Oggi, per Albania News ed i suoi lettori, è presente il nuovo cineasta ed antropologo albanese Joni Shanaj.
Lui ci raggiunge per realizzare insieme una conversazione sullo scambio di opinioni sulla sua attività professionale, sulle tematiche che attualmente interessano la società albanese e soprattutto per riportare le ultime novità sulla realizzazione del suo recente film, “Pharmakon”, nelle vesti di regista e sceneggiatore.
Joni Shanaj è nato a Tirana nel 1976. Ha svolto gli studi universitari in Svezia, indirizzo Antropologia Sociale.
Ha realizzato da regista il documentario “Ivi Tirana Punk”.
“Pharmakon” è il suo primo lungometraggio artistico.
Il film “Pharmakon” ha partecipato quest’anno – seguito da un’ottima critica – a vari festival importanti come quello di Göteborg International Film Festival, Svezia, occasione in cui fu presentata la sua prima visione internazionale, all’ East End Festival Londra – dalla splendida accoglienza – e ad una serie di altri festival, tra cui, il Festival Internazionale del Film a Lucerna, Svizzera, in cui gli è stato assegnato il premio Award of Merit.
L’avvenimento più importante – oltre all’assegnazione del Premio Speciale della Giuria al 13-esimo Festival del Film Albanese – consiste nel fatto che al film “Pharmakon” è stato riservato uno spazio particolare nella rivista più prestigiosa della cinematografia mondiale, SIGHT and SOUND, January 2013 Issue.
Tra gli altri interventi positivi da notare c’è la classificazione di “Pharmakon” come “Masterpiece” dal noto critico cinematografico mondiale, Mark Cousins.
“Pharmakon” è stato presentato in tutte le sale dei cinema albanesi, come Millenium, Agimi, Imperial Sheraton e Kristal.
Nel frattempo, all’undicesima edizione del Levante International Film Festival a Bari, Italia, il premio “Miglior Attrice” è stato conferito proprio all’attrice albanese protagonista del film “Pharmakon”, Olta Gixhari. Con il ruolo di “Sara”, in questo film l’attrice debutta sul grande schermo, avendo interpretato precedentemente diversi ruoli a teatro.
“Pharmakon” è il più recente progetto cinematografico di “Zig-Zag Film”, prodotto da Mevlan Shanaj, finanziato dal Centro Nazionale Albanese della Cinematografia e dalla Televisione Albanese.
Trama del film “Pharmakon” riportato dall’autore stesso:
La madre di Sara, una giovane e bella ragazza che presta servizio presso l’azienda ospedaliera di Tirana, soffre di un tumore. Come noto, i nostri ospedali non offrono le adeguate cure per tali gravi malattie. A Sara ed a sua madre è stato offerto il sostegno da parte del capo del padiglione, dott. Socrate, medico oncologo dalla lunga esperienza, che gode di un’ottima reputazione da specialista di vecchia data.
Sara si trova alle dirette dipendenze del dottor Socrate. In cambio del sostegno per la cura della madre, il medico le ha chiesto delle prestazioni sessuali. Sara ha accettato e la relazione tra l’anziano medico e la ragazza diventa un legame segreto, come è solito nelle relazioni di questi tipo. Il dottor Socrate ha un figlio di 25 anni che si chiama Branko. Durante le sue visite in ospedale per andare a trovare il padre, Branko ha notato Sara e ne è rimasto particolarmente affascinato.
Sara risponde all’interessamento del ragazzo e i due giovani iniziano una relazione apparentemente normale, semplice ed ingenua. Padre e figlio non sono a conoscenza delle loro rispettive relazioni con Sara. Al centro del film si trova Branko, attraverso cui noi seguiamo la trama. E’ questa la trama, o diversamente chiamato, l’asse narrativo su cui è stato creato il film.
Questa fabula è stata appositamente creata da me sotto forma di un problema, che ironicamente chiamerei “matematico”. Dunque abbiamo ottenuto un’equazione con minimo due incognite che dovrebbe essere risolta da Branko.
Da un lato, il rapporto con il padre, dall’altro, quello con la ragazza che ha conosciuto da poco. D’altro canto, questa fabula è stata costruita su un determinato contesto. Da una parte, nello sfondo appare un sistema sanitario fallito, il quale non riesce ad offrire neanche le cure di base; un medico, in possesso di una farmacia, che rifornisce parzialmente con i medicamenti destinati all’ospedale pubblico; un giovane ragazzo che lavora nella farmacia del padre e che lo accusa di rifornire la sua farmacia con medicine scadute e, una ragazza che rimane quasi indecifrabile.
