Le immagini della demolizione del Teatro Nazionale di Tirana, hanno fatto il giro del mondo sia per le modalità dell’operazione che ha visto un imponente dispiegamento di forze di polizia e scontri violenti con la società civile allineata in difesa dello storico edificio, sia per il dibattito tra due concezioni opposte sullo sviluppo urbanistico di Tirana.
La prima chiede da difesa e la valorizzazione del patrimonio architettonico della città e l’altra è proiettata in una visione avveniristica della capitale.
Chi scrive per orientamento professionale ed affinità personale, si riconosce nella posizione di quelli che chiedono la difesa e la valorizzazione del patrimonio storico culturale nella sua accezione più ampia.
E per scacciare le immagini di quella devastazione, ho fatto quello che riesce meglio ad un archivista, mi sono rifugiata nelle carte. E dalle carte si alzano immagini, suoni e un umanità del passato. L’articolo che segue è stato pubblicato nella rivista Drini, nr.4 a.IV 15 aprile 1943, a firma del giornalista Ridolfo Mazzucconi che offre un ritratto di una città che era proiettata a diventare una metropoli europea, ma che non rinunciava ad avere cura delle proprie radici.
Nascita di una metropoli
Drini nr.4 a.IV 15 aprile 1943
L’arrivo in una città sconosciuta ha sempre un senso magico; un nome da simbolo geografico diventa realtà di case, vie e piazze, con tanta ignorata umanità che vi circola e vive dentro.
A ritrovarsi a Tirana si ha una sorpresa di più: si può assistere alla nascita di una città.
Avrei dovuto dire d’una capitale. La città è nata da tre secoli e mezzo, mentre la capitale di fu trasportata nel 1923, è solo da un paio d’anni ne sta prendendo figura e autorità. Aveva 20 mila abitanti all’inizio della nuova esistenza, raggiungi e probabilmente i 40.000 oggi; ne avrà forse duecentomila è più fra dieci o vent’anni, quando sarà salita al grado di metropoli balcanica.

La vecchia città è rimasta intatta
Circoscritta da grandi strade e corsi alberati, si è appartata in un pacato isolamento. La rumorosa corrente del traffico, che in certe ore del giorno costringe Il viandante a tenere gli occhi bene aperti ai cenni del metropolitano, non varca la schiera di case dietro la quale si snoda il dedalo delle straducole e dei viuzzi, interrotto qua e là da qualche largura. E quel sipario è un paravento discreto che consente a due mondi, tanto diversi, di vivere senza darsi disturbo secondo il proprio costume.
Prima di andare a veder nascere la grande Tirana, che il sarto architetto ha già tagliato, con franche forbiciate, in una pezza verde di campagna da riempire di pietra di cemento, in vasti scacchi geometrici, tenuti insieme con l’imbastitura di lunghi e spaziosi viali ed immense piazze; prima di soffermarmi dinanzi ai palazzi di recente costruzione del nuovo centro amministrativo, m’è piaciuto, allorché vi giunsi per la prima volta, girovagare a lungo nel quartiere vecchio, ossia la vecchia Tirana.

C’è una piazza, in mezzo a questo quartiere, il mercato, cui fanno capo tortuosi budelli di vicoli, i quali si diramano in altri budelli più stretti; ma il quartiere è tagliato per il lungo, anche da strade abbastanza spaziose, in curva è in discesa.
La topografia è così intrigata che dopo essere andato su e giù per parecchi giorni in un rione relativamente poco esteso, mi è spesso accaduto di perdere la bussola, ritornare al punto di partenza, di perdermi nell’imprevisto. Perdersi non è affatto spiacevole, qui. Pensavo con anticipato rammarico che quando a furia di tornare, come facevo quasi ogni giorno, in quel luogo, fossi in grado di camminare spedito, senza badare a qualche punto di riferimento per non uscire di carreggiata, grande parte dell’interesse iniziale sarebbe sfumato; l’assaggio di esotismo orientale non avrebbe stuzzicato più il mio palato; le note calde di quelle passeggiate che avevano vago colore romantico sarebbero finite tra gli stracci delle cose fruste dall’abitudine.
Forse sarebbe rimasto tenace il ricordo della prima occhiata. Nei primi incontri con gli uomini, le città e i paesi vi è sempre un’aria elettrica di rivelazione. Poi, la frequenza del contatto, aiutata dal ragionamento, elabora a poco le immagini in un tessuto di idee e, dà alle immagini consistenza e rilievo, e nel medesimo tempo l’usura le svisa e le corrompe; ma verità rivelata, quel raggio di simpatia umana che penetra a fondo nel primo incontro, resta imprigionato nell’anima nostra.
La capitale nascente di un nuovo regno avanti di innalzare al sole i suoi palazzi, ha preso forma nel cervello di un architetto, il quale ne ha fatto il ritratto immaginario, in mappa, su carta centimetrata. L’antico borgo, fondato al principio del secolo XVII dal turco Suleiman Pascià, cui egli volle imporre il nome pomposo di Teheran (corrotosi poi in Tirana) a ricordo di una sua fortunata campagna In Persia, spuntò giorno per giorno, senza disegno, secondo il caso è l’opportunità.

