La prestigiosa rivista di cultura «Archivio Storico di Belluno Feltre e Cadore» – giunta al LXXXIII anno – ha pubblicato nel numero 349 (maggio-agosto 2012) un ampio saggio di Lucia Nadin dal titolo: Un monumento a Giorgio Castriota Scanderbeg nel 1465: l’edicola-ciborio di Mel. Ipotesi di lettura.
La studiosa – nota per i suoi contributi alla storia e all’arte albanese, della quale abbiamo anche recentemente illustrato alcuni risultati delle sue ricerche – legge in chiave di storia albanese una splendida opera d’arte conservata nella chiesa dell’Addolorata in una località del Bellunese: Mel, dove nel secondo ‘400, fu parroco per quasi cinquanta anni, dal 1460 al 1505, un albanese: Giorgio di Novomonte.
L’antica pieve di Mel faceva parte della Diocesi di Ceneda: parrocchiale era la chiesa di S. Maria, poi dell’Addolorata, con vicino il battistero di San Giovanni Battista, andato nel tempo distrutto.
Novomonte può essere identificato con Novo Brdo, oggi in Kossovo, centro minerario allora importantissimo nella Serbia meridionale, dove confluiva una forte immigrazione sia dalle terre tedesche, dalla Dalmazia e dall’Albania.
La via di Zenta, da Prizren a Shkodra, era snodo commerciale strategico del più ampio tratto da Sofia a Ragusa. Il clero cattolico dipendeva dall’arcivescovado di Antivari, con forti presenze sia da Cattaro che dalle terre albanesi del nord. Nel 1441 ci fu una prima conquista turca della città, con forte esodo della popolazione; il dominio turco si stabilizzò dal 1455.
Si potrebbe ipotizzare che Novomonte fosse una località omonima tra Shkodra e Drisht, dove la testimonianza di studiosi dei luoghi ricorda l’esistenza, un tempo, di un villaggio Mali i Ri, Novomonte appunto, di cui oggi non c’è più traccia. Questa seconda tesi è legata a testimonianze che provengono da Scutari. Malesi e Re (Montagna Nuova) è una zona montuosa attorno a Lopcit, cittadina presente nelle carte catastali quattrocentesche di Scutari: il punto più alto e strategico era Mali i Ri (Novomonte). Gli abitanti, come avvenne in altre località arroccate sui monti, mantennero la loro fede anche dopo l’occupazione turca. Da segnalare che anche presso Drivasto, non distante dalla rocca, c’era un Castello di Novomonte.
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La famiglia di Giorgio da Novomonte può essere rientrata nell’Albania del nord seguendo la via di Zenta, da Prizren a Scutari.
Giorgio di Novomonte giunge con la sua famiglia, di emigrati dunque, nelle terre venete negli anni quaranta del XV secolo: essendo registrato come suddiacono nel 1443, era allora appena adolescente. Nella sua terra di origine non tornerà più e ne conoscerà le vicende in quanto legate alla Serenissima: vicende che vedono la grande ascesa dell’eroe albanese Giorgio Castriota, con cui l’Albania funge da barriera all’avanzata ottomana per quasi venticinque anni, fino al 1468, data della sua morte.
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A metà Quattrocento si aprivano decenni cruciali per lo scontro occidente-oriente: la caduta di Costantinopoli nel 1453; poi l’avanzare degli Ottomani verso l’Europa, dove l’Albania era terra di passaggio obbligato: si riproponeva la sua secolare condizione di terra in bilico tra Occidente e Oriente, nata con la ”linea” di Teodosio nel lontano 395. L’Albania trovava in un suo emergente capo, Giorgio Castriota, soprannominato Scanderbeg (Nobile Alessandro), uno straordinario stratega politico al quale guarderanno tutte le potenze europee, nonché un eccezionale comandante militare le cui azioni contro i Turchi saranno destinate ad entrare nel leggendario: si creerà un vero e proprio mito di Scanderbeg, che sarà alimentato in tutti i paesi d’Europa, e la sua figura ispirerà narratori, poeti, pittori, musicisti fino alle soglie del Novecento.
Il Castriota diventava dunque in breve il più acerrimo nemico dell’espansionismo ottomano, e tale ruolo diveniva funzionale alle mire economiche delle potenze di occidente, tanto quanto alle rivendicazioni delle utopiche crociate del papato. Quanto alla Serenissima, iniziali contrasti per terre nel nord Albania, si risolvevano in successiva alleanza.