La struttura drammaturgica del film così come le relazioni tra i personaggi, sono stati costruiti in queste circostanze, come parte di un ampio contesto sociale e strutturale nell’Albania odierna.
Salve Joni, contemporaneamente al benvenuto in Albania News, le porgo le mie congratulazioni per il successo del suo film, “Pharmakon”!
Grazie Adela ed Albania News.
“Pharmakon”, il suo primo lungometraggio artistico, la sua prima opera nelle vesti di regista – sceneggiatore. Riportare una tale tematica sul grande schermo, ha avvertito ciò come una necessità interiore?
Alcuni anni fa avvertii che dovevo fare qualcosa contro il deterioramento interiore del sistema patriarcale in cui si era immerso il mio paese. Non si tratta neanche tanto di cose esterne, quanto cosa sia di per sé il meccanismo del potere stabilito su un sistema che nel nocciolo ‘ inghiottisce’ i suoi propri figli. Intendo dire l’avidità degli egoismi che involontariamente colpiscono il presente ed il futuro altrui.
Sentivo la necessità di realizzare questo film, non solo per fare un passo oltre, ma anche come liberatorio, potrei dire.
“Pharmakon” costituisce per me lo spazio intermedio per il superamento di una soglia che va oltre a ciò che si presenta sotto forma di una fabula. E’ da tempo che credo nella sovversione del cinema e, fino ad un certo punto, allo spruzzare nell’aria di una “soluzione” mentale, che, coscientemente o meno, potrebbe mettere in atto qualcosa nella mente o nel subconscio.
Per fare ciò, mi occorreva del materiale proveniente anche dal mio stesso subconscio, in cui non ho esitato a frugare. Il mondo interiore e quello esteriore sono collegati e il film li coinvolge entrambi.
Quando un tempo, chiesero a William Burroughs quale sarebbe stata il suo più grande successo letterario, lui avrebbe risposto dicendo: “ Riuscire ad uccidere qualcuno con una sola frase”.
Esiste un’antica trasgressione tra la magia ed il testo scritto, da cui deriva anche il termine “Pharmakon” al “Fedro” di Platone ed in seguito, nella “Farmacia di Platone” di Derrida. Così come il testo scritto, anche il film, nel momento in cui esce, potrebbero essere visti come distaccati dall’autore oppure dalla sua diretta influenza. Non mi dilungo oltre, in quanto dovrei immergermi in questi due testi che non possiede l’autorità di spiegare.
Io semplicemente, ho realizzato un film con lo scopo di colpire la mitologia di uno status quo che non gradisco.
Dalla “Farmacia di Platone”, “Pharmakon” eguale ad un’esplosione di significati contrari, tali: veleno – cura; vita – morte; il bene – il male; padre – figlio; essere – diventare; bello – brutto; giorno – notte; ecc..
Le rappresentazioni scenografiche del suo film, non corrispondono – parzialmente – agli antagonismi ed ai dilemmi umani, contro cui l’uomo combatte quotidianamente, in modo diretto od indiretto, indipendentemente dall’impostazione di un determinato contesto?
Non saprei, io credo nelle rivoluzioni interiori, o meglio: nelle continue rinascite di sé stessi. Per questo, le tecniche portatrici del pensiero come la scrittura, dunque la parola scritta, ed in seguito il film, quindi la figura ( in quanto sussiste ad ogni modo una differenza tra la conversazione e l’immagine) potrebbero essere dei mezzi per toccare il passato, immortalarlo nel tempo e forse, la cura per il presente o per il futuro.
Rimangono tecniche portatrici del pensiero, sincronico e diacronico contemporaneamente. Il pensiero è in movimento in ognuno ed in continue negoziazioni, qualunque siano le sue circostanze, nonostante sia legato al carattere determinato delle culture e delle persone. Ma credo totalmente ed universalmente che gli eventuali eterni tentativi intellettuali saranno verso l’apparizione della verità.
