Le immagini sono riemerse da uno scatolone polveroso che aveva resistito a tre traslochi. Dentro c’era, lo dico senza enfasi, un frammento della memoria dell’Albania in un periodo difficile della sua storia. Un viaggio fotografico in Albania al tempo dell’isolamento del Paese.
Era la fine dell’estate del 1982, la settimana tra il 21 e il 27 settembre per la precisione. Sempre senza enfasi, credo di essere uno dei pochi ad avere impresso su pellicola e poi conservato scatti fotografici risalenti ad un’altra era politica e storica.
La mancanza di tempo e la pigrizia avevano collocato nell’oblio quel vecchio reportage. Poi una sosta forzata a causa della rottura del tendine di Achille mi ha spinto a recuperare quei ricordi. Ho fatto bene, perché i supporti iniziavano a deteriorarsi.
Ero partito con due caricatori di diapositive e altrettanti di bianco e nero, una dotazione normale per l’epoca quando l’analogico obbligava a scattare con una parsimonia che il digitale non richiede. In tutto, su diapositive e negativi c’erano circa 140 immagini catturate con una Minolta reflex e una Olimpus compatta, un centinaio quelle utilizzabili. Non sono un professionista ma fotografare mi piace.
Nel 1982, a 28 anni, disponevo di una strumentazione basica in Italia ma ovviamente inimmaginabile in Albania. Le fotografie di quel viaggio, che ho scansionato dalle pellicole e ritoccato con accuratezza, sono ora a disposizione di Albanianews. Al portale ho concesso gratuitamente di farne l’uso divulgativo e culturale che più ritiene opportuno.
Il quel lontano 1982 mi colpì la pubblicità di un’agenzia di Rimini specializzata in viaggi nei paesi dell’Est comunista. Per la prima volta proponevano l’Albania e l’occasione mi parve ghiotta per andare alla scoperta del misterioso paese al di là dell’Adriatico.
In precedenza avevo avuto un unico contatto con un cittadino albanese, un camionista con un carico di pomodori incontrato in Austria. Proposi il viaggio ad alcuni amici e quattro mi seguirono. Partimmo in nave, Ancona Durazzo all’andata e Spalato Ancona al ritorno.
Entrammo in Albania dal Montenegro, valico di Hani Hotit direi guardando sulle mappe i possibili passaggi di frontiera. Ricordo che l’autobus scaricò il nostro gruppo davanti ad una baracca e le guardie di frontiera jugoslave ci indirizzarono senza formalità verso la sbarra che segnava il confine. Alla destra avevamo il lago di Scutari. Oltrepassati un centinaio di metri di terra di nessuno ci presero in consegna le guardie di frontiera albanesi.
Di qua e di là dalla sbarra, militari jugoslavi e albanesi si scrutavano armati di tutto punto, presumo col colpo in canna. Le operazioni doganali furono lunghe e meticolose. Ognuno dei turisti venne perquisito e ogni bagaglio controllato. I libri vennero messi a confronto con un elenco in possesso delle guardie di frontiera e non pochi furono sequestrati. Passarono il controllo giornali come il Corriere della Sera e Repubblica ma non l’Unità (il giornale dove, in seguito, avrei lavorato per oltre trent’anni).
In ogni caso tutti gli oggetti vennero restituiti al ritorno, nello stesso valico. Le mie macchine fotografiche passarono indenni. Il gruppo, terminate le operazioni doganali, fu affidato a due guide (un ragazzo e una ragazza) e fatto salire su un minibus Fiat.
Clicca qui per vedere il viaggio fotografico di Onide Donati nell’Albania del 1982
Prima tappa Scutari, dove arrivammo dopo avere costeggiato l’omonimo lago. In città ci trovammo immersi in un’altra epoca. Scutari era poverissima, semidiroccata. Mi colpì la tristezza delle persone e il loro atteggiamento dimesso. Il gruppo era attentamente controllato, i contatti coi locali erano impossibili ma gli occhi bastavano per capire molte cose.
Fotografare si poteva ma più discrezione si usava meglio era. L’unico divieto che ci venne fatto era puntare l’obiettivo verso il fortini di cemento disseminati ovunque, improbabile presidio di difesa contro un’invasione nemica. In ogni caso, mi resi ben presto conto di avere in mano degli oggetti sconosciuti agli albanesi. Proprio a Scutari mi accorsi alcune volte di essere controllato. In una occasione mi si avvicinò anche una persona che mi fece capire di smettere di fotografare.
Il viaggio fu frenetico, mai più di un giorno nello stesso luogo. Da Scutari andammo a Tirana, da Tirana a Durazzo, da Durazzo a Berat, da Berat ad Elbasan e poi ancora a Scutari sulla strada del ritorno.
Fummo alloggiati in alberghi essenziali ma dignitosi, mangiammo discretamente. I rari dialoghi con i locali permessi dalle guide avvennero senza problemi di lingua, perché quasi tutti conoscevano l’italiano appreso dalla televisione.