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Nel 1460 a dirigere la parrocchiale dell’Addolorata è assegnato un sacerdote di origine albanese: Giorgio da Novomonte che rimane nella sua funzione di reggente per più di quarant’anni. La sua morte si colloca infatti attorno al 1505.
Era stato in precedenza, dal 1453 al 1460, parroco nella chiesa di Santa Maria di Lentiai, poco distante da Mel. Nel 1473 rinunciava al beneficio nella chiesa di S. Lorenzo, al castello di Zumelle.
Dunque Mel e dintorni per un lungo periodo di tempo videro la presenza di un sacerdote albanese. E d’altronde anche in altre chiese della diocesi di Ceneda, tra Quattrocento e Cinquecento, ci furono prolungate presenze di sacerdoti albanesi; come per esempio a Cavalier, presso Fossalta Maggiore, la cui pieve fu retta per circa settant’anni (1482-1551) da sacerdoti albanesi: Giovanni Pertali, Paolo Pertali, Giovanni Martusio.
È storia famosa: famose le gesta leggendarie dell’eroe, famoso il peso strategico politico avuto per la Serenissima e per l’intera Europa, famoso il ruolo di Miles Christi, Athleta Fidei, Soldato di Cristo, Difensore della Fede Cristiana dunque, assegnatogli da vari papi: una figura davvero sovranazionale entrata presto, si sa, nel mito.
Marino Barlezio, divenuto sacerdote in terra veneta nel 1494 (recente è il ritrovamento esatto di tale data) scriverà di Giorgio Castriota Scanderbeg una Vita, nel 1510, che diverrà il testo di riferimento per ogni successivo scritto sull’eroe, sintesi anche delle tradizioni orali fino ad allora conservate.
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Giorgio di Novomonte, parroco a Mel dal 1460, viene a conoscenza di quanto succede in Albania: tutto il clero, a cui anche lui appartiene, viene chiamato infatti da Pio II a partecipare con una “decima”, cioè con un contributo in denaro, alla storica impresa che va progettando: una crociata anti turca, conclusa felicemente la quale, proprio il papa avrebbe incoronato Giorgio Castriota Scanderbeg quale “re” di Albania.
La crociata viene bandita ufficialmente nel 1463. Un evento, si sa, conclusosi l’anno dopo tragicamente, con la morte improvvisa del papa in Ancona. Nello stesso 1463 Giorgio Castriota era aggregato alla nobiltà veneta.
Morto il papa, fallita la crociata, Giorgio Castriota rimane solo nella sua lotta titanica.
Il 1465 è per il condottiero un anno drammatico: in primavera perde in una imboscata otto suoi valentissimi ufficiali, che vengono barbaramente uccisi e i cui corpi – tagliati a pezzi – dati in pasto ai cani ; il rinnegato Ballaban attacca su diversi fronti: nell’estate lo stesso Castriota è ferito, cade a terra col suo cavallo; lo si crede morto e attorno a lui ferve una lotta perché i nemici vogliono impossessarsi del suo corpo e decapitarlo. Ma presto il Castriota si rialza, riprende la lotta, porta in breve tempo i suoi alla vittoria. Una vittoria che alla fine dell’estate egli annuncia a tutta l’Europa, con invio di ambasciatori e doni tratti dal bottino di guerra.
Resterà puntuale racconto di quegli avvenimenti in Marino Barlezio, che riportiamo integralmente:
«Arbitrati sunt barbari Scanderbegum extimatum [sic, rectius extinctum] esse, omnesque conglobati ibi, ut eum obtruncarent accurrerunt. Sed a militibus suis subito protectus a furore et impetu eorum tutatus est. Adiutusque statim equum insiluit et lenito mitigatoque dolore refocillatisque viribus pugnam acerrimam quum barbaris redintegravit».
«I barbari ritennero Scanderbeg morto e tutti si gettarono verso di lui per decapitarlo. Ma, protetto subito dai suoi soldati, fu salvato dal furore e dall’impeto dei nemici. Così aiutato, all’improvviso si alzò, balzò a cavallo e sedato il dolore e riprese le forze, rinnovò un’acerrima lotta contro i nemici».
Ripresa in mano la situazione, Scanderbeg porta i suoi ad una schiacciante vittoria, subito comunicata a tutti gli stati europei.