Non tutte le persone sono predisposte al cambiamento delle cose e sfortunatamente non riescono a comprendere che esse cambiano indipendentemente dalla loro presenza o assenza. Peggio ancora, ci sono delle persone che vorrebbero che le cose regredissero in momenti di confusione, altri ancora abili ad approfittare dai cambiamenti riportati da altrui. Ma questo, nel complesso non è poi così importante. Colui che porta dentro di sé l’impulso e l’esigenza di una spinta che oserei definire ‘hegeliana’ verso la libertà – penso che mi capisce – credo venga beninteso da quell’altra parte di persone nel mondo, con cui condivide simili sensazioni.
Siamo collegati gli uni agli altri, più di quanto immaginiamo, in quanto viviamo nello stesso globo ed il respiro del tempo è uguale per chiunque, in tempi in cui nulla dell’essere umano è estraneo a nessuno.
Lei ha riportato alcune contraddizioni oppure opposizioni binarie, ma io credo in più in ciò che è intermediario ed indefinito. In questo spazio, credo nella forza della sintesi dialettica, sebbene all’interno di contesti oppure della conoscenza condizionata in situazioni non volute.
Da popolo molto traumatizzato, gli albanesi sfortunatamente hanno voltato le spalle alla verità. Dall’altro canto, sono convinto che ciò che stuzzica un albanese, non è estraneo a nessuno e viceversa.
La riuscita di questo film, la considererebbe “un’arte”?
Lei stesso, perché ha scelto proprio il cinema per l’espressività del lato artistico che percepiva probabilmente di possedere?
Perché mi posso presentare da autore, si tratta di una scelta razionale, così come una persona sceglie un’arma in guerra o addirittura, in un videogame.
A volte, persino mentre osservo delle persone che giocano a ‘candy crash’, ho come la sensazione che stiano commettendo un atto artistico.
La vita stessa porta talmente tanta arte dentro di sé, che un film è forse meglio che rimanga un semplice film.
Nel caso in cui non avesse scelto il cinema come “paladina” dell’arte dentro di lei, quale sarebbe stato l’ambito che avrebbe scelto per dare spazio alla sua passione artistica?
Nel momento in cui una buona parte degli artisti visuali precipita verso il cinema, dunque cercano di avvicinarsi sempre più al film, io desidero andare verso l’arte concettuale. Percorro un altro senso, ma apparteniamo alla stessa via.
L’arte di per sé potrebbe rappresentarsi sotto varie forme, sia nella crescita di un figlio, in una gara di automobili, in cucina o in una ricetta culinaria, persino nella politica. Probabilmente, buona parte della gente si occupa di “arte”, nel termine prettamente noto a livello mondiale, per sentirsi ad un certo senso più liberi, in quanto esiste un cliché mondiale che accetta dei limiti più ampi nella vita per gli artisti. Spesso in giovane età, noi diventiamo vittime di questo mito, ma ciò non necessariamente rende gli altri, meno ‘artisti degli artisti stessi. E’ una sorte di elemosina che la gente delle convenzioni attribuisce agli artisti, in quanto credo che in fondo, nutre una sorte di rispetto per i loro rischi.
Non saprei se l’arte si trova dentro o fuori di noi, ma so che tutti noi possediamo l’arte in differenti frequenze. La creatività umana si presenta sotto varie forme, e proprio in questo consiste il bello della vita. Gli artisti non sono persone diverse dalle altre, questa è una delle più grandi bugie, di cui preda, spesso cadiamo persino noi stessi.
Ciò che realmente vale è l’impegno, l’arte di per sé e, il più grande valore consiste in ciò che è apparentemente inutile, dunque che non porta alcun valore in apparenza. Nel momento in cui cogliamo ciò, capiremo ad amare profondamente l’uomo, e da questo momento in poi, l’arte avrebbe fatto al meglio la sua parte.
Ho come la sensazione che – oltre l’intento di riportare allo schermo un determinato lato della società albanese – è stata anche la sua formazione da antropologo sociale a spingerla di mettersi alla prova in un tale confronto. E’ forse errata questa mia percezione?
Non saprei, mi pare che gli antropologi hanno una missione che, a lungo andare viene colta soltanto da altri antropologi, oppure da qualche filosofo o erudita. Proprio per questo, la loro influenza è generalmente molto consistente.
Io mi sono fatto influenzare maggiormente in questo film da Freud e da Derrida, così come da una serie di cineasti, di cui potrei nominare di aver coinvolto parzialmente Pasolini e Bresson.
