanda, non ci potevano andare perché ci vogliono mesi e mesi prima che ti diano il visto, e poi bisogna vedere se te la danno. Quindi è un po’ far vivere alle persone una specie di frustrazione. Io chiedo a chi è già impegnato e ha già avuto qualche cosa di non vivere egoisticamente. È soltanto con le lotte che si possono ottenere il diritto di cittadinanza e il diritto di voto. Con queste battaglie si riesce a dare un’opportunità anche agli altri.
Si tratta di lavorare molto con la società e la politica italiana per creare gli spazi e consapevolizzarle dell’importanza del coinvolgimento dei cittadini di origine straniera e nati in Italia.
Infatti è proprio qui il punto. Trovo sprecato chi vive in Italia e ha avuto l’opportunità di avere la cittadinanza e altri privilegi, ma non riesce a mettere a frutto per il beneficio degli altri. In questo momento c’è ne bisogno. Si ha la possibilità di fare politica e partecipare. E facendo politica si possono cambiare le cose all’interno stesso del partito. È facile combattere dal di fuori, ma è difficile farlo quando si è dentro. Penso che un passo avanti si fa quando uno prende coscienza che per difendere i suoi diritti deve entrare nel sistema. Se sono fuori posso dire quello che voglio e possono anche non ascoltarmi. Ma se sono dentro ho tutti i diritti e loro mi ascoltano. La politica italiana non sembra interessata alla partecipazione dei migranti. Lo dimostra il fatto che nelle ultime amministrative non abbiano coinvolto affatto i cittadini comunitari che hanno il diritto di voto nelle amministrative. Eppure nel mercato del voto locale, considerato i numeri, farebbero gola a chiunque.
Sì, ma un po’ è per mancanza di informazioni. Se noi non siamo lì presenti, tante volte si danno delle cose per scontate e magari non si conoscono tanto bene gli meccanismi. Inoltre, c’è sempre la paura di non sapere da che parte vanno a votare quegli elettori. Sono due lati che da migrante all’interno di un sistema politico devo far presente per rispettare i diritti di quelle persone, qualunque sia la direzione che prendono. Non perché io porto avanti una battaglia sul diritto di voto, quelle persone alla fine devono votare me. Io ti dico che devi pretendere il tuo diritto, e poi votare chi vuoi. Credo che l’immigrazione è un terreno trasversale e i migranti non devono fare la guerra tra loro, altrimenti è una battaglia persa in partenza. Il migrante deve cercare di fare leva sulla missione di difendere i diritti delle persone e collaborare in modo trasversale. Per me è anche il motivo che mi ha fatto scendere nella Rete Primo Marzo perché io faccio parte di un partito, il PD, in cui ho anche una posizione che mi permette di dire: bene io posso fare questa campagna. Ma fare politica vuol dire anche confondersi con le persone, capire cosa esce da loro e interpretare le esigenze. Scendere in mezzo alle persone, mi da anche la possibilità di scambiare con chi ideologicamente la pensa in un modo diverso, ma ci mettiamo d’accordo. Io ho una piattaforma sull’immigrazione la facciamo anche se abbiamo idee diverse, unendo le nostre forze per la nostra battaglia.
La piattaforma politica del Movimento Primo Marzo, nel corso di un anno si sarà consolidata. In sintesi quali sono i suoi punti principali?
I punti principali della piattaforma dipendono sempre da territorio a territorio. Perché la Rete Primo Marzo non è un’associazione ma un contenitore. È quasi un’esperienza di partecipazione che arricchisce molto e ti mette alla prova tutti i giorni. Perché non ha una logica partitica, ma siamo tutti uguali. I punti più importanti che sono usciti in molti territori sono quelli di una revisione della legge Bossi-Fini, che è anti costituzionale, e se fosse per me, andrebbe anche abrogata. Poi, del pacchetto sicurezza perché il reato di clandestinità non fa onore a chi deve preparare delle leggi, basandosi anche sulle convenzioni firmate dall’Italia e ignorate come ad esempio quella di Ginevra. Questi due punti sono fondamentali. Poi c’è anche la permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione dove tutti i giorni vengono calpestati i diritti delle persone ma nessuno ne parla: ne viene fuori una volta ogni tantum quando si verifica un caso eclatante. Nessuno parla delle violenze psicologiche che subiscono le donne e degli abusi che subiscono le persone all’interno di questi centri. C’è anche il diritto di voto e quello di cittadinanza. Poi, secondo i territori ci sono tematiche che possono essere emergenziali, come la “sanatoria truffa”. Il permesso di soggiorno a punti è un altro tema. Sono temi che escono fuori perché ci troviamo in un clima propagandistico dove ogni spot va bene, basta che sia fatto sulla pelle dei migranti.
