Abbiamo ricevuto questo racconto da un ex-funzionario culturale presso l’ambasciata italiana a Tirana che ha vissuto di persona l’epoca dei fatti narrati. Gentilmente ci ha chiesto di pubblicarlo con la firma “Anonima italiana”.
Prima parte
“Lettera ad un’amica”
Cara amica,
.. vorrei raccontarti del mio appuntamento con la..storia! È sabato, un po’ di respiro dopo una settimana di lavoro, mi va di fare una passeggiata nell’ampio spazio del boulevardi, c’è un leggero respiro di vento nell’afa, che agita delle bandierine su un filo sospeso sulla mia testa. Strizzo leggermente gli occhi, per leggere un 20 quasi microscopico, verrebbe da non farci caso.
La mia meta è il Museo, sotto l’impalcatura ….un cartello e, d’un lampo, la mente elabora, tutto sta diventando chiaro…..
come ho fatto a non pensarci prima….e comincio a camminare all’indietro, nella macchina del tempo, in un turbinio, anch’io forse faccio parte di uno dei quei film dagli effetti speciali, indietro, catapultata….a riemergermi nel tempo, nelle sensazioni, cominciano a tornarmi in testa certe immagini, flash back, certe sensazioni….di un’altra vita..
La porta del Museo celata dall’impalcatura è in penombra, ma spalancata, salgo i gradini assolati e caldi, il vecchietto sulla scala mi guarda col suo volto grinzoso, gli sembro strana e straniera e non sa che io ho già incontrato mille volti della sua terra.
Sto viaggiando nella mia memoria. Entro, nella penombra del piano terra, le foto della visita di Madre Teresa sono scomparse per far posto ad una sequela terribile in bianco e nero di volti di bambini, di adolescenti dagli occhi atterriti, grandi, spalancati sul vuoto. Ognuno ha un grande cartello appiccicato sulla maglietta sdrucita dove una mano ha tracciato, come uno schizzo, un nome e un cognome, a lettere stampatello. Li guardo con attenzione, cerco un segno, un sorriso che non c’è, un’ espressione che mi risvegli qualcosa, un frammento di ricordo…..non lo troverò…
Sono i rifugiati dell’Ambasciata tedesca del 3 luglio 1990, venti anni oggi, il mio appuntamento con la storia.
C’è un signore corpulento accanto a me, non so dargli una nazionalità e poi capirò perché….. guarda un ragazzo scarmigliato che lo fissa dal muro, se non fosse per le sopracciglia e la bocca sottile diresti…. non può essere.. ma lui tira fuori dalla tasca un documento..nome e cognome corrispondono…parla inglese ma mi dice che se parlo italiano mi capirà..e dice che è lui la foto sul muro, lui il rifugiato dai tedeschi con suo padre e due zii.
Mi dice….”Vieni ti faccio vedere…. e mostra in una foto presa all’Ambasciata tedesca su un terrazzo.. il volto di un funzionario delle Nazioni Unite. Riconosco Steffan de Mistura e lui si ricorda che l’uomo accanto, dell’Ambasciata tedesca, parlava perfettamente l’albanese. Il giro continua, nella sala ci sono tedeschi, un irlandese, un gruppo, forse ebrei, ascoltano il corpulento albanese in un misto di linguaggio del mondo intero, in tedesco, in inglese, lui dice che è stato in Germania, in America, in Nuova Zelanda, in Spagna. Ancora non lo sa che mi farà poi un dono bellissimo leggendo per me dopo – al piano superiore – un’iscrizione in greco antico perché, soggiunge, un albanese legge il greco antico.
Vorrebbe tornare a Tirana, forse, ma.. della sua casa hanno preso possesso altre persone.
Lui diventa in quel labirinto di umanità dolorosa la mia guida: la sua presenza ha il potere di far riemergere dalla profondità dei miei ricordi, tutto.
È un pomeriggio di giugno, afoso come non mai, in quell’isola irreale che è l’Ambasciata americana, sospesa, lontana più dello spazio dalla realtà che è là fuori al cancello. C’è una quiete assoluta, da quando i sei fratelli sono partiti, tutto è immobile, manca persino la voce di Irene che si affaccia alla finestra e minaccia con un padella alzata di darcele di santa ragione perché ci colpevolizza di tutto. Anche il cane, quel figlio di volpe, non si vede in giro.
Sono sulla porta per uscire, ho già la borsa a tracolla sul fianco destro; e vedo un uomo magro saltare una siepe.. penso che forse un operaio della ditta all’interno del compound stia facendo una gara di salto con un altro, per ingannare la noia…. Ma non c’è nessun altro e d’improvviso, la mia attenzione è attratta dai suoi capelli arricciati e attaccati sul collo, dalla maglietta fuori moda, e, man mano che si avvicina di corsa, vedo il sudore copioso e l’espressione di assoluto terrore dipinto sul volto. Sale i pochi gradini d’un colpo, spinge con impeto la porta che sto tenendo e mi strattona sbattendomi addosso al muro e con un balzo di animale inseguito si accascia su una sedia. Ansima, gli occhi sono dilatati, ha l’odore della paura addosso mischiato ora a un altro, più acre. Mi accorgo che è sporco di sangue e anche le mie mani.