Non ho appunti del viaggio e quindi vado a memoria. Mi sono rimasti impressi alcuni flash. Intanto l’ossessiva esaltazione da parte dei nostri accompagnatori del segretario del partito comunista, Enver Hoxha, che regnava ininterrottamente sul paese delle aquile dalla fine della seconda guerra mondiale. Ricordo il “Lavdi Hoxha” scritto ovunque, anche sui costoni delle montagne con pietre composte a forma di parole. E poi l’assoluta assenza di automobili, le piccole strade invase dalle biciclette e dai carri trainati da cavalli e da asini, qualche rara motocicletta, pochi autobus pubblici (mi pare di fabbricazione cecoslovacca), vecchi camion cinesi, qualche raro e moderno Tir Fiat che serviva per esportare merci (immagino prodotti agricoli) nell’occidente capitalistico.
A Tirana, dove il tenore di vita era superiore a quello del resto del paese, capitava di vedere ogni tanto qualche automobile, in genere Mercedes delle ambasciate e dei ministeri. Le infrastrutture mi parvero discrete nella capitale, pessime altrove.
Mi è rimasta impressa la desolazione di Durazzo, la ruggine del suo porto da dove una decina di anni dopo sarebbero salpate le navi dei profughi. Mi hanno molto colpito le donne velate: “tradizione etnica”, ci dicevano le guide ma in realtà si trattava di una chiara manifestazione religiosa in un paese che si fondava sull’ateismo.
Un momento imbarazzante ci fu a Elbasan, quando nel ristorante, complice forse qualche bicchiere di troppo di acquavite, alcuni del nostro gruppo si misero a cantare e a ballare il Tuca tuca di Raffaella Carrà chiedendo ad un’orchestra di essere accompagnati.
La Carrà era ben conosciuta in Albania e i musicisti abbozzarono le note della canzone. Ma l’esibizione venne fermata con modi decisi da un funzionario di partito, che si era improvvisamente materializzato. Un altro brutto episodio avvenne nel finale del viaggio a Scutari. Era successo che una signora del nostro gruppo, all’andata, aveva lasciato in albergo un pacco di indumenti con un biglietto: “Per i poveri”.
Il pacco fu restituito alla signora sul pullman dal solito funzionario che la redarguì severamente, facendole presente che in Albania non esistevano poveri e che non accettavano la carità di noi capitalisti occidentali. Buona parte del gruppo protestò e il finale del viaggio, dopo una sosta sulle sponde del lago di Scutari, terminò in un clima di tensione. Le autorità di frontiera ci restituirono in malo modo gli oggetti confiscati all’andata e ci fecero transitare in Montenegro senza degnarci di un saluto.
Le mie fotografie, ne sono consapevole, non hanno particolare valore artistico e tecnico. Credo però che documentino il clima di quel 1982 in Albania, nel pieno della potenza dittatoriale di Enver Hoxha , che poteva perfino permettersi il confronto con i turisti occidentali.
Ho difficoltà ad attribuire ad ognuna delle fotografie le informazioni essenziali. Alcune città le riconosco, prima tra tutte l’inconfondibile e caratteristica Berat. Due delle foto più belle, quelle del gelataio con il carretto, sono state fatte a Tirana. La statua di Stalin, sotto la quale mi sono fatto fotografare, era sicuramente a Scutari come ho potuto verificare su Google.
Altri luoghi potranno riconoscerli i lettori di Albanianews al fine di ordinare con una successione logica le fotografie dell’album.
Mi sia consentita, infine, una notazione personale e familiare. Abito in un Comune romagnolo, Bellaria-Igea Marina, che ha una altissima densità di cittadini albanesi, un migliaio su 20 mila abitanti. Cognomi come Mema, Kalliku, Cobo, Jordake, Hasani, Alla sono comuni.
Mia moglie, per molti anni vice preside dell’Istituto scolastico comprensivo e assessore alla Cultura, ha fatto un impegnativo lavoro per favorire l’inserimento scolastico dei ragazzi albanesi. Successi e insuccessi si sono alternati ma nel complesso la situazione, oggi, è buona.
Gli albanesi sono titolari di molte imprese, soprattutto nell’edilizia e nella ristorazione. Il 25 aprile 2009, in occasione di una manifestazione di dialogo interculturale con musiche e danze interetniche in piazza, venne a Bellaria il poeta Visar Zhiti , addetto culturale dell’Ambasciata albanese in Italia e, collegato in videoconferenza, il sindaco di Tirana Edi Rama (oggi premier) salutò i suoi concittadini.
Conosco tanti albanesi, nello studio del mio medico di base opera una giovane dottoressa albanese, mia figlia a cavallo del secolo ha fatto le elementari e le medie con sempre più numerosi bambini appena arrivati dall’Albania.
Siamo oltre al “diverso è tra noi”, ci troviamo in una situazione di “contaminazione etnica” oramai normale.
Considerato quel che avevo visto e documentato nell’Albania nel 1982 a me questo pare un miracolo. Mi piacerebbe tornare sulle orme di quel remoto viaggio. Prima o poi lo farò.
L’articolo è stato originariamente pubblicato su ALBANIA NEWS il 28 giugno 2016 ed è stato ripreso dalla maggior parte dei media albanesi per l’importanza storica di queste fotografie, una testimonianza viva dell’Albania Comunista