Ho letto che per quanto riguarda il diritto di voto avete scelto un periodo di permanenza di 5 anni che non discosta molto da quel
li dei partiti politici più aperti. Non è un po’ troppo cinque anni?
Noi non abbiamo ancora scelto come Piattaforma della Rete Primo Marzo. Siamo per il diritto di voto amministrativo. Il fatto dei cinque anni viene proposto in parlamento dai partiti. Non c’è una proposta di legge fatta dalla Rete Primo Marzo. Noi abbiamo questo punto all’ordine del giorno però non abbiamo ancora proposte concrete. Per quanto mi riguarda, fuori dal Primo Marzo, credo che cinque anni sono giusti. Per un motivo: andare alle elezioni amministrative vuol dire anche fare un percorso che la persona deve capire. Poi per quanto riguarda i comunitari, loro possono votare.
I comunitari possono votare se lo richiedono dal momento di iscrizione anagrafica, invece i non comunitari devono aspettare 5 anni. Non è un controsenso?È una contraddizione per quanto riguarda la legge. Infatti, per quello che ho detto che noi come Primo Marzo non abbiamo ancora fatto nessuna proposta. Perché se è stata varata la Convenzione di Strasburgo che prevede anche il diritto di voto, è a quella che bisogna rifarsi per pretenderlo. Tuttavia, già in quella convenzione sono stati molto lungimiranti. Perché è vero che l’articolo 6 del Capitolo C parla di un periodo di permanenza di 5 anni, però quello successivo dice che ogni stato può scegliere di adottare un periodo inferiore di residenza per concedere il diritto di voto.
Esattamente. Come Rete Primo marzo penso che dobbiamo puntare a quello e siamo liberi di proporre e di guardare le cose che vanno oltre le leggi italiane. Io sono tornata da pochi giorni da Dakar dove è stata approvata la Carta mondiale dei migranti e il moto era proprio quello della libera circolazione. Dove ognuno può scegliere dove stabilirsi, dove le leggi non devono più riguardare il paese d’origine della persona ma il luogo in cui cerca di stabilirsi. Lei ha partecipato personalmente e anche il Coordinamento nazionale del Primo Marzo ha contributo alla stesura del testo della Carta mondiale dei migranti, firmata all’isola di Gorée in Senegal. Era necessaria scrivere un’altra carta quando già esistono convenzioni internazionali e basterebbe farle ratificare per ottenere gli stessi risultati di questa Carta?È anche uno dei punti su cui abbiamo discusso molto a Gorée. Invece, ha proprio senso questa Carta perché tutte le convenzioni sono state scritte da istituzioni e dagli stati. Nessuno ha mai chiesto quali fossero le esigenze di una persona migrante. Quindi noi abbiamo pensato di scrivere la Carta per un’esperienza che parte dalla persona. L’intento di farlo attraverso lo strumento della scrittura collettiva, è proprio quella di mettere in campo l’esperienza di una persona migrante. A volte molte convenzioni vengono scritte da persone che non sanno neanche cosa significhi l’immigrazione. E noi abbiamo voluto proprio dare questo come segno.
Qualche domanda sulla sua esperienza personale in politica. È difficile per un cittadino non autoctono fare politica?
Sì, è molto difficile perché ti ritrovi sempre a dover dare il massimo e a combattere che non ti vengano attribuiti dei ruoli “tanto per…”. Del tipo “abbiamo bisogno di un immigrato per riempire quel posto”, “abbiamo bisogno degli immigrati per far vedere che è un partito aperto”. Bisogna avere le idee chiare e soprattutto essere determinata. Non è facile perché il rischio è sempre quello che magari gli altri ti guardano come se tu occupassi quel posto così tanto per occuparlo. Quindi devi sempre dimostrare il doppio di quello che fanno gli altri. In più, non è detto che tutti nel partito la pensino come te, oppure che condividano il fatto che tu migrante possa occupare un posto di responsabilità. Non è facile, sono delle scommesse che uno deve fare tutti i giorni. L’unica alternativa è di partecipare a tutto campo, facendo vedere le nostre capacità e professionalità. Aggiungendo alla differenza di origine anche quella di genere, cosa viene fuori?Viene fuori che sei non doppiamente ma triplamente discriminata. Magari puoi anche non farci caso, ma la cosa migliore è proprio quella di fare un orecchio sordo. Io punto dritto dove voglio andare e non vedo nessuno. Tu puoi anche dire quello che vuoi, puoi dire che io sono donna e non ho accesso a un qualsiasi cosa, ma se devo bussare a quella porta, ci vado. Ho sempre pensato che chi mi fa la guerra, ha già perso in partenza. Per cui vado dritto e non guardo né il fatto che sono immigrata e né il fatto che sono donna, ma che se io quella cosa la posso fare, punto i piedi.