Non sarei in grado di evidenziare il legame diretto tra l’antropologia ed il film “Pharmakon”, ma se non mi fossi laureato in antropologia sociale, nel periodo tra la prima e la seconda versione del film, probabilmente il film non avrebbe avuto i contenuti che realmente ha avuto in seguito.
Generalmente, il mio lavoro accademico ha fatto sì che mi dimostrassi più paziente nell’elaborazione di una o più idee, questo anche per il fatto che, personalmente amo i film che sono più semplificati e che non sono dotati di grandi complicazioni nell’ essere compresi, ma si presentano dal tono più diretto e spontaneo.
Nella prima versione di “Pharmakon” c’era più sangue, droga e violenza, e forse anche delle uccisioni. Era diversa la prima versione. Probabilmente è successo qualcosa strada facendo e questo lo noto nel confronto delle due versioni, prima e dopo.
Ho tentato di arrivare al nocciolo di una problematica e per questo, forse l’antropologia mi ha aiutato ad un certo modo.
Nella società albanese – che non necessariamente è diversa dalle altre società – come “ si scontra” il lato sociale con quello culturale dell’antropologia?
Penso che gli albanesi effettuano degli scontri continui come tutti gli altri popoli, con le strategie di sopravvivenza che in determinati momenti devono, oppure pensano di dover seguire. Generalmente, le circostanze economiche, culturali e globali mutano più rapidamente di quanto ne siamo in grado di adeguarsi.
Dovremmo accettare il fatto che non siamo mai stati centro di notevoli sviluppi, ma che ci siamo mossi per inerzia a rapporto con il mondo e portando con noi un’eredità a volte pastorale, a volte post – coloniale, a volte post – socialista e oggi, semplicemente rappresentando la fusione di questi tre concetti amalgamati tramite una sperimentazione applicata come “ una beffa” di una versione estrema neo – liberale, trasformata da noi in una realtà. Questa è proprio la nostra distopia.
Dall’altro canto, dal punto di vista culturale, il popolo albanese per me rimane un modello multiculturale e che fa da esempio in questo senso, simile agli abitanti che oggi abitano i più grandi centri metropolitani e gli epicentri culturali mondiali. Questo lo dico in quanto, mentre abbiamo una società che fatica a sintonizzare il moderno, il post – moderno ed il tradizionale, abbiamo un popolo, che per vari aspetti, è molto emancipato in direzioni che vi assicuro, ad altri occorrerebbero dei secoli a superare.
Dovremmo fare attenzione a preservare tutto ciò, perché se questo viene perso da parte nostra, perderemmo la nostra particolarità. Ci tengo a precisare che per vari aspetti, siamo molto più aperti e predisposti alle novità, noi albanesi che altri, nonostante quest’ultimi siano più forti economicamente di noi.
Agli albanesi occorre del tempo per adattarsi alle tecniche della civiltà, questa rimane senza dubbio una sfida continua. La civiltà fondata sui valori e la legge è l’unica chiave di cui abbiamo bisogno, per trasformare la nostra forza vitale della varietà e particolarità, in un potenziale creativo.
Non dimentichiamoci che abbiamo una popolazione giovane. Deteniamo il più grande potenziale creativo possibile e la più grande ricchezza che questo mondo possa mai possedere. Ciò richiede della genialità intellettuale e dirigente, per riuscire a convertire il lato migliore e più potente in nostro possesso, in energia per il progresso e non in implosioni continui interiori, che danneggiano intere generazioni.
Occorre una nuova élite creativa che sappia collaborare, che sappia superare il proprio disprezzo come uno strumento solo apparentemente flagellante, ma in realtà, vero oppressore del proprio popolo.
L’odio verso sé stessi ed il disprezzo nei propri confronti, che caratterizza tutti i popoli oppressi, sofferti e poveri come il nostro, sono stati usati sfortunatamente da una certa élite cinica per sfruttare e derubare questo paese nelle forme più avide.
Spero che un’ intera generazione diventi ormai intelligente al punto da capire e da posizionare l’interesse comune, al di sopra delle nostre piccole invidie. Questo è valido per tutto il mondo, ma in questo caso stiamo parlando dell’Albania.
Sul set da ripresa, si è sentito un regista sicuro o avvertiva della paura? Con gli attori e tutto lo staff tecnico, come si è rapportato?
Buona parte dei registi diventano tali proprio con l’intento di sentirsi registi sul set. Sono tanti coloro che amano più di ogni altra cosa, interpretare la parte del regista. Non mi sembra di appartenere a questa categoria.
