Nel 1941 – 1942 la Casa editrice DISTAPTUR di Tirana aveva progettato di pubblicare un libro del grande albanologo Padre Giuseppe Valentini S.
J., che raccogliesse i suoi articoli pubblicati sulla rivista del turismo albanese “DRINI”. Questo è il sesto e l’ultimo articolo, IL CASTELLO DI SCUTARI.
Per comprendere l’importanza di Scutari, riandarne la storia, sentirne tutto il fascino, bisogna salire al Castello. Quello che ora vediamo è, in qualche parte irriconoscibile, il castello serbo medioevale; nella sua gran massa il castello è veneziano, ricostruito su disegno di Andrea e Francesco Venier e Melchiorre da Imola nel 1458; qualche restauro e qualche aggiunta vi fecero poi i turchi. Vi si sale per ripida serpeggiante via dal bazar, che in parte è l’antica selciata veneziana.
Alla nostra sinistra la catena delle più basse colline viene a congiungersi con una sella a quella del castello; la più prossima si chiama di Kara Hasan ossia del Nero Hasan Pascià che venne all’assalto da quest’unico lato meno scosceso.
In capo alla svolta della sella, abbiamo la pittoresca visione della Zadrima e, sotto i nostri piedi il blocco elegante della «Moschea di Piombo» dalle molte cupole.
Alla nostra sinistra la catena delle più basse colline viene a congiungersi con una sella a quella del castello; la più prossima si chiama di Kara Hasan ossia del Nero Hasan Pascià che venne all’assalto da quest’unico lato meno scosceso. In capo alla svolta della sella, abbiamo la pittoresca visione della Zadrima e, sotto i nostri piedi il blocco elegante della «Moschea di Piombo» dalle molte cupole. La prima cerchia di difese è costituita da uno spalto e un trincerone appena visibile ora da lontano, ma profondamente scavato; fu la tomba di migliaia di turchi nell’assedio del 1474, che vi venivano spinti a frustate e sciabolate dal sultano in persona. La seconda è il cosiddetto barbacane, un complesso intricato di muraglioni, di corridoi coperti, di caserme a prova di bomba e di ballatoi, a difesa dell’accesso; porta il nome di Vito Jonima (della famiglia di quegli Jonima che già conosciamo) perché sul terreno delle sue case venne costruita; ne fanno parte due grandi porte, la prima autonoma, la seconda sottostante e intimamente connessa al mastio.
La prima, coronata già dal leone di S. Marco, ora non ne conserva che la coda; all’interno, dalle volte a prova di bomba, cola l’acqua ricca di calcare che va rivestendo i macigni di un candido strato stalattitico; la leggenda popolare li riveste del poetico ricordo della principessa che immurata quale vittima propiziatoria per la costruzione, avrebbe ottenuto che le si lasciasse scoperto un seno per allattare il suo bambino; e le donne scutarine vi vennero a lungo a cercare il farmaco galattoforo. Tra la prima e la seconda porta possiamo contemplare da vicino il mastio, il più elegante dei resti veneziani, e poi penetriamo nell’interno.
Rivolgendoci a guardare. Questa prima cinta ci si presenta come una potente cortina interrotta a destra della porta da un dente o piattaforma e più in là da una torre rotonda, immortalata nell’assedio del 1474 dalla resistenza eroica del capitano veneto Carlino. All’estrema nostra sinistra doveva esserci un belvedere, ma ora è demolito per effetto del terremoto del 1906.
Il primo spiazzo in cui ci troviamo è diviso dall’interno per mezzo d’una potente cortina fortificata, richiesta dall’esperienza che nel primo assedio turco deve aver dimostrato che lo spiazzo unico e raso che si mostra in pendio tutto aperto alla collina di Kara Hasan, si dava troppo indifeso ai tiri dell’artiglieria; perciò lo si deve aver diviso a metà con questa specie dei diaframma.
Oltrepassatolo, notiamo a destra un edificio dalla forma curiosa. Non è altro che l’antica cattedrale divenuta poi moschea e infine deposito di polveri. La costruzione, molto modesta, orientata grosso modo a ponente come di rito, è serba, o meglio gotica, secondo lo stilo importato da una delle regine franche che entrarono in casa Nemanja.