Differenza di origine, genere ma anche di colore. Lo rende ancora più difficile?
Lo rende difficile non solo in politica ma ovunque. Anche qui in ambulatorio. Attualmente dopo tanti anni vedo che molti pazienti entrano e si fanno visitare facilmente però se mi arriva un paziente riluttante, gli dico che ho il tempo contato e devo fare altre visite. Mi tocca dirgli: se lei non vuole essere visitata da me, ci guadagno in salute io e ci guadagna anche lei. Non ho tempo veramente da perdere. Perché quello che devo evitare è che l’altra persona possa farmi credere che sono io colpevole, e di fatto non lo sono. Invece legato a tutte queste differenze, come si costruiscono poi i rapporti all’interno del partito?
Non è facile. Come ho sempre detto non guardo nessuno in faccia. Psicologicamente è come se non vedessi che colore hai tu e come se non sapessi che sei maschio: ti vedo come una persona. Questo è il mio approccio psicologico. Per cui se devo fare qualche cosa se devo dare qualche cosa, lo faccio senza preoccuparmi di quello che puoi pensare. So che se quella è una cosa giusta, la devo fare e se mi sbatti la porta in faccia, bene litigheremmo. Per cui dipende tutto dall’approccio che noi adottiamo di fronte alle difficoltà e alle esigenze. Io quello che faccio è una cecità mentale, non ti vedo, non ti sento e vado avanti con la mia causa. Le tre priorità principali sull’immigrazione di cui deve occuparsi la politica?
Prima di tutto delle seconde generazioni, i figli dei cittadini non italiani che sono nati e cresciti in Italia. È abbastanza urgente cominciare a dare un’identità a queste persone. Per non continuare a ritrovarsi con giornali che scrivono che la classe è fatta al 100% di immigrati. E quando vado a vedere, sono nati e cresciuti in Italia. Per cui mi chiedo dove sono gli immigrati? Magari neanche il bambino o la bambina in classe sa di dov’è. Bisogna che cominciamo a dare un’identità a queste persone, quella proprio di darle la possibilità di avere il diritto alla cittadinanza. La seconda dovrebbe riguardare le problematiche del lavoro e del permesso di soggiorno. E la terza è cercare di non far addossare tutte le colpe ai migranti, cambiare il linguaggio, la terminologia sia in tv che sulla stampa. Da per tutto salta fuori la delinquenza quando si parla di immigrati. Bisogna cercare di cambiare l’immagine e su questo versante l’Italia si deve impegnare maggiormente focalizzandosi sugli esempi positivi e non rincorrendo la Lega. La Lega può anche uscire fuori dicendo “questi ci vengono a rubare le case”. È chiaro che io devo reagire, ma devo far vedere che sono capace anche di fare delle cose. La Lega non sa cosa dire sull’immigrazione e ha bisogno di un voto da parte delle persone indecise. Perché non cominciamo a riempire quel voto, dando degli esempi positivi, parlando positivamente di immigrazione? Sarebbe il caso. Le tre problematiche principali dell’Italia su cui dobbiamo occuparci?
Il lavoro. In primo posto il lavoro che in questo periodo è abbastanza urgente. In secondo luogo la convivenza civile e il dialogo tra le diverse culture. Bisogna far conoscere un po’ di più
la situazione delle persone. Quindi non parlare di sicurezza che ha ormai invaso tutti i campi, ma anche della necessità di dialogo tra le persone. Invece la terza problematica riguarda le leggi che non vengono rispettate. Non parlo soltanto delle leggi sull’immigrazione ma di tutte in generale. Le leggi non vengono veramente rispettate. Il diritto delle persone viene meno. Non solo nel caso dei cittadini migranti, ma anche in quello delle ragazze italiane e delle donne. Si parla tanto di altri settori e si dimentica molto spesso la condizione della donna che sia italiana o straniera. Magari scopri che la donna che scende in piazza per proteggere quelle straniere, è picchiata tutti i giorni a casa sua. Uniamoci e parliamo di diritti senza discriminazione. Quindi l’Italia deve prendere in carico il problema di genere che esiste ed è anche molto forte.