E che nell’urto violento il coltello che stringeva in pugno – non per aggredire ma per difendersi – ha tagliato la sua mano e bagnato la mia poggiata sulla borsa che mi ha miracolosamente riparato dalla lama. Il coltello ora è là gettato sulla scrivania in segno di resa. Ho pietà per lui, per il suo terrore infinito, non riesce a parlare, trema in modo incontrollato. Arriva una collega, cerchiamo di calmarlo, gli prendo la mano ferita e gli verso dello spirito, cerco di pulire il viso, di rinfrescarlo, la collega lo abbraccia come una madre farebbe
con un figlio, gli fa appoggiare la testa sulla sua spalla…….a poco a poco l’ansito si placa lasciando posto ad un pianto dirotto….senza più freni. Lui è solo il primo di tanti…
Sulla parete, ci sono dei documenti …….sono in albanese.. La mia guida mi traduce… è la storia che si riesuma sotto i miei occhi…
“Documento del Prefetto (?)..
Oggi l’Ambasciatore d’Italia de Andreis…viene a dichiarare che alle ore 10,20 un camion proveniente da Rruga Labinoti ….sfondando la cancellata è entrato nel recinto con a bordo 6 persone….
Nelle altre Ambasciate.. Rruga Kavajes …sono entrati…”
Tutto si sta srotolando sotto il mio viso…..quella gente che come cavallette scavalca l’inferriata, il camion che sfonda, la polizia che spara, prende in pieno l’autista e il camion ormai senza guida quasi addosso al fabbricato….
Saltano, uno ha uno strano fagotto sotto il braccio, un paio di scarpe nere, nuovissime “le ho portate con me per metterle quando andrò in Italia, voglio presentarmi bene…” dirà dopo.
All’improvviso mi pare di stare dentro il compound. Di vedere le persone andare e venire, i bambini che abbiamo soccorso..correre, quei due con addosso il pigiamino di mio figlio.. uno con il sopra.. lungo fino alle ginocchia e l’altro con il sotto tirato fino sotto le ascelle.. Vedo le donne incinte che avevamo fatto sdraiare per terra dentro l’alloggio lasciato dai Popa, nell’ombra della sera venire il medico dell’Ambasciata francese a visitarle, vedo il bambino cerebroleso in braccio alla sua mamma che spera di portarlo in America “perché lì lo cureranno”, le ragazze vestite a festa come per prepararsi ad una gita scolastica, e quel tipo spavaldo con il gruppetto, sicuro, un pò alla garibaldina che in un italiano forbitissimo mi dice: abbiamo amici, in Emilia Romagna, ci accoglieranno.
E vedo l’uomo che con le sue braccia muscolose afferra due sbarre della cancellata per far passare i bambini più piccoli e nel disperato tentativo di farlo lui stesso si lacera profondamente un avambraccio. Mi viene incontro eretto come un guerriero antico, con il sangue che cade copioso a gocce oblunghe sull’erba del prato. Non un lamento, solo il colore del viso che sta sparendo. Non ho mai curato un ferito ma vado ad istinto. Lo faccio sdraiare con il braccio alzato, e corro disperatamente a bussare ad una porta, chiedo uno straccio, qualcosa, una vecchia calza…forse mi pare di parlare e non parlo, forse è tutto così irreale, improvviso, in una sequenza veloce e incredibile, strappo con forza un lembo di lato della mia comoda gonna ed ecco, è fatto, ho legato il braccio. L’uomo a terra ora è silenzioso, assente, perso, la sera il medico francese gli somministrerà una fiala di antitetanico che, Dio sa come, era l’ultima delle mie medicine portate dall’Italia.
E vedo formarsi gruppi come in villaggio di montagna, accovacciati sotto i radi alberi che hanno strani fagotti bianchi appesi. Capirò dopo dall’odore acidulo che porta il vento, è latte cagliato. Ci sono anziani che sono stati aiutati a scavalcare, issati come su una seggiolina e deposti con cura. Adolescenti che entrano ed escono eccitati, sgridati da madri spaventate. E la polizia che improvvisamente è immota, disorientata, come un attore che non sa più qual è la sua parte.
Il numero cresce, è quasi impossibile camminare nel parco….dicono che sono arrivati quasi a mille. L’aria della sera è clemente e la notte tranquilla. C’è attesa ma nessuno sa di cosa….c’è speranza …certamente di qualcosa migliore di quello avuto finora, alcuni guardano il cielo limpido e dicono che non hanno pensieri, il futuro è come il buio della notte. Il cibo portato sotto il braccio basterà per uno, due giorni, poi qualcuno prenderà qualcosa da un braccio pietoso che passa tra le sbarre ma le bocche sono tante ….
