Attraverso una testimonianza diretta si ricostruisce brevemente la questione ciamuriota che oggi due partiti albanesi cercano di porre all’attenzione del fattore internazionale per trovarne una soluzione.
“C’è la pasqua ortodossa e i nostri vicini sono tutti vestiti a festa. Mia madre mi fa correre avanti indietro per tutte le camere. Dobbiamo pulire e lucidare tutto, mettere le tende buone, quelle lavorate insieme a mano con l’uncinetto. È domenica, le piante vanno curate ed il cortile pulito, poi, tutti di corsa a lavarsi e pettinarsi. La pasqua dei vicini ha messo gioia anche tra i muri di casa nostra e loro verranno sicuramente a portarci le uova colorate e condividere con noi la loro festa”.
È cosi che Pembe Rushiti, originaria di Ciamuria, ricorda l’infanzia nella sua terra.
“Eravamo tutti amici, ci si conosceva e frequentava. La feste religiose, sia ortodosse che mussulmane, erano tali per tutti. Scambiavamo i regali e chiedevamo in prestito qualsiasi cosa, tranne il sale, che sia per noi sia per loro, non andava dato a nessuno a cui non volevi male.
Vivevamo in completa armonia. I piccoli giocavano tra di loro senza notare alcuna differenza e le madri erano serene se i figli si fermavano a mangiare a casa degli amici. Avevamo una cucina tanto simile che spesso ci si recava a vicenda nelle case dei vicini a chiedere qualche ingrediente e suggerimenti. La nostra casa era sempre aperta, lo stesso la loro. I nostri mariti erano amici. Si frequentavano e salutavano con baci ed abbracci.
A Ciamuria, maggiormente popolata dagli albanesi ma anche tanti greci, i saluti con il bacio tra gli uomini erano segno di profonda stima ed amicizia. Eravamo quasi tutti benestanti. È risaputo che i ciamuroti sono capaci di tirare fuori del pane dalle pietre. Ci consideravano capaci ed onesti. La maggior parte di loro lavorava nelle nostre terre. La Ciamuria era dei ciamuroti, finché…”
Si ferma per respirare l’ormai anziana Pembe. È via dalla sua terra da quando era bambina ed oggi porta sulle spalle il peso dei suoi 83 anni. È lucida ed ha voglia di raccontare ma il cuore ha bisogno di respirare e di calmare i battiti. La sofferenza patita nei decenni precedenti che ancora oggi non è svanita le ha reso il cuore debole.
“Sentivamo che qualcosa nell’aria stava cambiando. I nostri amici greci ci frequentavano sempre meno. Da lontano ci mandavano saluti con la testa e con gli occhi spaventati e pieni di pietà. Sembrava ci volessero dire che erano impotenti”.
È un passato travagliato quello dei ciamuroti. È nell’agosto del 1913 che la Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze a Londra nel stabilire la linea di confine meridionale del nascente stato albanese, ha assegnato quasi tutta la regione di Ciamuria alla Grecia. Le prime rivalse sui ciamuroti furono, per cosi dire, una sorta di assimilazione forzata.
Le fu vietato parlare la lingua albanese, furono obbligati a pagare tasse inaffrontabili e frequentare le scuole greche. Per la Grecia, non erano altro che forestieri mussulmani trapiantati in una regione considerata sua da sempre, senza tenere conto che studi storici e geologici dimostrino la loro autoctonia.
Nel 1923, vengono inclusi nello scambio di popolazione tra la Grecia e la Turchia al termine della guerra tra i due stati fatto sulla base dell’appartenenza religiosa e non etnica. Almeno 20.000 ciamurioti mussulmani furono trasferiti controvoglia in Turchia. 20 anni più tardi la storia si ripeterà con conseguenze catastrofiche.
Correva l’anno 1940, in piena seconda guerra mondiale. L’allora dittatore della Grecia, Ioannis Metaxas, che fin a quel momento aveva cercato di tenere il suo paese fuori dalla Seconda Guerra mondiale, non cedette alle pressioni di Mussolini che insisteva ad occupare alcuni siti strategici in territorio greco per l’intera durata del conflitto con la Gran Bretagna. Con la storica frase di Metaxa “Che guerra sia”, come risposta all’ultimatum dell’Italia, quest’ultima aggredì la Grecia.
Nell’ottobre del ’40 le truppe di Mussolini covaudate da alcune unità della milizia albanese formata all’interno dell’esercito italiano che si unirono credendo di combattere per riconquistare la Ciamuria, occuparono la Grecia entrando dall’Albania, annessa dall’Italia l’anno prima. Occupazione che durò ben poco grazie alla preparazione strategica del dittatore generale Metaxas che indietreggiò i fascisti, occupando anche parte dell’Albania meridionale.
L’accusa di collaborazionismo con i fascisti che la Grecia rivolgeva ai ciamurioti fece da bandiera per il triste destino della comunità ciamuriota mussulmana. Iniziarono cosi interminabili sofferenze.
Il 27 giugno 1944 più di centomila ciamurioti albanesi, presero la via di fuga verso Albania.
In questa data, almeno 600 di loro, circa 3000 nel corso di due mesi, per la maggior parte donne e bambini furono violentati, torturati, uccisi e fatti a pezzi. Atrocità indescrivibili su corpi senza vita. Padri e mariti hanno dovuto scavare tombe comuni per i resti, prima di essere, a loro volta, uccisi o espulsi in Albania.
