Ricordo benissimo il pomeriggio del 2 luglio 1990. Anche se già da giorni c’era uno stillicidio di ingressi di rifugiati nelle varie Ambasciate, forse galvanizzati dalla conclusione della vicenda dei fratelli Popa, non ero preparata agli avvenimenti drammatici che si svolsero davanti all’Ambasciata della Germania Ovest.
Un conto è aspettarsi che le cose accadano, un conto è trovarcisi, di colpo.
Come ho narrato con discreta autoironia nel mio romanzo Terremoto a Tirana a pagina 344 in uno dei capitoli finali, ( e qui, a parte i nomi, l’invenzione coincide con la realtà storica dei fatti) avevo sconsigliato una mia amica dal venirmi a trovare dall’Italia, vista l’aria che tirava: c’erano stati anche colpi di kalashnikov sotto casa mia. Ma lei era voluta venire ugualmente a tenermi compagnia in un momento che si preannunciava difficile. Cosa che ho sempre apprezzato e della quale le sono tuttora infinitamente grata.
Pur di rilassarci un poco l’avevo portata al mattino in piscina, anche perché faceva caldo.
Per cause del tutto banali (ritirare una soppressata calabrese!) ci recammo nella strada delle Ambasciate nel pomeriggio e il taxi che ci portava si rifiutò di oltrepassare l’ingresso della via. Non capivamo perché: vedevamo un certo numero di persone in fuga, ma credevamo fosse solo una manifestazione che veniva dispersa. Ne avevamo viste tante, in Italia!
Dall’alto i colleghi italiani gridavano di stare attente e di sbrigarci a salire, e noi due, benché abbastanza esperte di manifestazioni, ce ne stavamo lì a chiederci perché si agitassero tanto. Quando finalmente mi accorsi che dall’Ambasciata cecoslovacca era spuntata una telecamera compresi che qualcosa di grave era successo.
Tutto mi fu raccontato dai colleghi italiani, che ci rimproverarono per l’imprudenza, l’assalto all’Ambasciata tedesca infatti si era concluso con numerosi feriti, non si sapeva se ci fossero morti.
Insomma, una vicenda drammatica a cui per un pelo non avevamo assistito, e che metteva tutti in agitazione per le possibili conseguenze, ma noi ce ne tornammo a casa mia, nonostante l’invito gentile a restare. Non avevamo paura, in effetti, o eravamo incoscienti, chissà. Sentivamo una sorta di corrente elettrica serpeggiare per tutta Tirana, non vi si poteva comunque sottrarre.
Ero invece presente quando ci fu l’ingresso di circa 800 albanesi nella mia Ambasciata, anzi, direi che fummo in tre donne, la moglie dell’Ambasciatore, una inviata del nostro Ministero degli Esteri ed io a gestire il primo impatto con tutte quelle persone spaventate, tanto spaventate che era quasi impossibile cercare di organizzarle, ma piano piano ci riuscimmo, pur tra mille difficoltà. Avevamo un grandissimo giardino e la notte non era fredda.
Per mia fortuna non assistetti ad episodi cruenti (come quello terribile che mi fu raccontato, di un ragazzo che era salito sulla cancellata e fu “tirato giù” da due poliziotti albanesi, praticamente infilzato nelle sbarre, sanguinante, immagino morto.)
Tuttavia non potrò mai dimenticare quei giorni e i visi stravolti delle persone, l’incertezza e la paura, la speranza e il dubbio. Quando mi capita, anche se raramente, di incontrarne una, ci commuoviamo e ci abbracciamo, come reduci di un evento straordinario.
Dossier dedicato al luglio 1990