Il pane ritirato dai furre buke di mattina presto con un camioncino sembra molliche per un formicaio, eppure mangeranno: la moltiplicazione dei pani nella terra del comunismo più terribile. Le minestre di fortuna cucinate dalle volenterose signore è per le donne incinte. Gli armadi vengono svuotati di tutto quello che si può, tutto diventa per noi inutile e per loro essenziale, anche una nostra parola di conforto, una nostra presenza silenziosa nel giro della sera.
Dovrò pure tornare a casa, trascinandomi dietro mio figlio e altri due bambini dei colleghi. Fuori c’è una piccola folla davanti ai cancelli. In verità devo fare appello al mio coraggio, alzo la testa e tiro dritto riparando dietro di me i bambini. Dico “Problem?” al poliziotto che mi vede ogni mattina. Lui mi guarda, con rispetto: “Ska problem, madam ….” e si discosta dall’uscita. La piccola folla tace ammutolita, ritraendosi, è un attimo, fuori c’è la macchina in moto, carico i bambini, salgo e l’autista parte sgommando, prima che un violento calcio raggiunga la portiera. Ma è solo uno.. Respiriamo.
Passano i giorni, la situazione igienica è terribile, anche se confinata al limite estremo del parco, ma non c’é abbattimento, esiste la sola percezione di una separazione, – noi dentro, loro fuori -, e questo da un senso irreale di calma ai rifugiati. Arrivano le notizie che anche presso le altre Ambasciate ci sono rifugiati. All’Ambasciata tedesca, appena ultimata, hanno divelto anche i tubi per avere un po’ d’acqua per lavarsi. All’Ambasciata francese la polizia ha inseguito un rifugiato fin dentro il giardino e aggredito l’Ambasciatore ma si dice che l’Ambasciatrice ha difeso suo marito strattonando il poliziotto…
Scorro ancora i documenti….con la mia guida.. su un altro foglio ingiallito dal tempo lui mi traduce che l’Ambasciatore italiano è stato convocato …. Gli è stato chiesto il suo commento e più o meno la sua risposta è stata… quello che è accaduto doveva accadere … che cosa potevamo fare…
Nessuno al momento sa quel che accadrà… ma accadrà. È l’ultima notte. L’ombra acuisce il senso di sgomento, la consapevolezza che la partenza, la separazione, saranno la lacerazione che porterà il dolore dei figli di un popolo per il mondo.
La Germania ha vinto la Coppa del Mondo e i rifugiati presso l’Ambasciata possono lasciare il paese. (foto © Peter Gebert)C’è un ultimo atto da rappresentare su questo palcoscenico: mentre il silenzio è rotto dal rumore assordante dei pullman in moto su Rruga Labinoti e da un altoparlante, due potenti fari sparano la loro luce sui corpi dall’andatura stanca e provata, sui visi disfatti ma dove ancora non si è perso un velo di fierezza e di speranza. I bambini sono silenziosi ….
L’appello è terminato, le portiere sbattono, vengono sigillate, le gomme sembrano grattare l’asfalto consunto ma lentamente i pullman si avviano e il buio inghiotte nel suo tunnel nero questa colonna di umanità dolente. Non dimenticherò mai il lento cigolare sulla ghiaia del grande cancello nero mentre si chiudeva.
La notte venne ansiosa con mille interrogativi. Le onde del mare di Durazzo sembrava frangersi fino alla cancellata. Erano lontani e noi li accompagnavo con il pensiero, ho pregato per il loro dolore, per le loro speranze, per quello che li attendeva.
È un giorno di luglio irrespirabile, l’afa è terribile, prende alla testa e il Dajti è coperto, nero, ingrugnato. Sento un bisbiglio leggero, come se un vento provi a muovere dei fogli di carta velina con leggiadria, poi comincia un picchiettio sull’asfalto rovente e polveroso, e insiste, le chiazze si allargano, cade una pioggia sempre più fitta e violenta.
Su Tirana, quel giorno, si rovesciarono le cataratte del cielo. Non aveva mai piovuto finché i profughi rimasero con noi ma quel giorno venne giù un temporale con tutta la sua violenza, il vento scuoteva gli alberi del compound, li sferzava, presto si formarono rivoli d’acqua che correvano per tutto quello che era rimasto dei prati e si insinuavano sulla ghiaia dei vialetti. L’acqua portò via l’odore acre del latte cagliato e del passaggio di una dolorosa umanità.
Il 14 luglio 1990 lasciammo l’Albania su un aereo dell’Air France con scalo a Bari.
Seconda parte
Una speranza
Tornare dopo venti anni. Sono tanti ma, come dice Citati, devi aspettare un secolo per dare senso alla storia di un popolo. Vorrei che questa parte di storia la scrivessero per il loro Paese quegli uomini che andarono via ed i loro figli.