“Avevo solo diciassette anni, scappammo di corso appena ci giunse voce che l’esercito si stava avvicinando – racconta con voce tremante Pembe Rushiti. Mio padre era un imam, saremo sicuramente finiti in mano a dei macellai. Alcuni dei nostri vicini greci aprirono le porte per farci nascondere da loro ma il rischio era troppo alto. Eravamo terrorizzati. Mio padre nascondeva nelle mutande il titolo di proprietà dei terreni e sapeva che se l’avrebbero trovato insieme a noi, saremmo finiti tutti in cibo per le formiche. Perciò andò avanti diversi metri e fece finta di non conoscerci. Ricordo ancora la scena più agghiacciante della mia vita”, singhiozza fortemente l’anziana. Le lacrime le coprono il viso fiero e generoso, giungono al mento e cadono a mo di rubinetto sulle sue mani posate l’una sull’altra davanti al busto, e cosi riprende a raccontare.
“Erano in due, non erano dell’esercito, o per lo meno non sembravano. Lei era da sola. Vestita di bianco, evidentemente avevano ucciso suo marito (in segno di lutto a Ciamuria si porta il velo bianco e si aborra il nero). Ci eravamo uniti alla massa e ci stavamo incamminando verso l’Albania. La sentii urlare e chiedere aiuto. Buttata a terra e presa a botte, e poi violentata nel modo più macabro. Non so quante volte, non ricordo e non le ho contate. Mi tappavo le orecchie e piangevo impotente. La sentivo ugualmente. Dopo di chi un attimo di silenzio. Pensai fosse finita, lei ha ricevuto la sua condanna dai greci, invece no. Qualcuno tiro fuori un coltello e le aprì la pancia. Era incinta all’ottavo mese. Il feto venne strappato fuori e lasciato morire insieme a lei. Qualcuno di loro grido: “Non ci saranno più ciamurioti. O greci o morti”. Capimmo che era l’unica via d’uscita. I nostri uomini erano morti nell’affrontare un nemico spietato e senza fede. Potevamo portare con noi solo i ricordi e leccarci le ferite ancora oggi aperte”.
Oggi, in Albania ci sono oltre trecentomila ciamurioti. Il comunismo avvenuto dopo la seconda guerra mondiale mise a tacere il tutto e della Ciamuria non se ne senti più parlare per più di mezzo secolo. In ricordo delle vittime di questo genocidio si è fatto tanto a partire dagli anni novanta ma nulla di concreto è stato sostenuto dai governi che si sono alternati.
Le varie associazioni di Ciamuria ed oggi anche i partiti politici che li rappresentano continuano da anni ad alzare la voce sul diritto di tornare nelle loro terre e il riconoscimento internazionale del genocidio. Il nemico però sembra sia tra le mura di casa. Nonostante il 27 giugno sia riconosciuto dal 1994 dal parlamento albanese come il giorno della commemorazione delle vittime del genocidio, nessun governo ha mai veramente preso di petto la questione di Ciamuria e chiesto spiegazioni sulla negazione dei diritti degli originari.
Intanto, la Grecia europea continua a negare l’esistenza di questo massacro e la sua ambasciata a Tirana il diritto elementare dei ciamurioti di visitare la loro terra, rifiutandoli il rilascio dei visti.
Atti questi che dimostrano chiaramente l’ostilità e la paura della Grecia che i ciamurioti possano tornare nelle loro terre e dimostrare che siano originari. Come parlerebbe chiaro il titolo di proprietà di cui raccontava Pembe e che la maggior parte dei ciamurioti ha portato con se. Magari lasciando dietro il mangiare, ma quel documento sapevano che avrebbe potuto portarli di nuovo nelle loro terre.
La vergogna della quale si è macchiata costerebbe molto alla Grecia qualora venisse ammessa. L’Europa silenziosa sulla vicenda non potrebbe più fare finta di niente e considerarla una questione tra Albania e Grecia. Essa stessa si macchierebbe di colpa e leggerezza nell’aver permesso allo stato ellenico di ignorare la questione ciamuriota e non aver mai chiesto perdono.
In ricordo delle vittime e per richiedere il diritto di visitare le proprie terre e il riconoscimento del genocidio, il 27 giugno scorso, Shpëtim Idrizi, leader del Partito Giustizia e Unità (PDU) che fa riferimento alla popolazione ciamuriota d’Albania, insieme ad altri politici e molti ciamurioti sono scesi come ogni anno nelle maggiori piazze albanesi. La busta con l’invito è stata consegnata anche all’ambasciata greca di Tirana che senza aprirlo l’ha rispedita al mittente all’interno di un’altra busta.
L’organizzazione di quest’anno non ha uguali. Pullman pieni di originari della Ciamuria hanno viaggiato verso la bellissima città albanese di Saranda con il suo mare meraviglioso e le montagne mozzafiato per salutare la loro Ciamuria che dista a pochi metri. Proprio nella provincia di Saranda, nel luogo chiamato “Qafe e botes” da cui entrarono i ciamurioti scappando dalla Grecia e vicino al quale si trovano le loro tombe comuni, è stato il punto d’incontro delle due marce organizzate dal PDI ( Partito Giustizia e Integrazione) e il PDU.
La promessa e la speranza di Shpetim Idrizi, leader politico del PDU è la stessa dei presenti in questo grandissimo evento. Quella di fare tutto il possibile, bussare in tutte le porte, parlare fino all’ultimo respiro e pretendere senza sconti il riconoscimento del massacro e il diritto di tornare a vivere nelle loro terre, le quali hanno preso vita con i ciamuri ed hanno dato da vivere anche agli stessi greci.