Le casette, quasi tutte minuscole, sono venuta a trovarsi in piedi l’una accanto all’altra, sulla traccia di qualche sentiero fra i campi; e si tengono spalla contro spalla per non cadere.
Qua e là le mura fanno sporgenze e rientranze, capricci e ghiribizzi infiniti. E le case non si tirano indietro per lasciar passare il traffico; fanno i loro comodi, vanno incontro a quella di faccia, si voltano con pudore o malagrazia da una parte o dall’altra, si rifugiano in fondo a un angiporto. Hanno i ventri bui e tetri, ma il viso sempre incipriato di fresco, come una donna che venga dallo specchio: la legge di Maometto prescrive che al del Ramazan, tutte le facciate delle case debbano essere imbiancate.
Le strade sono a grossi ciotoli, o alla strada e mal connesse, su cui i giumenti che vanno e vengono, con le somme di legna e di sacchi, e ballano una danza sincopata di scivoloni o di incespico. Il quartiere è in pendio, e se piove (burrasche a scataroscio d’Albania) il lastrico si trasforma in una pescaia. Non è difficile incontrare in questi viuzzi un albero, rimasto prigioniero dalle case a ricordo della campagna scacciata dalle mura, o spuntato più tardi fra le pietre del lastrico.
Una strada in cui un albero fa nascere, crescere e superare il tetto delle case vicine, può dare una idea un mondo nel quale il tempo e lo spazio non hanno valore.

Ma non bisogna credere che qui, in questo quartiere in cui è antica anche la vita moderna, tutto proceda secondo un ritmo per noi inesplicabile di lentezza contemplativa. Le case sonnecchiano, i mercanti fumano e sgranano i loro rosari; gente venuta da lontani paesi di montagna aspetta pazientemente, accoccolata in un angolo, su uno scalino, sotto un portichetto o una tettoia, che venga l’ora di far ritorno a casa. Invece, dentro le botteghe vomitanti fuori degli sporti robe ed arnesi, che spesso impediscono il passo, lavorano in un’area di pece, su uno spazio incredibilmente angusto, taciturni artigiani.
Se il tempo è bello, si mettono a martellare in mezzo alla strada. E’ piacevole assistere al loro lavoro, cogliere all’ impensata tanti piccoli segreti del mestiere. Vi sono tessitori che fabbricano grezze stuoie di stoffa a colori squillaci, ramai che allineano sul marciapiede anfore, pàtere e curiosi macinini e bricchi per fare il caffè alla turca; vasai con la loro distesa di pentole, tegami e piatti; falegnami, fabbri, calzolai e sarti. Il fornaio vende il pane da un finestrino aperto nella vetrina; è dietro a lui, garzoni a dorso nudo impastano, frullano, infornano e sfornano; friggitori e cuochi sono attorno alle fumose padelle e tegami a preparar fritture e intingoli misteriosi.
Fuori del bazar, Tirana si fa grande e moderna; con molto giudizio, il piccone demolitore si è astenuto dall’addentare l’isola della borgata balcanica. In seguito, dovrà visitarla; ma lo farà con molto riguardo. Da ogni parte, un vicolo ti fa sboccare di sorpresa in una delle vie spaziose della città moderna. La quale si presenta, a chi giunga da Durazzo o da Elbasan, con grazie di garbata cittadina occidentale, o con aperture acerbe da metropoli europea. La zona degli uffici, con i suoi palazzi, ha veramente l’aspetto di capitale di un paese cui è dischiuso un grande avvenire. Sull’asse di tre grandi viali che si aprono a stecche di ventaglio nelle direzioni ovest e sud-ovest, incontro al mare, la città avanza verso la campagna vuota; ai loro lati si propagheranno presto nuovi quartieri di abitazione. Ma un’intera città, quella cui è dato il nome di Tirana Nuova, è già nata i lati del Viale dell’Impero, e si estende sino alle colline che cingono la ridente conca di Tirana da levante. C’è tanto spazio intorno a Tirana. La catena di monti ed di colli che la circonda, vicinissima da settentrione e da oriente, le fa riparo dalle correnti fredde che discendono sui Balcani e fino all’Adriatico dalle regioni boreali. Dalla parte di mezzogiorno, si tiene lontana ed include una vasta plaga ondulata di campagna verdeggiante. In questa, la capitale dell’Albania troverà non soltanto sito adatto e comodità di estendersi, ma in un futuro remoto, anche una fonte copiosa di approvvigionamenti, quando le terre attualmente spopolate lasciate inoperose saranno messe a coltura.
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Ridolfo Mazzucconi
Firenze, 2 maggio 1889 – Forlì, 23 gennaio 1959 è stato un giornalista e scrittore italiano.
Fu autore di circa trenta libri. Per conto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale nel 1937, dopo la guerra d’Etiopia, pubblicò la Storia della conquista dell’Africa in quattro volumi. Scrisse novelle e romanzi apparsi a puntate su La Nazione e si occupò, in modo antiaccademico e divulgativo, anche di storia dell’arte pubblicando alcune biografie romanzate.
Collaboratore e redattore di vari periodici e da maggio a dicembre 1944 fu direttore della Nuova Antologia. Nel 1960 pubblicò un volume di poesie precedute da una prefazione di Ardengo Soffici.
«Fra gli scrittori italiani di questo tempo, Ridolfo Mazzucconi è uno dei più preparati e castigati. Preparato intellettualmente, culturalmente, storicamente, politicamente; castigato linguisticamente, stilisticamente nel senso classico cioè nostro, quale s’intende nell’ambito della civiltà caratteristica del mondo latino. Egli dà prova in tutti i suoi libri di vera superiorità e serietà di spirito, nonché di doti artistiche, come in certi suoi racconti fantastici, e soprattutto quale poeta lirico, singolare per forza di immagini ed elevatezza di sentimento e di pensiero»