Però il robusto portico di severo rinascimento che la fiancheggia a nord-ovest è veneziano; il minareto mozzo dell’angolo venne impiantato sulla base d’un membro dell’antica fabbrica che sarà stato il battistero o la sacrestia.
L’ultimo e più protetto recinto del castello costituiva di solito la castellaneria, che qui, comandandovi un capitano, si chiamò capitaneria.
Nell’interno ci si osserva il massiccio palazzo del conte capitano a sinistra. Nel cortile deve essere avvenuto l’epico episodio di Antonio Loredan provveditore durante l’assedio del 1474, che all’esercito e al popolo stremato dalla sete e tumultuante, stracciatesi le vesti, propose gli squarciassero il petto e ne bevessero il sangue, ma resistettero un solo giorno ancora: l’indomani il turco partì!
All’ultima estremità c’è un belvedere che giustifica a meraviglia il suo vocabolo militare, perché tra i tanti bei panorami che offre questa altura esso ci presenta il più bello e il più interessante.
Di qui possiamo contemplare la vasta cerchia di monti che circondano Scutari. Lontane ad est le Alpi Albanesi e il Montenegro; a sud est i Monti dei Dukagijni, il Monte Sardonico, il San Marco di Dagno. La Mirdizia. Più vicino il Tarabosh che nel 1912-1913 ben dimostrato in modo terribile quanto bene il Coronelli l’avesse battezzato col vago vocabolo di «monti che battono Scutari»; più in basso in pianura i colli di Bushati e di Berdiza e Beltoja.
Scutari è tutta circondata dalle acque quasi come un’isola. Qui sotto il lago e il suo emissario la Bojana; dall’altra parte della catena delle colline vien giù dai monti il Kiri, che al loro piede si congiunge con la Drinassa, ramo del Drino, che vien da Dagno e va a gettarsi nella Bojana: sono le vie fluviali.
Delle vie di terra, una viene da Alessio per Bushati, ed è quella che è attualmente aperta; anticamente veniva invece ai piedi della Montagne di Mirdizia, pagava la dogana a Dagno, e di là prendeva verso Scutari.
Lungo la Bojana, sulla sua destra viene la via che dal porto della Bocca della Bojana, per la medioevale Sovacia aiuta un po’ anch’essa il traffico. Verso la montagna da una parte la strada verso Podgorizza e il Montenegro (via di Dioclea), in mezzo quella di Drivasto per il ponte di Mesi, verso sud-est quella di dagno che conduceva nella Mesia romana, ossia nella Serbia.
Si comprende ora l’importanza di questo nodo, e si comprendono le guerre che vi si svolsero.
Dalle strade che scendono dai monti, sboccarono in pianura le moltitudini turche, someggiando a dorso di cammelli bronzo e arnesi per fondere i cannoni; si distesero nella Zadrima e vi si accamparono; occuparono le alture dei dintorni, tagliando le comunicazioni con Drivasto che fu ridotta a intendersi con Scutari per mezzo di segnali luminosi; posero corpi di guardia lungo la Bojana, e nella pianura in riva al lago impiantarono le fonderie dei cannoni; ancora oggi questa si chiama «tophana», la fabbrica delle artiglierie.
Alla Bojana venivan su le marciliane e perfino le galee venete al soccorso; per il Tarabosh e colle barchette per il lago veniva pure Ivan Cernovicchio.
E quassù si combatteva sotto il nugolo delle frecce ( ce n’era abbastanza da riscaldare i forni per un pezzo) e sotto la grandine delle immense palle di pietra dei mortai, che tutto sfondavano; per fortuna, meno i pochi edifici principali di cui si vedono ancora i resti, l’abitato era costituito di casucce di legno, poco danno se andavano a male, e la gente viveva nei sotterranei.
L’articolo di Padre Giuseppe Valentini S.
J. è stato pubblicato nel N. 6 – Anno II di DRINI – Bollettino mensile del Turismo albanese – Tirana, Venerdì 1 agosto 1941
Le fotografie originali provengono dall’Archivio di Franco Tagliarini