Io stavo facendo un film diverso da ciò che gli altri avevano fatto precedentemente. Era tutto attendibile. Sul set mi comportavo come ogni artista, alle prese con il suo materiale da lavoro, a volte più sicuro di me, altre ancora, più attento.
Quando sul set, a ciò che aveva in mente – e che conosceva soltanto lei – avrebbe dovuto far prendere forma e condividere con gli altri, quanto le è stato difficile?
Nel film occorre riservare dello spazio agli altri, per poter permettere loro di iniziare ad operare, laddove la tua fantasia terminasse. Ci si porge in mano all’attore una staffetta oppure una fiaccola, dopo averne indicato la strada. La strada, colui / colei, in seguito la effettuerà da sé, e tu semplicemente insegui con la macchina da presa.
Alla fine, una volta terminato il film, si ha l’impressione come se tutto fosse avvenuto da sé.
Avevo un progetto curato nei minimi dettagli e sono convinto che quando arrivi preparato sul set, questo si rispecchia. Ji-Hwan Park dalla Corea e Ram Shani da Israele, i miei due principali collaboratori come direttori d’immagine, erano le persone a me più vicine e coloro più chiari nelle esigenze che avevo. Questo è valso anche per Anton Lennartsson, il mio amico svedese e compositore del film.
Questo trio ha costituito i “tre moschettieri” di questo film.
Sul set, per scegliere il punto di collocazione della macchina da presa, questo è stato spontaneo da parte sua, oppure ci doveva ripensare e cambiare d’opinione diverse volte?
Nella sua formazione da regista – oltre a suo padre – quale un’altra eventuale figura a cui si è ispirato? Un regista albanese o straniero che apprezza particolarmente?
L’unica cosa che non è spontanea in un film, è la collocazione della macchina da presa.
Mi ero a lungo occupato dello scenario, dei luoghi da ripresa ecc.. Ma, ad ogni modo, ho lavorato senza una determinata scaletta. Con tali scalette lavorano tutti i registi amatoriali, istruiti nelle scuole un po’ ovunque nel mondo. E’ una mania che viene alimentata soprattutto dagli effetti della pubblicità.
Esistono vari tipi di registi, con varie tecniche a loro uso, ma io, questo “vizio” l’ho imparato da Antonioni, Rossellini, Pasolini e a volte, Ettore Scola. Sono questi quattro registi che ammetto, mi hanno influenzato di più sul mio modo di fare i film.
Ho nominato questi quattro registi italiani, ma inoltre potrei aggiungere, quasi in ordine cronologico per l’influenza su di me, anche Jim Jarmusch, Godard, Bresson, Melville, David Lean, Powell & Pressburger e soprattutto, Hitchcock.
Gli ultimi anni sto apprezzando sempre più il cinema inglese. Oggi ci sono alcuni particolari registi che raccomanderei, come Bertrand Bonello, Naomi Kawase o Carlos Reydagas. Nutro una profonda ammirazione per autori raffinati e coraggiosi come Ken Rusell, David Cronenberg, il quale è il mio preferito numero uno.
Raccomando ai lettori interessati al film qualitativo, di seguire la graduatoria annuale che stabiliscono le riviste come “ Cahiers du Cinéma” e “Sight & Sound” sui 10 film che loro considerano i migliori. Non è tanto importante l’ordine della classifica di per sé e nessuno la prende totalmente sul serio, quanto il fatto che seguendoli negli anni, ci si riesce a confrontare i migliori autori degli ultimi dieci anni e penso che tanta gente ha bisogno che sia indirizzata meglio su cosa significa “ il cinema” come arte di per sé. Dico questo in quanto, molta gente ama il film, ma non sa come orientarsi in questo ambito.
Gli attori da lei diretti, potevano improvvisare, oppure lei non consentiva loro tutto ciò?
Non più di tanto.
Un progetto ambizioso come “Pharmakon”, come è stato accolto dagli attori e da tutto lo staff tecnico?
A qualche rara eccezione, la percezione dello staff è come quella di un tornitore che produce pezzi di un motore – potremmo dire di un’Alfa Romeo – e un giorno compra una tale automobile per fare dei giri oppure per lusingare la sua prossima donna amata.
L’esperienza sul set? Il momento più bello e quello più difficile?