Si legge ancora in Barlezio:
«litteras ad omnes fere reges et christianos principes scripsit et victoriam hanc, quam adversus barbaros (Deo autore atque propitio) adeptus fuerat his impertivit dispensavitque. Quibus etiam varia donorum genera et munera ex hostium spoliis utpote equos allipedes (ut aiunt) et velocissimos, servos captivos, arma et tela, preclaras quoque equorum falera et id genus ornamento misit».
«Scrisse lettere a quasi tutti i re e principi cristiani illustrando la vittoria che aveva ottenuta contro i barbari (grazie alla volontà e all’aiuto di Dio); inviò loro doni di vari tipi tratti dalle spoglie dei nemici e anche cavalli alati (come tramandano) e velocissimi, prigionieri fatti schiavi, armi da taglio e da lancio, splendide bardature di cavalli e oggetti ornamentali di tale specie».
Nel corso del 1465 le notizie arrivano evidentemente anche in terra veneta: Giorgio di Novomonte, parroco di Mel, sta costruendo un grande ciborio, di circa tre metri di altezza, per la sua chiesa, con tabernacolo centrale destinato a conservare il Corpo di Cristo. Aveva incaricato del lavoro uno scultore locale, tale Antonio da Marcador (paese vicino a Mel).
Il committente fa scolpire, proprio sotto la porta del tabernacolo, dunque in posizione centrale, la figura di un guerriero, caduto a terra, che alza le braccia verso l’alto, come rapito da una visione. Il guerriero è rivestito soltanto di una cotta in maglia di ferro, resa da uno scalpello davvero fine che evidenzia l’abilità dell’artista; non ha né bracciali, né cosciali o stincaletti, elementi di una armatura composita.
Ha di fianco uno scudo oblungo e la lancia; una spada in cintura; porta un elmo bandato con piuma; è rappresentato di profilo con abbondante capigliatura, ma senza barba, in posizione distesa, con le gambe accavallate e con le braccia aperte in atteggiamento di stupore, come di chi abbia una improvvisa visione o folgorazione. Più sotto una fascia mostra una zuffa di soldati.
Nella parte alta del ciborio fa incidere una data: 26 luglio 1465.
Passano i secoli: il ciborio si conserva intatto, splendida opera d’arte che servì di modello (pare, allo stato attuale delle conoscenze) per un ciborio analogo che ancora si ammira nel Santuario dei Santi Vittore e Corona di Feltre, destinato a conservare gli olii santi.
Nessuno riesce a spiegarsi il perché di quella figura di guerriero, in quella posizione centrale, sotto al tabernacolo, e nemmeno la scena sottostante di una mischia di soldati.
Solo la conoscenza della storia di Albania, sostiene Lucia Nadin, può oggi darne spiegazione. Il parroco albanese vuole visualizzare le gesta dell’eroe Giorgio Castriota, il Soldato di Cristo, il Difensore della Cristianità, predestinato da Dio a condurre avanti la missione di fede: colpito, cade a terra, ma “si rialza” per proseguire la sua azione. È una interpretazione di parte, è logico, perché è un sacerdote che commissione l’opera d’arte e legge la storia in chiave religiosa. Egli fa rappresentare Giorgio Castriota come un guerriero rivestito di semplice cotta, quasi sguarnito di armatura, perché protetto da disegno divino.
Solo dopo cinquanta anni il ritratto umanistico che accompagnerà la Vita di Barlezio fisserà l’immagine “alta” dell’eroe albanese.
Ma nel 1465 il parroco albanese di Mel non ha alcun riferimento visivo; raccoglie le notizie che provengono dalla sua terra: le vicende sono in corso e lui le visualizza in quel soldato (di Cristo) caduto e “risollevato” per volere divino.
La testimonianza è doppiamente preziosa: è l’unico monumento costruito a Giorgio Castriota vivo e conferma di quanto dice Barlezio, quando sostiene di essere stato raccoglitore delle tradizioni orali nate durante la vita e le azioni dell’eroe albanese. Quanto succedeva in Albania era raccolto e diffuso anche fuori dell’Albania: in questo caso in terra veneta. Una sorta di bollettino di guerra che veniva fatto circolare in Europa.
Il mito di Scanderbeg nasceva, di diritto, ben prima della sua stessa morte.