Molto più di una targa, di una triste corona di alloro nel mese della Memoria. A Otranto la Kater I Rades è diventata un’opera d’arte. Un monumento ai migranti, a quell’umanità che lontano da casa cerca, ma non sempre trova, un approdo per sbarcare in una vita migliore. Vetro e ferro arrugginito. Ecco come è stato reinventato il relitto della motovedetta albanese che nella notte del Venerdì santo di 15 anni fa, subì la collisione con nave Sibilla della Marina Militare italiana e naufragò nel Canale di Otranto. A bordo circa 120 persone. Se ne salvarono 34. I corpi recuperati furono 57, in gran parte di donne e bambini, altri 24 non furono mai ritrovati. Oggi il porto della cittadina pugliese più a oriente d’Italia, dove ogni capodanno si celebra festosamente l’Alba dei popoli, accoglie “L’Approdo. Opera all’Umanità Migrante”.
L’elaborazione di un lutto e un simbolo di ri-partenza per ricordare la tragedia del 1997, nell’auspicio che il Mediterraneo, prima o poi, smetta di essere un “cimitero liquido”, un viaggio di non ritorno per migliaia di persone che non riescono a toccare terra e si perdono nella traversata.
Ma è anche, come spiega lo scultore greco di fama internazionale Costas Varotsos che l’ha realizzata, un “messaggio forte, positivo, di unione e fratellanza tra i popoli perché ci sono forze centrifughe che cercano di far diminuire questi sentimenti di fraternità tra gli europei”.
Così il vetro, fragile come la vita e tagliente come il dolore dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime, è anche la luce della speranza, della comunicazione e dell’amore tra i popoli. Ed è quella trasparenza che ti obbliga a vedere cosa c’è sotto, cosa non si può cancellare, a capire che dietro c’è una Storia e le centinaia di storie di chi è affondato dentro quella motovedetta.
“La storia, a volte, sa scrivere pagine molto tristi e il nostro Canale ha dovuto assistere a tragedie di un dolore assordante che si fatica a dimenticare”.
Così il sindaco Luciano Cariddi che, presentando l’opera, assicura:
“Noi non vogliamo dimenticare. Anzi, vogliamo ricordare quei momenti. Crediamo sia giusto coltivare la memoria. Il progetto L’Approdo è stato sposato e fatto proprio da Otranto, affinché resti sempre vivo il ricordo della tragedia del naufragio nel Venerdì Santo del 1997 e affinché resti alta l’attenzione sulle politiche da attuare per governare, al meglio, un problema che continua a registrare tantissime vittime nei nostri mari. Vogliamo che l’opera possa rappresentare un luogo e un simbolo dedicato all’Umanità Migrante.
Non dimentichiamoci mai che il nostro Paese, e in particolar modo il Meridione, è stato interessato dal fenomeno dell’emigrazione di massa verso Paesi esteri che ci hanno accolto. L’Approdo potrà contribuire a rafforzare nella nostra comunità la naturale predisposizione all’accoglienza e a quella solidarietà sempre dimostrata, e a non indurci a rifiutare mai quel primo abbraccio che ci viene chiesto da quanti, fuggendo da luoghi in cui non si riesce a condurre una vita libera e dignitosa, chiedono di poter avere una possibilità per guardare al futuro con fiducia e speranza”.
E se Otranto non vuole rottamare il passato, sebbene drammatico, e al contrario lo cristallizza nell’arte rimarcando la vicinanza umana e geografica con i Balcani, le venti tonnellate di vetro messe da Varotsos attorno allo scafo della Kater I Rades, che al sole brillano del verde trasparente dell’acqua e si incupiscono come le onde quando piove, diventano un mare avvolgente. Così che la nave sembra tornare a navigare.
“E’ come se si trovasse in mezzo a una tempesta e tutto il mare gli fosse scoppiato addosso. Volevo farla ripartire. Ho cercato di farla riemergere in superficie. Quello che si era inabissato – ha detto l’artista greco – doveva tornare a cavalcare le onde, con un nuovo messaggio di equilibrio tra presente e passato”.
In realtà una nuova “rotta” è già stata tracciata. Il relitto ripescato a 790 metri di profondità, esaminato centimetro per centimetro dai periti dei tribunali e poi abbandonato per anni nel porto di Brindisi, era ormai pronto per essere demolito come disposto dalla Corte d’Appello di Lecce (che ha condannato a tre anni il pilota albanese della nave Namik Xhaferi, e a due anni il comandante della Sibilla Fabrizio Laudadio).
Invece è stato recuperato, salvato, ricreato. Come ricorda il Comune di Otranto, “questo incredibile viaggio di ricostruzione e rinascita si è potuto realizzare grazie al coraggio dell’Amministrazione cittadina, all’idea dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, alla volontà di Klodiana Cuka dell’associazione umanitaria Integra Onlus, dei parenti delle vittime, e alla determinazione di Giusi Giaracuni curatrice del progetto”.
Non solo. L’opera, che ha il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, dell’Organizzazione Internazionale per i Migranti e del Comitato Italiano per i Rifugiati, è il risultato di un lavoro collettivo.
Al contributo della Regione Puglia, della Provincia di Lecce, del Comune di Otranto si è aggiunto quello di numerosi privati che, con le maestranze di vetrai, fabbri, pittori, falegnami e carpentieri, hanno concorso alla sua realizzazione attraverso forniture e prestazioni gratuite (dalla multinazionale Pilkinton che ha fornito 12 tonnellate di vetro alla Cannone Group che ha tagliato in due la motovedetta, dai trattamenti antiruggine della Duriplastic alle saldature della 1Lab, dalla Vetro Design che ha tagliato e incollato oltre mille metri quadrati di vetro alla Troso che ha costruito il supporto dello scafo con oltre 40 metri cubi di cemento armato).
A raccogliere l’avvincente sfida del progetto artistico internazionale, anche otto giovani creativi provenienti da Albania, Siria, Egitto, Montenegro, Francia, Cipro e Italia della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo che ha organizzato, con la cooperativa Artemisia, un itinerario culturale di ricerca multidisciplinare sul rapporto tra comunità locali e migrazioni. Tra i contributi artistici quello del duo albanese “Scafisti Scafati” Arta Ngucaj e Ben Beqiraj.