Prima dell’apparizione sul grande schermo, si preoccupava soprattutto dell’accoglienza da parte del pubblico, oppure di quella della critica?
La mia unica preoccupazione era di fare un bel lavoro e di non commettere delle sciocchezze. Ad ogni modo, verso la fine ci furono dei momenti in cui avvertii una sorte di timidezza nei confronti del pubblico. In quanto ai critici, sapevo che sarebbero stati dalla mia parte.
All’inizio delle riprese, si è sparsa la voce – non so perché e non so da parte di chi – che stavamo facendo un film erotico. Ci furono parecchie situazioni comiche inerenti a ciò. Un giorno, Olta, la protagonista arriva sul set piangendo, con un giornale in mano. Era del tutto naturale una tale reazione, in quanto a nessun altro attore / attrice, avrebbe fatto piacere sentir dire che stesse facendo un film erotico o pornografico. Ci fu una situazione tragi-comica, ma fu presto superata.
Una barzelletta a parte è stata quella collegata all’arrivo della Polizia ( Esattori delle Tasse) che ci imponeva le tasse da pagare per la struttura della farmacia che avevamo costruito appositamente per il film. L’Esattore delle Tasse non era convinto che si trattasse di un semplice decoro, di una finzione.
Quanto è importante oggi il ruolo del cinema albanese nel raccontare storie – soprattutto di quelle vere, strappate dalla realtà albanese – e quali, le reali opportunità per effettuare queste realizzazioni?
La cinematografia detiene un ruolo insostituibile nel rappresentare la trasformazione dell’immagine di un paese.
Questo è un noto cliché, ma nel nostro caso, veramente importante non è tanto come ci si presenta agli occhi altrui, ma come ci guardiamo noi stessi. Noi albanesi abbiamo bisogno di vedere ormai dentro di noi con un occhio diverso.
Quest’ultima costituisce a mio avviso, la battaglia principale dell’albanese dei nostri giorni. Nel caso volessimo cambiare la nostra attuale mentalità, abbiamo bisogno di conoscere e rispettare noi stessi e gli altri.
Per questo motivo, riconoscendo la potenza del film e del suo immediato impatto, credo che la cinematografia dovrebbe essere un assetto dalla priorità strategica culturale in Albania. Dico questo, tenendo presente la tradizione che abbiamo e la situazione in cui ci troviamo.
Il primo passo da effettuare consiste nel cambiare l’Albania dal punto di vista concettuale. Attraverso il film – artistico e documentario – potremmo conoscere il nostro presente in tutte le sue articolazioni e nel momento in cui, la sua visione ci appare chiara, anche gli altri la rispetteranno. Penso proprio che la cinematografia possa ottenere questo, naturalmente non producendo soli due film all’anno come attualmente sta accadendo.
Sono convinto che da noi, una trasformazione dell’immagine e del potenziale creativo, arriveranno automaticamente con l’incremento della produzione. Una società, per riconoscere sé stessa, necessita di riconoscere le sue proprie voci creative. E’ un intera generazione che attende di creare delle nuove articolazioni, ma dovrebbe creare questi legami a seconda della propria autenticità, non pensando di adeguarsi in base alle aspettative altrui o indovinando cosa fare per procurarsi una licenza di esistenza da poteri presupposti, ma che in sostanza sono inesistenti.
Secondo Platone – non so quanto lei condivide lo stesso parere – per analizzare un padre, occorre analizzare, più di lui stesso, suo figlio.
E’ condizionato in questa professione dal cognome che porta? Le aspettative che il pubblico “disegna” per lei, facendosi guidare dai nomi dei suoi genitori, noti in questo ambito – Mevlan Shanaj e Natasha Lako – impediscono, aiutano, complicano?..
Non è che penso tanto a questo.
La gente purtroppo, crede molto in definizioni di vario genere, iniziando dalla ormai decaduta mitologia dell’ereditarietà dei geni e del DNA nella determinazione del carattere e della personalità dell’individuo, per arrivare in teorie ancora più contorte di complotti globali. Nulla di tutto ciò è vero e non ha niente a che fare con la personalità.
Noi siamo un paese dalle risorse economiche molto limitate e attualmente, impossibilitati paurosamente ad autogestirsi e formulare da soli la missione generazionale.
Credo di avere instaurato dei legami più consistenti con la mia generazione, che con quella precedente alla mia. Nonostante parte di un tempo post-moderno, mi attira l’arroganza modernista nei confronti del passato. Ed è anche per questo che ammiro l’architettura e l’industria edile. Non mi piace affatto la tradizione, nonostante nutra un grande affetto per i miei genitori ed i miei nonni.
Joni da piccolo, ha mai seguito suo padre sul set da ripresa?
Molto meno di quanto lo desiderassi ora che sono cresciuto. Vi sono stato presente pochissime volte. Avrei voluto che mi avesse portato con sé un po’ più di frequente per poter conoscere più dall’interno il suo mondo e quello dei suoi amici, oltre il valico della casa.
I suoi attori preferiti – albanesi o stranieri – figure sia maschili che femminili?
Vincent Gallo e Joacquin Phoenix mi piacciono come attori, in quanto si sono rivelati nella loro continuità, i più interessanti. Nonostante questo, di attori validi ce ne sono tantissimi. Preferisco gli attori che mantengono una sorte di continuità e scelgono dei ruoli attraverso cui, prendono voce.
Da noi, un tale ruolo importante lo ha avuto ad esempio, Ndriçim Xhepa degli anni ’80. Per chiunque dallo spirito ribelle, Xhepa rimarrà un’icona di quei tempi. E’ stato una sorte di ‘enfant terrible’ di quel periodo e penso che abbia contribuito all’immagine urbana degli anni ’80, quando io sono cresciuto.
Gli attori albanesi generalmente sono stati dei talismani di libertà per noi. L’attore si presentava con la forza della libertà della vita stessa e destabilizzava ogni norma del sistema.
Questo è valido in tutto il mondo. Oggi questa linea, naturalmente in forma più concettuale e odierna, credo che la detenga Niko Kanxheri, il quale in questi vent’anni ha avuto la maggiore crescita professionale in Albania.
L’Albania ha degli eccellenti attori, dei quali sarebbe poco definirli delle vere stelle, tra cui distinguerei Timo Flloko ecc, che continuano ad avere delle grandi potenzialità e molto da dire alla cinematografia di oggi.
Tra le attrici donne, distinguerei Roza Anagnosti.
Nonostante io veda raramente dei film albanesi, con le sue interpretazioni, lei mi rallegra sempre e conservo quella nostalgia ed il desiderio di rivederla nuovamente.
Non so perché, ma ho scoperto che le attrici scutarine sono le mie preferite.
Attualmente, un’opera che preferirebbe diventasse il suo prossimo film?
Non saprei, queste cose rimangono top secret.
La sua vita privata come sta procedendo?
Sta entrando in territori ulteriormente segreti, Adela.
Progetti futuri professionali?
Dovremmo civilizzare questo paese, dovremmo costruire e stabilire le fondamenta di una struttura sociale, cambiandone alcune cose nella vita. Dovremmo rendere abitabile questo paese, non solo da parte di una determinata categoria di banditi. Intendo dire nei confronti della cultura, del mondo accademico e del sistema scolastico in generale. Attualmente credo che questo sia più importante di uno o più progetti individuali.
Sembra forse un po’ “Donchisciottesco”, ma un paese possiede alcuni passaggi storici che non possono essere ignorati, semplicemente per consentire ad alcuni di fare i propri comodi. Senza aver prima costruito dei sistemi funzionali in vari campi, gli sforzi individuali rimarranno in uno stato di sopravvivenza e semplicemente dall’importanza accademica o museale.
In seguito lavorerò sui miei progetti, ma in questo periodo cercherò di impegnarmi più che posso ad influenzare alcune questioni più immediate.
Ho 37 anni e non ho più tempo da perdere, so che più in avanti forse, non avrò le stesse energie. Lo ritengo come un dovere della generazione a cui appartengo – a colei che si ricorda per ultima i due sistemi – donare il suo contributo in un paese culturalmente deteriorato. Altrimenti, rischiamo di crescere una dopo l’altra, delle generazioni rassegnate, vendute dalla nascita e molto ciniche.
Ad ogni modo, tutto ciò che si fa nella propria creatività, tutto ciò che si può fare in modo più diretto per sé stessi e per gli altri, alla fine non sono poi cose del tutto estranee e distaccate, come in tanti lo potrebbero pensare.
Grazie Joni, per aver reso possibile questa gradevole conversazione e tanti auguri per il suo futuro! Attendiamo il suo prossimo film!
Grazie, auguro del successo e tanto buon lavoro anche a voi.